*Commissione Donne FGC
Molti centri antiviolenza in Italia sono stati fondati da gruppi di donne che per propria volontà hanno deciso di occuparsi di altre donne. A causa della scarsità dei finanziamenti pubblici, per portare avanti il proprio importante lavoro si conta molto sul contributo di operatrici volontarie e sul sostegno economico privato.
Una rilevazione fatta sul biennio 2013-14, in seguito all’emanazione della L.119/2013 che ha stanziato finanziamenti che le regioni hanno gestito, fa emergere come i finanziamenti pubblici siano quanto mai scarsi e disomogenei sul territorio nazionale: circa 60mila euro in Piemonte, 30mila in Veneto e Sardegna, 12mila in Puglia, 8mila in Sicilia, 12mila nelle ex province di Firenze e Pistoia, 6mila in Abruzzo e Valle d’Aosta. [1] Non vi è chiarezza su come siano stati spesi questi soldi dalle regioni, che molto spesso non sono stati proprio spesi o sono arrivati con ritardi consistenti.
Un piano questo che ha lasciato poche briciole ai centri antiviolenza che da decenni si occupano del problema. Neppure il piano di azione nazionale contro la violenza sessuale e di genere del 2015 rimedia a questa disparità, anzi i finanziamenti continuano ad essere insufficienti e mal gestiti, senza un diretto coinvolgimento dei centri antiviolenza. La rete Wave Woman against violence Europe nel suo ultimo rapporto ha censito in Italia 140 centri antiviolenza e 73 case rifugio, sottolineando la presenza di diverse iniziative di raccolta dati, senza un quadro omogeneo e univoco. Secondo un calcolo dell’Unione europea, ogni Paese dovrebbe prevedere un posto letto per vittime di violenza di genere ogni 10mila abitanti. L’Italia ne conta meno di un migliaio: ne servirebbero ancora 6mila. Ovviamente ci si fa scudo dei dettami provenienti dall’UE solo quando questi fanno veramente comodo. Lo scorso giugno lo sportello “SOS donna” del comune di Roma ha ricevuto la notifica di termine delle convenzione e con esso altri centri oggi hanno smesso di rispondere al telefono. Questo non è l’unico centro antiviolenza che si vede costretto a concludere il proprio lavoro di decenni: su diciotto centri almeno la metà rischia di scomparire.
Da Napoli a Milano, da Palermo ad Olbia, da Bari a Firenze sono moltissimi i centri che rischiano di chiudere. Eppure l’Italia nel 2015 ha ratificato la Convenzione di Istanbul che afferma che i governi dovrebbero sostenere anche economicamente i centri antiviolenza che da moltissimo tempo si occupano del fenomeno, anche in un’ottica di prevenzione. Al momento però la convezione rimane solo uno scudo di carta che viene usato in maniera puramente mediatico e propagandistico. Bisognerebbe smetterla semplicemente di indignarsi e di inorridire di fronte alle notizie di donne uccise dai propri mariti e compagni, di sprecare parole in palcoscenici politici e istituzionali, che si sprecano quando si avvicina il 25 di Novembre, quando poi queste parole non si traducono in politiche di prevenzione sociale che siano reali e concrete.
Il 26 novembre i centri antiviolenza d’Italia confluiranno a Roma per la manifestazione nazionale “Non una di meno”, indetta dalla Rete IoDecido, da D.i.Re (Donne in rete contro la violenza, che riunisce i Centri Antiviolenza non istituzionali e gestiti da associazioni di donne sparsi sul territorio nazionale) e dall’Udi (Unione donne in Italia), un evento che come donne comuniste ci sentiamo di condividere con le nostre rivendicazioni che portiamo avanti da molto tempo. “Non c’è nessuno stato d’eccezione o di emergenza: il femminicidio è solo l’estrema conseguenza della cultura che lo alimenta e lo giustifica. È un fenomeno strutturale che come tale va affrontato”, affermano gli organizzatori della giornata. Non possiamo non condividere questa analisi, che supera la concezione del fenomeno come qualcosa di puramente culturale e che quindi può essere risolto all’interno del sistema capitalistico. È un buon primo passo affermare che la violenza contro le donne sia qualcosa di strutturato in questo sistema, mettendo da parte una visione della violenza come una forma di devianza individuale, ma sottolineando invece la sua natura endemica al sistema economico e sociale in cui viviamo.
Proprio per questo la lotta non può essere elitariamente affrontata, ma essere inquadrata in un’ottica più ampia. Un sistema fatto di sfruttamento e precarietà, ( un’occupazione femminile che è ferma ormai da tempo al 46% circa ), dove le giovani donne sono costrette a dover scegliere tra la carriera e la famiglia, dove ancora esiste un divario consistente tra il salario di una donna e quella di un uomo, dove i diritti formali vengono costantemente violati: donne licenziate perché incinte, licenziamenti firmati in bianco al momento dell’assunzione da tirare fuori alla prima gravidanza, consultori familiari e ospedali pubblici invasi da obiettori di coscienza che minano le basi di un sistema sanitario gratuito e universale. Sule donne per la maggior parte ricadono gli ingenti tagli alle strutture scolastiche (le strutture per la prima infanzia per il 64% sono gestite da privati con rette non sostenibili per una normale famiglia) e ai servizi sociali.
Questo accade nel pieno di una crisi in cui sempre più donne sono private della propria indipendenza economica: anche la disoccupazione femminile infatti continua a salire. Sono chiare perciò le difficoltà che le donne, le madri possono incontrare quando si è dipendenti economicamente dal proprio partner. Con la carenza di numero di centri violenza, con la loro cronica mancanza di finanziamenti, spesso queste donne si trovano impotenti e sole, al punto di costringere se stesse e i propri figli a rimanere tra le mura domestiche. In un società mercificante e alienante, tra l’altro, dove i ruoli di genere sono fondati sulla logica del dominio e della produttività, la disoccupazione ha un effetto annichilente sugli uomini che spesso sfogano le loro frustrazioni su mogli e partner: un uomo che non produce reddito per questa società è un reietto e non ha prospettive di futuro. Le cause di questo fenomeno sono imputabili al sistema capitalista che viviamo quotidianamente, che alimenta da un lato l’imbruttimento maschile e dall’altra l’emarginazione femminile dando inizio a quella spirale di violenza che insanguina le cronache dei nostri giornali. Per spezzare questo meccanismo è allora inutile agire sul singolo caso senza intervenire alla radice del problema che si caratterizza come sociale e strutturale al capitalismo stesso. È un doppio sfruttamento quello che si abbatte sulle donne che si vedono sempre più soggiogate ad un sistema patriarcale. Quello della violenza è sintomo di questa società e, in quanto radicato in essa, è possibile eliminarlo solo in un sistema diverso, fondato su altre basi economiche e valoriali. È questo un sistema che va cambiato radicalmente, con la lotte di tutte le donne e gli uomini per una società socialista dove lo sfruttamento degli uomini e delle donne non esisterà più.
[1] http://www.ingenere.it/articoli/fondi-centri-antiviolenza-mappa-donnechecontano-2015