*di Paolo Spena (Segreteria Nazionale FGC)
Frequentare la scuola negli anni 2000, o anche l’università specialmente nelle facoltà umanistiche, significa subire un bombardamento ideologico senza precedenti, che mira a cancellare e revisionare la storia del movimento operaio, recidendo i legami fra questa storia e le nuove generazioni, che oggi godono sempre di meno dei diritti conquistati proprio dalla lotta di questo movimento.
Oggi il movimento operaio e comunista, dopo la sconfitta storica degli eventi del 1989-91, viene criminalizzato dall’ideologia del sistema che si è autoproclamato vincitore nonostante la sua crisi profonda. Una enorme falsificazione della storia, in cui le vittime diventano i carnefici e chi ha combattuto per il progresso e la democrazia diventa il nemico da demonizzare, mentre si pretende di raccontare alla gioventù, che oggi vede negato il proprio diritto a un futuro stabile e dignitoso, che il mondo di oggi è l’unico possibile. Riacquistare la capacità di analizzare in modo critico la realtà presente e passata, smascherando il contenuto di classe e la natura tutta ideologica di ciò che oggi si vuole far passare per neutralità oggettiva, è il primo passo per tornare a vincere.
È passato da poco il Giorno della Memoria del 27 gennaio. In simili giornate, si dice, bisognerebbe commemorare in silenzio, astenersi dallo scontro fra opinioni e visioni politiche evitando di sollevare discussioni che si è liberi di sollevare in altri momenti. Il problema di questo luogo comune, però, sta esattamente nella percezione falsata di ciò che è polemica e ciò che non lo è. Come spesso accade, una polemica ripetuta per anni finisce per presentarsi ai nostri occhi con una sorta di pretesa di neutralità, perdendo progressivamente il suo carattere originario fino ad essere pienamente assimilata nel senso comune. Questo è esattamente ciò che accade a questa giornata, in cui da qualche tempo alla manipolazione della verità storica (in tv è facile sentire che Auschwitz è stata liberata non dall’Armata Rossa, ma da generiche “truppe alleate”) si accompagna la litania di chi ci tiene a precisare “per onestà intellettuale” che il socialismo non è stato poi così diverso dal nazifascismo, che alla memoria di Auschwitz andrebbe affiancata la memoria delle “vittime del comunismo”, ecc. Una operazione ideologica tutt’altro che neutrale, che ha radici profonde e sulla quale è necessario fare chiarezza. Nel paragrafo seguente farò delle considerazioni sul Giorno della Memoria, per affrontare più avanti in maniera più ampia e generalizzata la questione della sussunzione del socialismo reale e del nazismo nella comune categoria del “totalitarismo”.
1) La forzatura della “memoria” in senso anticomunista.
Il Giorno della Memoria commemora una vicenda senza precedenti nella storia dell’umanità. Il 27 gennaio 1945, l’Armata Rossa dei Lavoratori e dei Contadini abbatteva i cancelli del campo di sterminio di Auschwitz, nella cittadina polacca di Oswieçim, e liberava più di 7000 prigionieri, rivelando la sua esistenza al mondo che di lì a poco sarebbe stato sconvolto dagli orrori prodotti dalla barbarie nazista. Negli anni in cui gli eventi sono avvenuti, tutti avevano chiaro che in questa storia c’erano stati dei carnefici, delle vittime e dei liberatori. Scriveva Ernest Hemingway che «ogni essere umano che ami la libertà deve più ringraziamenti all’Armata Rossa di quanti ne possa pronunciare in tutta la sua vita». Vi era forse poca chiarezza in merito a chi fossero stati i complici dei carnefici, ma era già qualcosa rispetto alla menzogna che sarebbe divenuta dominante in seguito. Già nel secondo dopoguerra iniziava un’opera sistematica di revisione storiografica volta a criminalizzare il movimento operaio e il socialismo, da un lato ridimensionando il ruolo dell’Unione Sovietica nella sconfitta del nazismo, attribuita alle truppe angloamericane[1]; dall’altro puntando ad affermare la sostanziale identità fra il socialismo reale e il nazismo. Per affermare questa tesi non si disdegna di utilizzare come fonti il materiale prodotto dalla RSI (in Italia) e dal Terzo Reich, la cui propaganda è in buona parte la fonte principale utilizzata per “provare” i presunti crimini sovietici o dei partigiani.
Oggi questo particolare revisionismo storico prosegue, e si spinge fino alla revisione del significato stesso del Giorno della Memoria, che subisce una vera e propria torsione sotto i colpi dell’ideologia dominante. Si fa strada l’idea, spesso accolta in modo tacito e quasi inconsapevole, che il Giorno della Memoria sia una giornata “di parte”, appartenente cioè a quello che per brevità, e non senza approssimazioni, può essere definito il mondo della sinistra. Nella sua variante più esplicita e becera, questa idea si esprime nelle lagne degli ambienti di estrema destra che ogni anno contrappongono le foibe, i fantomatici “100 milioni di morti del comunismo” e chissà che altro agli “appena” 6 milioni di ebrei morti nei campi di sterminio, che secondo certe teorie negazioniste non ci sarebbero neanche stati. In Italia questa visione ha trovato ampio accoglimento con l’istituzione nel 2004 del Giorno del Ricordo del 10 febbraio per le “vittime delle foibe”, concessa dal Governo Berlusconi allora in carica come contentino nei confronti della formazione post-missina Alleanza Nazionale, facente parte della coalizione di governo.
La variante “raffinata” afferma invece la giustezza della Giornata della Memoria e della commemorazione delle vittime dello sterminio nazista, salvo poi affermarne la insufficienza, condendo la considerazione con appelli all’onestà intellettuale, alla verità storica, affermando come caduto il Muro di Berlino i tempi siano ormai maturi per un bilancio “onesto” delle vicende del secolo scorso. Se i nazisti hanno costruito il lager, si dice, il comunismo ha avuto il gulag. L’URSS viene trasformata in una “dittatura totalitaria”, mentre i grandi e feroci imperi coloniali dell’Europa Occidentale (Francia e Inghilterra) diventano “democrazie” che hanno saputo battere il nazismo, con un ruolo minimo dell’URSS che anzi col nazismo fu “alleata”. Sulla base di questo teorema il Parlamento Europeo votò nel 2008 una dichiarazione in cui chiedeva la proclamazione del 23 agosto come “Giornata europea di commemorazione delle vittime dello stalinismo e del nazismo” (formulazione poi modificata in “vittime di tutti i regimi totalitari”), che vide il voto favorevole del Partito della Sinistra Europea, con la Linke tedesca in testa.
Questa impostazione si differenzia da quella dell’estrema destra soltanto per la pacatezza dell’argomentazione, ma nella sostanza non è poi così distante. Entrambe le varianti estremista e “democratica” hanno in comune una serie di elementi, primi fra tutti l’equiparazione delle vittime, o dei liberatori, con i carnefici, e la negazione di verità storiche oggettive nel nome di concezioni tanto ideologiche quanto prive di ogni fondamento. Soltanto così si può finire ad equiparare il socialismo reale al nazismo, che poi è il vero obiettivo dell’operazione ideologica in corso da decenni.
2) L’assurda equiparazione fra nazismo e comunismo: il “totalitarismo”.
Questa equiparazione, da qualsiasi punto di vista la si voglia guardare, resta priva di qualunque legame con la realtà. Lo stesso concetto di “totalitarismo”, come categoria che dovrebbe racchiudere al suo interno il nazismo e il socialismo reale, contrapposti alla “democrazia”, è un concetto del tutto ideologico, per quanto il fior fiore degli ideologi borghesi si sia sforzato di infiocchettarlo con opere monumentali tese a dimostrare l’equivalenza fra i due sistemi e a dare pretesa di oggettività a uno dei più grandi non-concetti del nostro tempo.
Il concetto di totalitarismo nasce in piena Guerra Fredda in ambienti filosofici (Hannah Arendt[2]) e politologici (Friedrich e Brzezinski[3]) del blocco occidentale, con il chiaro intento di equiparare l’URSS al Terzo Reich. In particolare l’opera di Friedrich e Brzezinski, che ha sistematizzato con pretese di scientificità una definizione di totalitarismo (che la Arendt riassumeva nella formulazione confusa del “terrore” come essenza del totalitarismo), se letta con occhio critico dimostra con assoluta evidenza come il reale bersaglio fosse l’Unione Sovietica. I due autori citano, fra gli elementi che dovrebbero caratterizzare il totalitarismo, la presenza di una “ideologia totalizzante” e del controllo pianificato e centralizzato dell’economia, entrambi elementi di cui il Terzo Reich fu sostanzialmente privo (essendo la sua economia saldamente controllata dai grandi monopoli industriali e dal grande capitale, e la sua ideologia strettamente legata al Mein Kampf e priva di una propria coerenza sistemica se confrontata con il marxismo). Il concetto di totalitarismo, lungi dall’essere oggettivo e neutrale, fu al contrario un’espressione sul piano ideologico e culturale dello scontro mondiale fra capitalismo e socialismo del secondo dopoguerra, e sembra spesso essere stato creato su misura per l’URSS più che per il Terzo Reich. Una felice formulazione di Domenico Losurdo contestualizza bene la genesi del concetto di “totalitarismo”: «Con lo scoppio della Guerra Fredda, ognuno dei due antagonisti si impegna a bollare nell’altro l’erede del Terzo Reich poco prima congiuntamente abbattuto […] mentre il filosofo comunista, facendo leva sulla categoria di imperialismo, accosta Truman e Hitler, sul versante opposto si fa ricorso alla categoria di totalitarismo, per sussumere sotto di essa Germania nazista e Unione Sovietica»[4].
A riprova di quanto questo concetto sia intrinsecamente strumentale e tutt’altro neutrale, basti pensare che Zbigniew Brzezinski, co-autore della principale opera che ha sistematizzato questa categoria, è stato Consigliere per la Sicurezza Nazionale negli USA durante la presidenza di Jimmy Carter, fautore del sostegno al regime cambogiano di Pol Pot in funzione antisovietica, sostenitore dei mujaheddin (jihadisti) in Afghanistan contro il governo filo-sovietico del Partito Democratico del Popolo Afghano, nonché teorizzatore nel 1997 dello smembramento della Russia post-sovietica[5]. Basterebbe questo per dubitare legittimamente delle presunte “oggettività” e “neutralità” del concetto di regime totalitario.
A distanza di decenni, la categoria del totalitarismo appare ancor più infondata storicamente. Una lettura che sussuma due sistemi radicalmente opposti sotto la stessa categoria, ignorando i rapporti di forza fra le classi sociali, ignorando cioè la natura di classe dei due sistemi, non può avere nessuna pretesa di scientificità. Non pochi storceranno il naso dinanzi a questa affermazione. La verità è che l’ideologia borghese, e ancor più il mondo accademico borghese, è disposto ad accettare un’analisi di classe soltanto finché questa conviene, cioè finché questa analisi si presta alla conservazione dei rapporti di classe esistenti, senza metterli in discussione. Nei corsi di diritto pubblico o di diritto costituzionale, ad esempio, si fa cenno ad uno “Stato liberale” Ottocentesco, definito “monoclasse” in quanto appannaggio della sola classe borghese, che lascia il posto a uno “Stato democratico sociale e pluralista”, espressione di tutte le classi sociali (o almeno questo si afferma). Sempre secondo questa visione accademica, oggi accettata come neutrale e oggettiva, in alcuni Stati la crisi dello stato liberale non ha portato subito all’evoluzione nella fantomatica democrazia “pluralista”, ma ad una parentesi intermedia in cui la democrazia “liberale” è regredita temporaneamente a uno stadio dittatoriale autoritario/totalitario, nelle due “varianti” fascista (Italia fascista e Terzo Reich prima, Spagna e Portogallo poi) e socialista (Unione Sovietica e campo socialista).
Come per magia, nella vulgata dei “regimi non democratici” scompare ogni accenno alla differente natura di classe di questi sistemi, che pure nel caso della “democrazia” si è disposti a sostenere (in modo errato, certo), per lasciare il posto a formulazioni generiche di altro tipo relative alla conformazione istituzionali dello Stato. Ma per quanto si possa storcere il naso, il socialismo e il nazifascismo sono intrinsecamente opposti e inconciliabili proprio in virtù della loro natura di classe radicalmente opposta, ed è proprio questa la chiave più importante per smascherare la natura tutta ideologica dell’idea di “totalitarismo”.
3) La natura di classe dei due sistemi.
Negli anni ’30, con l’ascesa del Partito Nazista in Germania e la reazione anticomunista in Spagna contro la Repubblica, fu chiaro a tutti che il fascismo non era un fenomeno strettamente italiano, ma la forma specifica assunta da un gigantesco attacco che in quegli anni, sconfitte le rivoluzioni nate sull’onda della Rivoluzione d’Ottobre, il grande capitale conduceva contro i diritti dei popoli e dei lavoratori in tutta l’Europa. Una risoluzione dell’Internazionale Comunista definì giustamente il fascismo come «la dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario». Questa caratteristica del nazifascismo è evidente tanto nelle vicende che portano alla genesi del nazifascismo, tanto nella sua natura socio-economica.
Una delle più grandi falsificazioni ideologiche del nostro tempo è quella che pretende di leggere come fenomeni antitetici e contrapposti il fascismo e la “democrazia”, laddove con quest’ultimo termine si intende la forma specifica della democrazia borghese. Questa idea è stata in realtà costruita a posteriori, ma la realtà storica è molto diversa. Storicamente, il fascismo giunge al potere in piena continuità con la democrazia borghese, della quale si presenta ovunque come il naturale e ulteriore sviluppo, un lusso di cui mai nella storia il socialismo ha goduto. Gli unici casi in cui il fascismo attua una rottura netta con l’ordinamento precedente sono relativi alle vicende in cui partiti comunisti e socialisti giungono al governo tramite le elezioni: la Spagna, pur nella profonda complessità di una situazione che sfociò in guerra civile, e soprattutto il Cile, che nel 1973 vede il colpo di Stato fascista di Pinochet, sostenuto dalla CIA. In questi casi il fascismo, più che una vera e propria rottura, opera piuttosto una difesa del sistema borghese, che è disposto a sopprimere l’ordinamento democratico laddove questo si dimostra incapace di tutelare i rapporti di classe capitalistici. Su questo tema rimando all’ottimo articolo di Alessandro Mustillo, pubblicato su Senza Tregua nel 2013 con il titolo “Democrazia protetta e socialismo”.
In Italia il fascismo avanza, come reazione ai moti operai del Biennio Rosso, grazie all’ampio sostegno di settori della grande borghesia. Il 28 ottobre 1922 Mussolini inscena la Marcia su Roma, presentata impropriamente come una “rivoluzione”. Nei fatti, il Re e il Governo scelsero di non reagire e anzi consegnano il potere a Mussolini, che divenne capo del Governo. Iniziò un periodo di semi-legalità, in cui cresceva lo squadrismo fascista contro il movimento operaio e crescevano esponenzialmente gli atti repressivi delle forze statali, con centinaia di dirigenti comunisti e socialisti arrestati. Il fascismo italiano al potere fu la dittatura aperta e priva di veli del grande capitale sulle classi popolari. Quando si dice che il fascismo fu “buono”, bisogna sempre chiedersi per quale classe. In effetti lo fu per una parte della popolazione italiana: quella degli industriali e dei latifondisti. Il famoso “corporativismo” fascista, da tanti “confusi” scambiato per una forma socialismo, altro non era che la forma giuridica-economica tramite cui si concretizzava la dittatura del grande capitale. Con l’ordinamento corporativo, le associazioni padronali (cioè le associazioni dei grandi proprietari, degli industriali, dei latifondisti ecc) divennero istituzioni pubbliche, lo stesso valeva per i sindacati fascisti, gli unici permessi (che tutto rappresentavano tranne gli interessi dei lavoratori): gli accordi concernenti le condizioni di lavoro erano semplicemente imposte ai lavoratori, che erano privi di qualunque forza contrattuale e impossibilitati ad alzare anche solo minimamente la testa, ridotti a uno stato di semi-schiavitù. Lo Stato fascista divenne un’espressione organica, nel senso più letterale del termine, della grande borghesia al potere, privo persino del velo illusorio della democrazia rappresentativa: un “comitato d’affari” della borghesia ancor più evidente rispetto alla democrazia borghese. Il fascismo mai modificò gli assetti economici e di proprietà, che anzi difese strenuamente (ad esempio con la fondazione dell’IRI, nata per salvare con soldi pubblici una serie di grandi banche private), e fu in sostanza una delle forme in cui il potere del capitale trovò la sua espressione statale e politica.
In Germania la natura del nazismo come espressione del capitale finanziario fu se possibile ancora più evidente. L’ascesa di Hitler fu un qualcosa di molto più grande del fascismo italiano, il quale fu inizialmente percepito come un fenomeno nazionale avendo, come scrisse Gramsci, “la sua base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria”[6] che consegnarono il potere alla grande borghesia. Hitler proclamava a gran voce e senza mezzi termini di voler annientare il bolscevismo, e per questo a sostenerlo nella sua scalata al potere c’erano l’alta finanza internazionale (inclusa Wall Street), gli industriali e i banchieri tedeschi (come Thyssen, Krupp, Schacht) e diverse corporations degli Stati Uniti (Standard Oil, Ford, General Motors, Coca Cola, JP Morgan, General Electric ecc)[7]. Le “democrazie” europee restarono a guardare fino all’ultimo, tacendo dinanzi a ogni intervento imperialista del Terzo Reich, dai bombardamenti nazisti nella guerra civile spagnola all’occupazione di parte della Cecoslovacchia. Una profonda responsabilità nell’ascesa del nazismo da parte dei paesi occidentali, che rifiutarono ogni alleanza in chiave antinazista proposta dall’URSS; che alla fine fu costretta alla firma del Patto di non-aggressione proposto dalla Germania[8].
L’Unione Sovietica, che nel frattempo viveva un periodo di sviluppo economico e profonda trasformazione sociale con i suoi primi due piani quinquennali, era il bersaglio dichiarato del nazismo. Il sistema sovietico era radicalmente diverso dal sistema vigente nel Terzo Reich o nell’Italia fascista (che pur tuonando contro le “plutocrazie” non costituirono nulla di diverso, essendo tutt’al più espressione di una fazione differente della borghesia imperialista europea). È noto il famoso slogan di Lenin lanciato con le tesi di Aprile: “tutto il potere ai Soviet”. Meno noto, non essendo oggetto di insegnamento nelle scuole, è il significato profondo di questo passaggio politico. L’idea stessa di fondare uno Stato che affondi le sue radici nelle organizzazioni di massa dei lavoratori (i Soviet), ha segnato una profonda rottura con ogni concezione borghese della democrazia, fornendo al contempo un esempio concreto di quella che Marx prima, Lenin poi avevano chiamato dittatura del proletariato dopo la Comune di Parigi. Lo Stato sovietico era uno Stato operaio, espressione organica del potere dei lavoratori, potere che si esercitava sotto la guida del Partito Comunista[9]. L’economia sovietica era un’economia socialista, fondata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e sulla pianificazione centralizzata, l’esatto opposto dell’economia di mercato vigente tanto nei paesi democratici quanto negli Stati fascisti. L’art. 3 della Costituzione dell’URSS del 1936 afferma che “tutto il potere nell’URSS appartiene ai lavoratori della città e della campagna, rappresentati dai Soviet dei deputati e dei lavoratori”. Gli articoli 94-97 stabiliscono che i Soviet dei lavoratori sono addirittura “organi del potere statale nei territori, nelle regioni, nelle regioni autonome, nei circondari, nei distretti, nelle città e nei villaggi” (art 94), e che “i Soviet dei deputati dei lavoratori dirigono l’attività degli organi di amministrazione ad essi sottoposti, assicurano la tutela dell’ordine statale, l’osservanza delle leggi e la tutela dei diritti dei cittadini, dirigono l’edificazione economica e culturale locale e stabiliscono il bilancio locale” (art 97).
Il fatto che i deputati siano definiti “deputati dei lavoratori” non è un dato meramente formale, ma sostanziale: l’ URSS non fu in questo senso un paese di “cittadini”, ma una vera e propria repubblica dei lavoratori. Un cittadino italiano identifica lo Stato, o le sue emanazioni, guardando al Comune di residenza (con il suo Consiglio Comunale e la sua Giunta), alla sua Regione (con relativi Consiglio e Giunta Regionale, ecc), organi eletti da elezioni che coinvolgono i cittadini in senso generico. Si compia adesso l’operazione mentale di sostituire agli organi appena citati l’idea di assemblee territoriali elette non dai “cittadini” residenti in quel territorio, ma elette piuttosto dalle fabbriche, dalle aziende agricole, dai soldati[10], composta cioè dai rappresentanti eletti dalle unità produttive di quel territorio; si avrà una idea di cosa era l’Unione Sovietica e di cosa significava nella sostanza la natura socialista dell’URSS. Nei Soviet si discuteva dell’economia, dei piani quinquennali, dei temi di indirizzo politico e strategico del paese, degli obiettivi da conseguire a livello locale per avanzare sul terreno della costruzione del socialismo. La stessa Costituzione sovietica del 1936, approvata dopo un lungo dibattito che coinvolse i Soviet (cioè i lavoratori) di tutto il paese, fu uno straordinario esempio di coinvolgimento delle masse nella vita politica. Piuttosto che una “dittatura”, l’Unione Sovietica fu una forma di democrazia nuova, che certo non aveva nulla a che vedere con la democrazia borghese. Se si pretendesse di analizzare il sistema sovietico prendendo a modello le caratteristiche della democrazia borghese, cioè gli elementi che secondo la concezione borghese costituiscono la democrazia, si concluderebbe che l’URSS fu effettivamente una dittatura. Ma siamo sicuri che la democrazia sia definibile “in assoluto”? O, al contrario, la nozione di democrazia comunemente accettata è essa stessa ideologica, e tutt’altro che neutrale?
4) I concetti di “democrazia” e “dittatura”.
Spesso si afferma che il socialismo reale è stato una dittatura al pari del fascismo, senza rendersi conto che i concetti di “democrazia” e “dittatura” a cui si fa riferimento sono ideologici e volatili. Scriveva Lenin che la domanda fondamentale che bisogna porsi quando si parla genericamente di democrazia è per quale classe sussista questa democrazia. Allo stesso modo, quando si parla di diritti, non si può trascurare che ogni classe sociale ha una sua propria concezione dei diritti che spettano agli uomini. Una classe che considera proprio diritto quello di sfruttare il lavoro altrui per ricavarne profitto privato, a scapito degli interessi della stragrande maggioranza della popolazione, non può che tuonare contro la “dittatura” esercitata nei paesi socialisti in cui questo “diritto” viene effettivamente negato. Se il socialismo è stato una dittatura, lo è stato in questo senso, cioè una dittatura dei lavoratori esercitata sulle vecchie classi dominanti spodestate; il fascismo fu al contrario la dittatura feroce della grande borghesia contro le classi popolari. Spesso si obietta che la democrazia cosiddetta “pluralista” è una vera democrazia poiché include nel processo decisionale tutte le classi sociali, ma si dimentica la già citata questione della democrazia protetta, o ancor più nello specifico la questione della protezione della “democrazia” dall’esterno. Si dimentica, cioè, che ogni qualvolta nella storia le istituzioni democratico-borghesi hanno fallito nel proteggere il sistema borghese dal movimento operaio, sono state rapidamente eliminate per lasciare il posto a una dittatura fascista. È noto che in Italia esisteva, nella Prima Repubblica, un vasto apparato sub-statale composto da settori dei servizi segreti, organizzazioni mafiose e neofasciste, logge massoniche e organizzazioni para-militari, pronto a intervenire in difesa della “democrazia” in caso di una vittoria elettorale del PCI, esattamente come avvenuto in Cile nel 1973. La democrazia “pluralista” è una delle forme statali in cui viene attuata la dittatura del capitale; certo è la forma in cui i rapporti di forza sono più vantaggiosi per la classe lavoratrice, e in cui il movimento operaio gode di maggiore agibilità politica, ma la natura intrinsecamente classista di questa forma di Stato non può essere ignorata.
Si potrebbe continuare a lungo con questa riflessione; la lezione più importante da tenere a mente è che la democrazia è tutt’altro che definibile in assoluto; al contrario ogni classe sociale che giunge al potere instaura una sua democrazia sulla base del sistema economico-sociale di cui è portatrice, esercitando una forma di dittatura sulle classi subalterne. Parlare di paesi “non democratici”, o di sistemi “autoritari” o “totalitari” senza fare cenno della loro natura di classe, è un’operazione tutt’altro che scientifica e oggettiva, ma al contrario tutta ideologica, che solo un pensiero accademico asservito all’ideologia borghese dominante può considerare neutrale e oggettiva.
5) La questione del partito unico.
I teorici del totalitarismo fanno propria la tendenza, diffusa in politologia, di considerare più importanti gli assetti istituzionali rispetto alla realtà socio-economica di cui sono espressione, e dunque di ritenere più “scientifica” un’analisi che guardi a questi aspetti. Solo in questo modo si può affermare la convergenza fra il sistema socialista e il nazifascismo, appellandosi a quelle che sono similitudini soltanto apparenti, che si cerca di elevare a “prove” tangibili della tesi di fondo. Uno degli elementi con cui più di tutti avviene questa operazione (assieme a quella trattata nel paragrafo successivo) è sicuramente la natura monopartitica di entrambi i sistemi. Un’argomentazione suggestiva, certo, che però può essere presa sul serio e ritenuta “oggettiva” soltanto se si sceglie di non guardare alle classi sociali. Ma proprio questa scelta di partenza è in sé profondamente ideologica e tutt’altro che oggettiva.
Tutti i sistemi socialisti si affermano, storicamente, come sistemi a partito unico o comunque con un partito o una coalizione predominante. È forse questa una similitudine con il fascismo? Certo che no, e la ragione sta proprio nei motivi elencati fin’ora. Più nello specifico, il Partito Comunista nei sistemi socialisti opera come guida politica e ideologica della democrazia proletaria (o della dittatura del proletariato, che è lo stesso). È un partito che non mira a sussumere tutti i cittadini, ma ad essere il reparto d’avanguardia della classe lavoratrice. In Unione Sovietica la dittatura del proletariato era esercitata dai Soviet (cioè dalle assemblee dei lavoratori) attraverso la guida del Partito. Il Partito Comunista e i Soviet non erano coincidenti, né tantomeno erano organismi completamente separati. Esisteva al contrario un continuo rapporto dialettico: in ogni territorio il Partito Comunista cresceva e si rafforzava nei Soviet e attraverso i Soviet, conquistando l’adesione al Partito (o alla Gioventù Comunista) dei membri più avanzati e coscienti del Soviet, cioè della classe lavoratrice; al contempo, il Soviet portava avanti il suo lavoro sulla base dell’indirizzo politico fornito dal Partito Comunista, il cui ruolo guida non era imposto dall’alto, ma legittimato proprio dal fatto che esso era costituito dai membri di avanguardia dei Soviet. Nei sistemi socialisti, il Partito è lo strumento attraverso cui la classe lavoratrice forgia la nuova società, lottando contro i residui del vecchio sistema; gli organismi di rappresentanza dei lavoratori (i Soviet in URSS, gli organismi analoghi negli altri paesi) costituiscono la vera base della democrazia socialista.
Nei sistemi fascisti, al contrario, il Partito unico diventa il principale strumento di oppressione nelle mani della grande borghesia, e tende all’inquadramento totalitario[11] dei lavoratori come misura repressiva, eliminando per i lavoratori ogni forma di libertà, di agibilità politica e di opposizione alle politiche padronali. I partiti fascisti nascono storicamente come “partiti-milizia”, formati cioè da milizie paramilitari e squadracce nate con l’obiettivo di reprimere ogni forma di lotta organizzata del movimento operaio, ed è su questa base che giungono al potere, utilizzando tutti gli strumenti forniti dal potere statale per reprimere i lavoratori, nell’interesse della grande borghesia e dei monopoli finanziari.
Vale la pena formulare, in aggiunta a questa analisi, alcune considerazioni sugli aspetti più strettamente “istituzionali” e giuridici. Il sistema sovietico, e in generale i sistemi socialisti, erano sostanzialmente legittimi dal punto di vista giuridico. Ogni paese socialista ha avuto una sua Costituzione, che definiva la natura del sistema economico e della democrazia socialista, attribuendo determinati ruoli agli organismi statali, alle rappresentanze dei lavoratori e (non in tutti i casi) al Partito Comunista. Al contempo, ogni paese socialista è nato in aperta rottura con l’ordinamento precedente. Il “paradosso” solo apparente del fascismo italiano e del nazismo tedesco, invece, fu che si trattò di regimi tanto “anticostituzionali” sul piano del diritto, quanto in sostanziale continuità con il passato dal punto di vista socio-economico. Negli Stati fascisti il Governo emanava leggi in aperta violazione della Costituzione, o che “sospendevano” diritti previsti dalla Costituzione (come le “leggi fascistissime” in Italia, o il decreto del Reichstag e il decreto dei pieni poteri in Germania) senza trovare grande opposizione; ciò finiva per rendere le Costituzioni di questi paesi solo formalmente in vigore, ma in realtà disapplicate. Il fascismo, insomma, si caratterizza come una dittatura sostanzialmente extra-legale del partito fascista, mantenuto al potere dagli apparati di potere della borghesia.
In merito alle democrazie “pluraliste”, è un abbaglio ritenere che dal multipartitismo scaturisca una “democrazia” per la classe lavoratrice, per due principali ragioni fra loro speculari. Quando i partiti esistenti si equivalgono nell’accettazione del sistema capitalista come unico orizzonte possibile, e discutono al più delle modalità di gestione di questo sistema, può esistere sì l’alternanza al governo fra questi partiti, ma nessuna reale alternativa: si resta all’interno dello stesso recinto, ma si decide da quale lato ci si può spostare. Quando al contrario, nella rosa del pluripartitismo, sono presenti partiti comunisti di una certa rilevanza, sono gli stessi teorici borghesi che parlano di una democrazia “immatura” poiché ancora “minacciata” dalla presenza di questi partiti. Gira e rigira, il dato fondamentale che emerge è che l’interesse fondamentale non sta nella difesa di una imprecisata “democrazia”, ma piuttosto nella difesa del sistema capitalistico-borghese che in modo ideologico viene identificato con la democrazia.
6) L’universo concentrazionario: lager e gulag.
Un discorso a parte merita la questione dei campi di concentramento. Su questo aspetto più che su ogni altro è stata detta ogni falsità, fino a costruire una vera e propria mitologia dell’universo concentrazionario, a partire dalla celebre opera di Solženicyn[12]. Nazismo e comunismo, dice il pensiero unico, sono uguali perché hanno avuto i campi di concentramento. Quando si affronta questo tema, forte è la tentazione di innescare una battaglia di revisione a colpi di fonti, più o meno attendibili e fra loro contraddittorie, su tutto ciò che riguarda l’argomento e in particolare su ciò che interessa i liquidatori da bar, vale a dire il numero di morti. Il Libro nero del comunismo di Courtois non avrebbe venduto così tante copie senza la vera e propria barzelletta storica dei 100 milioni di morti, testimoniati da illustri e neutralissime fonti come il materiale di propaganda del Terzo Reich (sic!).
La tentazione di rispondere in questi termini è sempre forte, ma da evitare sia perché snaturerebbe il senso di questo articolo, sia per non fornire ai teorici degli opposti estremismi un facile (ma fuori luogo) parallelismo con i negazionisti dell’Olocausto. È più importante dimostrare la totale infondatezza di ogni equiparazione fra il lager e il gulag che miri a farne una testimonianza della natura “totalitaria” dei due regimi; infondatezza non tanto sul piano quantitativo (la famosa questione dei morti) ma qualitativo.
Chi equipara il lager al gulag dimentica due caratteristiche principali dei campi di concentramento nazisti: erano campi di sterminio, ed erano anche un crimine di guerra e un crimine contro l’umanità (è indicativo che i nazisti tenessero sostanzialmente nascosta l’esistenza dei campi, e che durante l’avanzata dell’Armata Rossa si siano affannati ad evacuare i campi e soprattutto a distruggere le prove della loro esistenza e del loro utilizzo, coscienti della natura criminosa del loro operato). E, soprattutto, chi fa questa equiparazione ignora una terza caratteristica fondamentale del lager, che oggi viene nascosta ad arte dalla storiografia borghese: il campo di sterminio hitleriano non fu il punto massimo di una presunta “follia” hitleriana, ma al contrario è un fenomeno direttamente legato alla natura del nazismo come aggressione internazionale dei grandi monopoli finanziari contro l’Unione Sovietica, il paese nato dalla Rivoluzione d’Ottobre che da decenni terrorizzava i padroni di tutta Europa. Come già accennato, il nazismo sin dai suoi albori dichiara di voler spazzare via “il bolscevismo” dalla terra e ottiene per questo il sostegno della grande finanza e degli industriali. E infatti il problema del finanziamento della guerra è costante negli anni ’30, e impegna tutta l’attività del Terzo Reich. Basti pensare che il banchiere Hjalmar Schacht, presidente della Reichsbank e Ministro dell’economia (nonché finanziatore di Hitler sin dai tardi anni ’20), viene rimosso dal suo incarico nel ’37 proprio per aver espresso parere contrario alle enormi spese militari.
Per capire il campo di sterminio bisogna comprendere l’assoluta centralità per i nazisti del problema del finanziamento della guerra. Pochi sanno che il “collaudo” del lager fu il programma “Aktion T4”, cioè lo sterminio sistematico sin dal 1933 di malati incurabili e portatori di handicap, motivato con il risparmio che ciò avrebbe comportato per le casse pubbliche. L’antisemitismo ebbe in questo contesto una doppia funzione: da una parte servì, assieme alla propaganda nazionalista, a compattare i tedeschi (padroni e lavoratori) contro il “nemico esterno”, giustificando così un maggiore sfruttamento economico della classe operaia; dall’altra fu funzionale all’utilizzo delle proprietà degli ebrei tedeschi (così come dei malati e delle altre categorie perseguitate) per il finanziamento della guerra. È noto, infatti, che centinaia di industriali e banchieri in Germania erano ebrei. Alcuni vedono in questo dato storico la prova di una presunta vocazione “anticapitalistica” del nazismo, ma nulla potrebbe essere più errato. Ciò che spesso si trascura è che deportare un ebreo (o un’intera famiglia) significava espropriare tutte le sue proprietà; nel caso delle ricche famiglie ebree, significava garantire l’afflusso di ingenti quantità di denaro nelle casse dello Stato, pronte ad essere investite nella costruzione della macchina da guerra nazista. Durante la guerra, il Terzo Reich ha costruito campi di sterminio anche al di fuori della Germania, nei territori occupati militarmente, deportando sistematicamente le popolazioni locali. L’orrore degli assassinii di massa, delle camere a gas, dei forni crematori, non conosce precedenti nella storia e non è paragonabile a nient’altro. Anche in questo caso, la soluzione finale della “questione ebraica” risponde del tutto alle ciniche logiche della guerra hitleriana. Dopo aver deportato milioni di persone nei campi di concentramento ed averne espropriato le ricchezze, lo sterminio di massa appare ai nazisti come una “razionalizzazione” delle risorse e una inevitabile necessità economica: era economicamente impensabile, in piena guerra e soprattutto dopo la battaglia di Stalingrado e l’inizio della ritirata, sostenere il costo del mantenimento di milioni di prigionieri. A tutto questo si sommava il fatto che migliaia di deportati, anche prima della guerra, finirono a lavorare forzatamente al servizio di grandi industrie tedesche: un legame ancora più diretto fra la deportazione e il profitto privato capitalistico.
Oggi questa visione della storia è stata completamente rimossa, perché scomoda agli occhi dell’ideologia dominante. Ad una analisi oggettiva delle vicende storiche, capace di inquadrare le responsabilità di classe nella genesi dell’orrore del nazismo, è stata sostituita un’impostazione di tutt’altro tipo, che è quella che ci viene propinata dai testi scolastici e universitari. Il punto più basso viene toccato però da un certo filone storiografico, di origine statunitense, che propone una lettura del “totalitarismo” attraverso un’analisi psicologica dei “dittatori. Si promuove l’idea che il nazismo e l’Olocausto furono il prodotto della semplice follia di Hitler, e l’attenzione storiografica viene spostata dalla realtà socio-economica alle presunte perversioni sessuali di Adolf Hitler, ai suoi traumi infantili, al suo rapporto con la nipote ecc. Non a caso questo stesso filone si focalizza sull’analisi della presunta “paranoia” di Stalin col fine neanche troppo velato di sostenere l’idea dell’identità fra i “regimi totalitari”, che altro non sarebbero che il prodotto di dittatori semplicemente psicopatici. La verità è che Hitler matto non lo era neanche un po’, e un’analisi come questa è funzionale a nascondere le vere responsabilità del nazismo e del grande capitale che lo ha generato. Ridurre la soluzione finale alla “follia” di Hitler o comunque dei nazisti, ignorando il pesante coinvolgimento dell’apparato dello Stato (a partire dalle ferrovie), così come delle imprese che fornivano le strutture necessarie, significa semplicemente negare la storia. Riprendendo una formulazione precedente, il nazismo fu una gigantesca aggressione internazionale del grande capitale finanziario contro l’Unione Sovietica “colpevole” di aver liquidato il capitalismo; un piano criminale di cui il lager fu parte integrante. Leggere il lager al di fuori di questo progetto criminale significa produrre ideologia; equiparare il lager al sistema gulag dell’URSS significa fare altrettanto.
7) Il gulag e la rieducazione tramite il lavoro
Il sistema gulag (la parola russa indica l’amministrazione centrale dei campi di lavoro), lungi dal costituire un crimine di guerra e dall’essere minimamente paragonabile agli orrori del nazismo, era parte integrante del sistema carcerario dell’Unione Sovietica, amministrato dallo Stato, a differenza dei lager nazisti che erano gestiti dalle SS (le quali non erano un apparato dello Stato, ma la milizia paramilitare del partito nazista). Il principio del gulag era quello della rieducazione tramite il lavoro. Chi storce il naso con scetticismo dinanzi a questo enunciato, affermando che “anche i nazisti li definivano campi di lavoro”, probabilmente ignora che la pedagogia sovietica si è sviluppata proprio attorno all’idea del ruolo fondamentale del lavoro nell’educazione dell’individuo e del cittadino della società socialista. Forse stupirà scoprire che il Codice Penale dell’URSS non contemplava l’ergastolo, proprio perché contrario al principio della pena come fase di rieducazione, prevedendo come massima condanna la reclusione per 25 anni[13]. Un sistema carcerario ispirato al principio rieducativo, inserito in un sistema economico che garantiva la piena occupazione e quindi il reale reinserimento nella società dell’ex detenuto (a differenza del sistema carcerario italiano, verrebbe da dire).
Sarebbe da sciocchi credere che nel sistema gulag non ci siano stati eccessi, errori o anche crimini di una certa entità. Nessuno nega che ci siano stati morti nel gulag. Certo, è questione complessa, da una parte perché le vicende si incrociano con periodi controversi della storia sovietica (la lotta di classe nelle campagne contro i kulaki fra gli anni ’20 e ’30, le purghe nel partito fra il ’36 e il ‘38) che meriterebbero da soli una trattazione a parte; dall’altra perché casi di campi costruiti in regioni geografiche oggettivamente inabitabili, in cui a trovare la morte per il gelo erano anche le guardie oltre ai prigionieri e su cui per questo vennero aperte inchieste, difficilmente sono imputabili alla natura “totalitaria” del regime sovietico.
Il punto fondamentale è che ogni equiparazione fra il sistema carcerario sovietico e i lager nazisti è del tutto fuori luogo, pretestuosa e funzionale ad un’operazione di revisione ideologica della storia che mira a criminalizzare il movimento operaio e più in generale ogni tentativo di costruire un sistema diverso dal capitalismo. Come affermò Ludo Martens commentando “Arcipelago Gulag” di Solženicyn: «Questo uomo è diventato la voce ufficiale per il 5% di zaristi, borghesi, speculatori, kulaki, sfruttatori, mafiosi e Vlasoviani, tutti legittimamente repressi dallo stato socialista».
8) La nostra storia e la coscienza da riconquistare
La capacità di pensiero critico è uno strumento prezioso per il movimento operaio e comunista, che da sempre progredisce grazie all’analisi critica e alle lezioni apprese dalla propria esperienza maturata sul terreno della lotta contro lo sfruttamento, per una società più giusta. Ma la critica fatta con le armi del nostro avversario non solo non costruisce nulla, ma al contrario disgrega. Tanti compagni, o potenziali compagni, oggi subiscono passivamente l’ideologia dominante, non trovando una lettura alternativa della società e della storia, e alla fine si trasformano in anticomunisti viscerali senza neanche rendersene conto.
Essere capaci di analizzare la nostra storia con i nostri strumenti resta di fondamentale importanza per la rinascita di un movimento e di un Partito rivoluzionario. Gramsci diceva giustamente che il marxismo è una scienza e una dottrina autonoma rispetto a tutte le branche del pensiero borghese. Oggi in tanti, partendo dall’idea fuorviante del marxismo come “estrema sinistra”, confondono il comunismo con il radicalismo borghese (il cosiddetto “libertarismo”) e finiscono per giudicare la storia del movimento operaio e del socialismo reale ricorrendo a categorie proprie dell’avversario di classe. Si parla di diritti negati avendo in testa l’idea dei diritti borghesi come immutabili e naturali, quando invece corrispondono a una determinata fase, temporanea e destinata a essere superata, dello sviluppo dell’uomo. Si parla di democrazia avendo come modello assoluto la democrazia borghese; si parla di libertà avendo in testa le libertà borghesi, e si finisce a giudicare il socialismo reale in base a ciò che la classe borghese considera “buono” o “cattivo”. Si crede a chi dice che l’“analisi di classe” in senso marxista è “di parte” e non oggettiva, ma non si tiene conto del fatto che anche la visione che si presenta come “neutrale” è anch’essa un’analisi di classe, ma della classe avversaria.
Vale la pena riportare a tal proposito la risposta data da Stalin alla domanda di un giornalista circa la libertà della persona in Unione Sovietica: «Noi abbiamo costruito questa società non per ledere la libertà personale, ma perché la persona umana si senta realmente libera. L’abbiamo costruita nell’interesse di una effettiva libertà personale, di una libertà senza virgolette. Per me è difficile immaginare quale può essere la «libertà personale» di un disoccupato che ha fame e non trova lavoro. La libertà effettiva si ha soltanto là dove è abolito lo sfruttamento, dove non c’è oppressione di una persona da parte di un’altra, dove non c’è disoccupazione e accattonaggio, dove l’uomo non trema al pensiero che domani potrà perdere il lavoro, l’abitazione, il pane. Soltanto in tale società è possibile una libertà personale, e qualsiasi altra libertà, effettiva e non fittizia». Parole di un’attualità incredibile specialmente oggi, nel pieno della crisi del capitalismo, in cui emerge con forza la contrapposizione fra la “libertà” e i “diritti” di una ristretta minoranza (banchieri, industriali, finanzieri), garantiti a ogni costo, e i diritti dei popoli e dei lavoratori che vengono schiacciati nel nome del profitto di un pugno di persone.
La storia dell’Unione Sovietica e del socialismo reale è la nostra storia, la storia dei lavoratori che in un terzo del mondo instaurarono il potere socialista, rovesciando un vecchio sistema di sfruttamento per costruire una società nuova e resistendo per decenni contro l’imperialismo; in quanto tale spetta a noi difenderla. I nostri anni assomigliano molto a quelli della “restaurazione” che seguì la sconfitta di Napoleone e della rivoluzione francese. I teorici e gli analisti che oggi celebrano il trionfo del capitalismo, predicando la fine della lotta di classe e relegando il socialismo reale fra gli “orrori” del passato, sono molto simili ai reali e agli aristocratici di tutta Europa che nel 1815, riuniti al Congresso di Vienna, si rimettevano le parrucche in testa mentre proclamavano che l’Ancien Regime corrispondeva all’ordine naturale delle cose. Alla fine la Restaurazione del vecchio ordine feudale nel 1800 fu spazzata via da una nuova ondata di rivoluzioni.
Oggi l’Unione Sovietica non esiste più, ma sopravvivono i semi che l’hanno generata, e sono ancora attuali le ragioni che 100 anni fa hanno spinto milioni di uomini a lottare per costruire una società più giusta, libera ed eguale. Il castello di carte della “democrazia” borghese, del capitalismo come orizzonte finale della storia, crolla rovinosamente dinanzi alla realtà della crisi, all’incubo della disoccupazione e di un futuro senza diritti, alla povertà e alla miseria in cui vivono milioni di persone nel mondo mentre un pugno di persone detiene quote esorbitanti della ricchezza mondiale e ha facoltà di decidere le sorti di interi popoli.
Erich Honecker, presidente della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est), disse che «il socialismo reale ha terrorizzato il capitalismo più di ogni critica», e aveva ragione: la criminalizzazione del socialismo è l’arma ideologica con cui questo sistema si difende dall’unico movimento reale che storicamente si è dimostrato capace di rovesciarlo e di costruire una società alternativa. Contro questa criminalizzazione, che nelle sue forme più avanzate sfocia nella repressione aperta, con la messa al bando dei Partiti Comunisti in diversi paesi europei nel nome della lotta al “totalitarismo”, i comunisti si battono. Chi a sinistra fa abiura, vergognandosi di questa storia fino a rinnegarla, semplicemente non è comunista. La soluzione per rilanciare il movimento comunista non sta nel recidere i legami con il proprio passato, affannandosi in una ricerca del “nuovo” in cui si finisce per riesumare il vecchio; sta piuttosto nell’assumere sulle nostre spalle l’enorme patrimonio storico di cui siamo eredi, senza doverci sentire in colpa o vergognarcene, e ricominciare ad attaccare.
———-
[1] La seconda guerra mondiale fu combattuta sostanzialmente su un solo fronte principale, il cosiddetto “fronte orientale” che vide lo scontro fra URSS e Terzo Reich, e una serie di fronti secondari in Europa Occidentale, Italia, Africa e Asia. Nessuno di questi fronti secondari è lontanamente paragonabile al fronte orientale per estensione, intensità dei combattimenti, numero di unità militari e armamenti o numero di morti. La storiografia filo-occidentale nella Guerra Fredda, tuttavia, ha avuto come obiettivo quello di negare la centralità del fronte orientale nel conflitto, valorizzando al contrario i fronti su cui hanno combattuto le truppe angloamericane.
[2] Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, 1967
[3] Friedrich, Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Harvard University Press, 1956
[4] Domenico Losurdo, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, 2008
[5] Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, Foreign Affairs, Sept-Oct 1997
[6] Antonio Gramsci, Tesi di Lione
[7] Si vedano l’ottimo volume di Kurt Gossweiler, La (ir)resistibile ascesa al potere di Hitler, Zambon 2009, o il più sintetico Jacques R. Pauwels, Profit über alles. Le corporations americane e Hitler, La Città del Sole, 2008.
[8] A tal proposito non è superfluo precisare che l’idea della “alleanza” fra l’Urss e la Germania nazista è frutto della propaganda anticomunista.
[9] Si veda il cap. V dello scritto di Stalin “Questioni del leninismo”, in cui è affrontata la questione dei ruoli del partito nel sistema della dittatura del proletariato, la quale non coincide affatto con una “dittatura del partito”. In Questioni del leninismo, Ed. in Lingue Estere, Mosca, 1946
[10] La già citata Costituzione dell’URSS del ‘36 recita all’art. 138: “I cittadini che prestano servizio nell’Armata Rossa hanno diritto di eleggere e di essere eletti a parità di condizioni con tutti gli altri cittadini”.
[11] L’aggettivo “totalitario” è utilizzato in riferimento al fascismo, con questo significato, già negli anni’30 dai partiti comunisti e dalla Terza Internazionale, prima della nascita della categoria di “totalitarismo” come equiparazione di comunismo e nazismo.
[12] Aleksandr Isaevič Solženicyn, Arcipelago gulag, Mondadori 1974
[13] La pena di morte in URSS alterna periodi in cui fu in vigore e periodi in cui venne abolita; era in ogni caso applicata per reati gravissimi contro lo Stato (spionaggio, tradimento, ecc).