di Irma Sarzi*
Le donne di moltissimi paesi si mobiliteranno nella giornata dell’8 Marzo. Una mobilitazione che in Italia ha preso il via con la manifestazione svoltasi a Roma il 26 Novembre, strettamente in relazione con la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Tutto il variegato mondo delle associazioni femministe, centri sociali e centri antiviolenza hanno intrapreso un cammino fatto di tavoli e dibattiti in cui si sono affrontati moltissimi argomenti. La piattaforma dello sciopero è riuscita a rivendicare molte istanze che per troppo tempo nei dibattiti delle donne sono stati oscurati: lavoro, salute, discriminazioni, immigrazione…
Nonostante ciò è necessaria una riflessione su alcune criticità non trascurabili. Nello specifico, è sbagliata l’idea stessa di utilizzare uno strumento come quello dello sciopero, che è tipico strumento di lotta della classe lavoratrice e che non può essere certo divisa per questioni di genere. Le donne non possono essere considerate una categoria al di sopra e al di fuori delle classi sociali, e anzi è proprio indicendo uno sciopero “delle donne” che, inconsapevolmente, si introducono delle divisioni fittizie all’interno della classe lavoratrice. Manca la comprensione che la principale ed effettiva differenza risiede per l’appunto nelle differenze di classe, cioè nelle differenze che ci sono, ad esempio, tra una Marcegaglia e Anna che oltre a fare la madre lavora come facchina al Conad; tra una studentessa figlia dell’alta borghesia che frequenta una scuola privata e una studentessa figlia di impiegati comunali che deve fare mille lavori per potersi pagare gli studi.
Ciò che manca nella piattaforma che ha portato a questo sciopero è proprio questo, avere chiaro quale sia la causa dell’oppressione della donna, non basta continuare a parlare semplicemente di “patriarcato neoliberista”, che rappresenta un espediente lessicale per far apparire come radicale e avanzata una posizione che in realtà non lo è. Si legge dal comunicato: “ Scioperiamo perché la violenza ed il sessismo sono elementi strutturali della società che non risparmiano neanche i nostri spazi e collettività. Scioperiamo per costruire spazi politici e fisici transfemministi e antisessisti nei territori, in cui praticare resistenza e autogestione, spazi liberi dalle gerarchie di potere, dalla divisione sessuata del lavoro, dalle molestie. Costruiamo una cultura del consenso, in cui la gestione degli episodi di sessismo non sia responsabilità solo di alcune ma di tutt*, sperimentiamo modalità transfemministe di socialità, cura e relazione. Scioperiamo perché il femminismo non sia più un tema specifico, ma diventi una lettura complessiva dell’esistente.”
Se effettivamente la violenza e la discriminazione della donna sono elementi strutturali di una società che dobbiamo combattere, occorre allora pensare e lottare per sostituirla con un altro modello di società. Non bastano spazi autogestiti e un cambiamento semplicemente culturale, seppure importante, per modificare radicalmente le condizioni in cui versano oggi giovani, lavoratori e lavoratrici, pensionati, con una povertà assoluta che cresce costantemente, disoccupazione giovanile che tocca stabilmente il 40%, quella femminile al 13,7% e un tasso di inattività femminile del 46,1%: quasi 10 milioni di donne non sono impegnate in alcuna attività lavorativa e che hanno smesso anche cercarla. Occorre eliminare alla radice il paradigma dello sfruttamento, che colpisce il proletariato nella sua interezza.
Chiudersi ancora in una lotta separatista tra uomo e donna come pratica di lotta è un grave errore. Essenziale è coinvolgere, discutere, dialogare sì tra donne, essere in grado di risvegliare le coscienze di chi è ancora sopito dal ruolo del suo essere donna, ma ciò non basta se si continua a farlo solo tra noi e senza un chiaro obiettivo politico. Giuste, corrette sono le rivendicazioni per migliorare la condizione della donna, dalla parità salariale all’abolizione dell’obiezione di coscienza, dall’ampliamento dei servizi socio-educativi a maggiori finanziamenti ai centri antiviolenza: ma ciò non può e non sarà sufficiente per liberare definitivamente le donne dalle catene dell’oppressione. Infatti moltissime sono state le conquiste politiche e sociali in questi anni (che sono state sostenute e portate avanti non solo dalle donne, ma dal movimento operaio nel suo complesso): basti pensare al periodo caldo degli anni settanta e quante sono state le riforme che hanno messo al centro la donna, anche se ciò non ha sostanzialmente modificato la condizione che ogni lavoratrice vive sulla propria pelle, quella di sfruttata.
Come donne comuniste non possiamo perciò omettere quella che per noi è la ragione principale di oppressione della donna: il sistema capitalista. Per questo la militanza di noi donne è necessaria e importante, perché come diceva Lenin “non è possibile una rivoluzione socialista, se una grandissima parte delle donne lavoratrici non dà il suo cospicuo apporto”.
* resp. donne del Fronte della Gioventù Comunista