“Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn,
Capelli corti generale ci parlò all’università,
dei fratelli “tute blu” che seppellirono le asce.
Ma non fumammo con lui, non era venuto in pace.
E a un dio “fatti il culo” non credere mai.”
(Fabrizio De André, “Coda di lupo”)
Il 17 febbraio 1977, esattamente 40 anni fa, avveniva uno degli episodi cruciali degli anni della contestazione giovanile. La “cacciata di Lama” è ricordata come uno dei momenti emblematici della definitiva rottura che si aprì fra il PCI e le nuove generazioni. A sinistra, specie in ambienti di movimento, si tende ad idealizzare questo episodio in modo romantico, come espressione di un movimento genuino e di una ribellione tanto contro il sistema, quanto contro la “burocrazia partitica” che tenendo in gabbia le lotte finisce “inevitabilmente” per tramutarsi in custode dell’ordine costituito. Molto meno frequente, ma pur presente specie in chi visse quella stagione dal lato del Partito, è invece la lettura opposta che ha sempre visto il peccato originale del movimento del ’68-‘77 proprio nel suo distacco dal PCI, che di per sé basterebbe a giustificare una condanna indiscriminata di quel movimento, riproponendo le categorie con cui il PCI dell’epoca bollò la contestazione giovanile.
La storia della “cacciata di Lama” è nota. Il movimento studentesco universitario era in subbuglio contro la circolare del ministro Malfatti che vietava di dare più di un esame nella stessa materia, visto come una controriforma rispetto alla liberalizzazione dei piani di studio sancita nel ’68. Il 1 febbraio, in un’incursione dei fascisti alla Sapienza in cui vengono sparati colpi di arma da fuoco, uno studente di lettere resta ferito e l’università viene occupata. Mentre l’occupazione della Sapienza persisteva, due settimane dopo, viene annunciato con due giorni di anticipo (il 15 febbraio) il comizio di Luciano Lama, segretario della CGIL. Una scelta che il movimento vede sin da subito come una provocazione. Le pagine dell’Unità in effetti parlano di “poche decine di provocatori autonomi” che occupano l’università, mentre i volantini del PCI chiedono “il ripristino della vita democratica all’interno dell’ateneo”. L’intento chiaro del PCI è quello di portare l’occupazione al suo termine dopo il comizio. La mattina del 17 è un’escalation di provocazioni scambiate da entrambe le parti. Da un lato gli “indiani metropolitani”, che urlano ironicamente “Sa-cri-fi-ci, sa-cri-fi-ci!” e “Più lavoro, meno salario” criticando la linea sindacale imposta da Lama alla CGIL, dall’altra il servizio d’ordine di PCI e FGCI che arriva a scaricare sulla folla un estintore, episodio da cui partirà lo scontro definitivo fra i due schieramenti. Il mitico “Dodge rosso”, camionetta storica del PCI, finisce distrutto, mentre il PCI è costretto a ritirarsi. Qualche ora dopo arriverà la polizia, trovando l’università già sgomberata dagli studenti che decisero di non scontrarsi con le forze dell’ordine.
È un episodio che lascia il segno, che marca una rottura inequivocabile, in parte preannunciata sin dal ’68, in cui già emerse l’incapacità del PCI di comprendere le ragioni di un movimento di massa e di intercettarlo. La storia, come del resto insegna la dialettica, è fatta dal sedimentarsi di piccoli mutamenti quantitativi, che alla fine si traducono in brusche svolte qualitative, in cui si manifesta con forza il peso dei piccoli mutamenti fino ad allora sottovalutati; una di queste brusche svolte è certamente la cacciata di Lama, in cui emergono tutti gli errori e le incomprensioni di quegli anni. “Il camion su cui stava Lama è stato capovolto, distrutto. In quel momento c’è stata la sensazione che qualcosa si era rotto” – questa la testimonianza riportata da un giovane del movimento nel famoso libro di Balestrini e Moroni[1]. Speculare è il racconto di una ragazza della Fgci: “Il movimento per noi non faceva parte della sinistra, e non abbiamo minimamente capito quello che sarebbe successo dopo. Non abbiamo capito che quel movimento poneva delle questioni di fondo, mentre noi lo consideravamo come un fenomeno giovanilistico tipico di chi approccia la politica in modo irrazionale e passionale. Comunque noi avevamo la certezza che le masse erano con noi […] La mattina di Lama all’università mi ricordo che quelli del movimento ci tiravano le cinque lire, questa cosa mi ha fatto malissimo […] Ufficialmente noi del PCI siamo andati all’università per evitare l’irreparabile, questo abbiamo detto e ci siamo detti […] Non avevamo capito che su quella situazione non avevamo non dico l’egemonia, ma nemmeno un briciolo di prestigio, che non avevamo in sostanza la minima legittimità”[2]. Una frattura anche generazionale: “Io sono sicuro” – racconta sempre un ragazzo del movimento – “che c’era qualche caso di padre e figlio che stavano uno da una parte e l’altro dall’altra, schierati sui fronti diversi”.
A 40 anni da quel giorno, comunque, se gli eredi (legali, quantomeno) di quel PCI che i giovani contestavano si sono effettivamente tramutati nei principali amministratori degli affari di questo sistema, gli eredi (ideali o effettivi) di quel movimento giovanile sono ridotti a caricatura di sé stessi. Questo rende possibile e opportuna, al di là di ogni facile abiura o generalizzazione, un giudizio critico su quelle vicende che tanto hanno da insegnare a chi oggi lotta per ricostruire sulle macerie dell’opportunismo. Scriveva Lenin che l’estremismo è la risposta fisiologica e speculare agli errori opportunisti del movimento operaio, e che entrambe le storture, per quanto opposte, finiscono per completarsi a vicenda. È proprio questa la chiave di lettura per comprendere la lezione di quel 17 febbraio.
Per quanto riguarda il PCI, erano gli anni in cui la strategia di appiattimento sulla prospettiva riformistica e parlamentare, per la verità già inaugurata da Togliatti con la teorizzazione della “via italiana al socialismo”, giungeva alla sua tappa ulteriore, quella dell’eurocomunismo e del compromesso storico, che sancivano il definitivo abbandono di una qualsivoglia prospettiva di presa del potere in favore di una linea di conciliazione. La “lezione” che il PCI trasse dalla vicenda del Cile nel ’73 non fu la consapevolezza che la semplice conquista del governo attraverso meccanismi elettorali non garantisce la costruzione del socialismo senza una effettiva presa del potere, ma fu al contrario l’idea che per scongiurare il rischio di un golpe reazionario in Italia, cioè per “difendere la democrazia”, i comunisti dovessero abbandonare ogni forma di conflitto, appellandosi a una sorta di “responsabilità”, finanche a rinunciare alla lotta di classe.
Sul piano sindacale, questa linea si traduceva in un vero e proprio invito alla conciliazione con i padroni. Erano anche gli anni della crisi petrolifera, dell’inflazione e del crollo della produttività. La linea di Luciano Lama era più o meno questa: durante la Resistenza gli operai hanno difeso le fabbriche dalla chiusura e dallo smantellamento, lo stesso dovevano dunque fare gli operai, cioè lavorare sodo per incrementare la produttività e lo sviluppo economico, scongiurando nuove ripercussioni della crisi; solo in un secondo momento si sarebbe pensato alla lotta per gli aumenti del salario, per i diritti e le tutele. Lama spiegava questa posizione con le seguenti parole: “Come sindacati, abbiamo detto e diciamo tutti insieme che questo governo bisogna cambiarlo […] Però noi siamo convinti che, anche per difendere la democrazia, occorre mettere insieme le forze che sono interessate ad una ripresa e ad una politica di sviluppo. Fra queste forze la prima, la più interessata è la classe operaia; noi riteniamo che la classe operaia possa e debba essere impegnata in una politica di sviluppo […] I lavoratori sono interessati a questa politica e mettono a disposizione di questa politica la forza organizzata del movimento sindacale. La CGIL, e io credo la federazione CGIL-CISL-UIL, può e vuole essere uno strumento di questa politica […] Tale affermazione si traduce anzitutto nella disponibilità a combattere le tendenze corporative, le tendenze settoriali, le tendenze egoistiche che si manifestano anche nel mondo del lavoro. […] Credo che le recenti riunioni del direttivo della federazione unitaria siano proprio una testimonianza della volontà di tutto il movimento sindacale di superare queste tendenze e di schierarsi a sostegno di una politica di sviluppo […]”[3].
Certo è vero che vi furono settori del PCI che compresero questo passaggio e tentarono di porvi rimedio. Lo stesso Luigi Longo nel 1968 intuì l’importanza del movimento studentesco e la necessità di dialogarvi. Ma è in particolare Pietro Secchia che comprese a fondo la necessità che di non abbandonare quel movimento, ma al contrario di orientarlo e farlo maturare. Un’apertura certo non unilaterale, ma che vede al contrario un reciproco riconoscimento di quel movimento, o almeno delle sue componenti più avanzate, verso un dirigente che rappresentava la linea rivoluzionaria nel PCI e incarnava il legame diretto di quel partito con la Resistenza partigiana. Scrive Miriam Mafai che nel 1973 i funerali di Secchia furono accompagnati da un omaggio del Movimento Studentesco di Milano: “Migliaia e migliaia di giovani si riunirono alla Statale, sventolando bandiere rosse e striscioni con scritto W Secchia, W Stalin, W Beria […] ‘Non sarai dimenticato’ gridarono in coro migliaia di voci di adolescenti. E sventolando le bandiere rosse cantarono l’Internazionale”[4]. Un riconoscimento importante nei confronti di chi, come Secchia, rappresentava un potenziale punto di contatto con il movimento giovanile.
Secchia scrive nel 1973 un saggio su Le nuove generazioni, uno dei suoi ultimi scritti che rappresenta una sorta di testamento politico nei confronti dei giovani. “Il De Sanctis” – scrive Secchia – “dice che i giovani chiamavano i vecchi ‘pedanti’ e che i vecchi li ricambiavano con nome di ‘ciarlatani’, e osserva che c’era del vero nella taccia reciproca, perché il vecchio ha sempre del pedantesco e il nuovo del ciarlatanesco, e il vizio di ciascun indirizzo non rimane celato all’occhio acuto dell’avversario”[5]. Secchia parla chiaramente del movimento studentesco del ’68, criticando l’approccio del PCI: “ai partiti tocca riconoscere i propri torti ed errori verso i giovani […] che il movimento studentesco aveva una sua precisa radice politica e solo così ne poteva essere spiegata la dimensione internazionale. Al fondo della ribellione studentesca sta infatti un rifiuto globale della società capitalistica”. Secchia insiste sulla necessità che il PCI dialoghi con le nuove generazioni: “la migliore difesa non sta nell’assumere posizioni rigide di chiusura che poi si risolvono in posizioni di passività, ma di combattere apertamente, vivacemente le posizioni avverse, combattendo anche, se vi sono, gli intenti disgregatori”; tesi sostenuta senza nascondere una critica alla linea parlamentarista del PCI: “Forse si è indebolita la coscienza della necessità dell’azione politica di massa […] la coscienza chiara che, in questa lotta politica generale di massa, un posto e una iniziativa di primo piano spettano alle nuove generazioni […] Sono i partiti antifascisti, è il Partito comunista, che devono impegnarsi ad aiutare i giovani, a prendere coscienza della necessità di un’azione politica unitaria, di massa e permanente, nella quale i giovani possano e debbano trovare il loro posto, non soltanto come ‘strumenti’ e ‘oggetti’, ma come protagonisti principali”. “Invece di disprezzarsi e calunniarsi a vicenda” – concludeva Secchia – “si tratta di discutere, dibattere, studiare il che fare […] Per questo è auspicabile un incontro sempre maggiore, una convergenza delle giovani generazioni e anche dei gruppi oggi dissidenti, ma sinceramente rivoluzionari, con il Partito comunista”.
Nella celebre canzone Coda di Lupo Fabrizio De André cantava “Capelli Corti generale ci parlò all’università/dei fratelli tute blu che seppellirono le asce”, e in effetti di questo si trattava, di seppellire le asce di guerra mentre i padroni non lo facevano. Il PCI e la CGIL diventavano custodi dell’ordine e della pace sociale, mentre le nuove generazioni che si affacciavano alla lotta andavano nella direzione opposta. E anzi, se quel movimento, che certo era profondamente irrazionale, confuso e disomogeneo nella sua spontaneità, scivolò su posizioni estremiste o fintamente radicali, fino ad abbandonare del tutto il marxismo col passare degli anni, fu proprio per l’incapacità del PCI di porsi come un punto di riferimento credibile per una generazione che aveva voglia di lottare. E invece no, quello che il PCI faceva era l’esatto opposto: “Il rettore Ruberti [della Sapienza, ndr], quando gli occupavano gli uffici, chiamava noi, mica la polizia”, racconta Bruno Vettraino, segretario della Camera del lavoro di Roma nel 1977. Ecco appunto che i “peccati opportunistici” del movimento operaio, per dirla con Lenin, sono la base di una frattura generazionale. Se in Italia nascono l’operaismo, l’autonomia, la “controcultura”, gli indiani metropolitani e le successive teorie post-operaiste, che prendono le mosse da un più o meno marcato riferimento al marxismo per poi distaccarsene del tutto, fino a negare la stessa necessità dell’organizzazione e del Partito Comunista (che sarebbe “di per sé” reazionario in quanto partito, secondo certe teorizzazioni), è in primo luogo contro l’inadeguatezza e gli errori del PCI che bisogna puntare il dito. Chi critica (pur giustamente) queste tendenze senza una riflessione compiuta su quelle che furono le responsabilità del PCI in quegli anni, rischia di riproporre le stesse dinamiche che produssero lo scollamento di un’intera generazione di giovani proletari dal Partito Comunista.
[1] Nanni Balestrini, Primo Moroni, L’orda d’oro 1968-1977, SugarCo 1988, p. 540
[2] Ibidem
[3] Luciano Lama, Il sindacato nella crisi italiana, Editori Riuniti, 1977, p. 163-164
[4] Miriam Mafai, L’uomo che sognava la lotta armata. La storia di Pietro Secchia, Rizzoli, 1984
[5] Pietro Secchia, Le nuove generazioni, in Lotta antifascista e nuove generazioni, La Pietra, 1973