Un luogo comune diffuso vuole che la verità stia sempre nel mezzo. Un assunto pericoloso, che lungi dall’essere oggettivo crea al contrario le premesse per ogni sorta di manipolazione della realtà e della verità storica, piegandola dinanzi ai propri interessi. Se si vuole far passare per verità una menzogna, troppo spesso basta inventare una doppia menzogna e ripeterla per anni, per poi appellarsi al principio secondo cui la verità sta nel mezzo. Questo è quello che avviene ogni anno nel Giorno del Ricordo, dedicato ai presunti martiri delle foibe.
La giornata del ricordo del 10 febbraio è stata istituita dal Governo Berlusconi nel 2004, come concessione ad Alleanza Nazionale, formazione post-fascista guidata da Gianfranco Fini, parte della coalizione di Governo. Ogni anno, in prossimità del 10 febbraio, tutto il mondo della destra più o meno radicale tuona contro la presunta “rimozione” della memoria dei fatti del confine Italo-Jugoslavo, accusando al contempo la Giornata della Memoria del 27 gennaio di essere una giornata “di parte”. Si parla di pulizia etnica, di una vera e propria “guerra contro gli italiani”, decuplicando i numeri delle vittime fino ad arrivare ad una equiparazione fra vittime e carnefici, cioè fra i partigiani e i fascisti. Ma la manipolazione della storia, prima ancora che nei numeri, sta nella lettura tutta ideologica che viene data delle vicende del confine Italo-Jugoslavo fra il ’43 e il ’45, astratti dal contesto storico in cui i fatti sono avvenuti.
La verità è che una pulizia etnica c’è stata, ma l’hanno fatta per anni i fascisti (italiani) nei confronti dei popoli slavi. La politica fascista nei territori slavi è ben riassunta da una frase di Mussolini: «Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani». I fascisti imposero per anni l’italianizzazione forzata, costruendo campi di concentramento, nei quali furono internati migliaia di prigionieri politici e cittadini slavi che si opponevano alla politica fascista. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione militare della Jugoslavia (con l’intera Slovenia annessa forzatamente all’Italia come “provincia di Lubiana” e la Croazia ridotta a uno stato fantoccio fascista) vede i fascisti macchiarsi di crimini di ogni tipo perpetrati contro le popolazioni slave. È un periodo di fucilazioni, di stupri di massa, di interi villaggi rasi al suolo dai fascisti, di oltre 25.000 deportati nei campi di concentramento dai fascisti italiani e dai tedeschi. Fra il ’43 e il ’45 vengono massacrati dai fascisti complessivamente 250.000 slavi e antifascisti di varia provenienza. È in questo contesto che vanno lette le vicende di quegli anni.
Ogni lettura che prescinda dal contesto storico, tacendo su tutto questo mentre parla di una fantomatica “pulizia etnica” nei confronti degli italiani, è una lettura tutta ideologica che mira alla sostanziale difesa dei crimini fascisti e alla criminalizzazione della Resistenza partigiana. Oggi, al contrario, chi parla delle foibe manipola del tutto la realtà. I partigiani hanno processato e giustiziato non più di 700 “vittime”, che in buona parte erano state a loro volta carnefici. La maggior parte delle onorificenze per il Giorno del Ricordo è stata attribuita a militi della Repubblica Sociale Italiana; una operazione vergognosa che equipara chi combatté per difendere il fascismo a chi combatté contro di esso. Oggi questo numero viene gonfiato con centinaia di delitti comuni non direttamente riconducibili ai partigiani, ma anche qui avviene una enorme manipolazione ideologica. Decine di fascisti, fra il ’43 e il ‘45, sono stati uccisi per vendetta personale da chi pochi anni prima aveva visto la sua casa rasa al suolo, i figli massacrati, la moglie stuprata. Si può parlare di pulizia etnica, di una “guerra etnica” contro gli italiani?
Oggi si rimuove del tutto dalla memoria il legame con il fascismo dei prigionieri politici uccisi per rappresaglia, mentre si gonfiano i numeri con la volontà di equiparare i “crimini” dei partigiani ai crimini dei nazifascisti, mentre si urla che “i morti non hanno colore”. Ma a chi il 10 febbraio urla “e allora le foibe?” non bisogna rispondere semplicemente tirando fuori numeri. Ristabilire la verità storica, certo, significa anche questo. Ma l’idea di combattere un’operazione di revisione della storia che mira ad equiparare la Resistenza ai crimini fascisti a colpi di numeri e fonti storiche, finisce inevitabilmente per porsi proprio sul terreno dell’equiparazione, rischiando di scivolare nella stessa logica che si vuole combattere.
Parlare del numero dei morti è sempre un’operazione delicata, e prima o poi si finisce sempre a dire che, al di là del numero, i morti sono tutti uguali. Una posizione comoda e certo diffusa. Certo, è semplice affermare che “i morti sono tutti uguali”, una volta che sono già morti. Ma a volte, se si vuole essere davvero obiettivi, bisognerebbe anche chiedersi cos’hanno fatto in vita, prima di morire. Vittime e carnefici restano tali anche dopo essere morti, e negare questo in nome di una “memoria” costruita ad hoc dai neofascisti (e accolta negli ultimi anni anche dalla sinistra) significa negare la storia. Come ha detto Alessandra Kersevan, storica del confine orientale: «Commemorare i morti nelle foibe significa sostanzialmente commemorare rastrellatori fascisti e collaborazionisti del nazismo. Per gli altri morti, quelli vittime di rese dei conti o vendette personali, c’è il 2 novembre».