In occasione della Giornata Internazionale della Donna, proponiamo un estratto da un libro di Anna Louise strong, “L’era di Stalin” (La città del sole, 2004, pag 97-100), lettura semplicissima che ci sentiamo di consigliare ai nostri giovani lettori. In tre pagine molto suggestive, l’autrice racconta il processo di emancipazione delle donne in Unione Sovietica, promosso dai comunisti dopo la rivoluzione d’Ottobre, specie nelle regioni più difficili e arretrate come l’Asia Centrale.
——
[…] In tutte le parti dell’Unione Sovietica il mutamento della condizione della donna fu uno dei cambiamenti più importanti della vita sociale. La rivoluzione diede alla donna l’eguaglianza legale politica: a questa, l’industrializzazione fornì la base economica nell’eguaglianza del salario. Ma in ogni villaggio, erano ancora vive le abitudini durate per secoli, e le donne dovevano lottare contro il loro potere. Di un villaggio siberiano, per esempio, si seppe che, dopo che le fattorie collettive ebbero dato alle donne un salario indipendente, le spose “scioperarono” contro il venerando costume patriarcale di battezzare le mogli e lo spezzarono in una settimana.
«La prima donna eletta dai Soviet nel nostro villaggio si prese gli scherni di tutti gli uomini – mi raccontava una presidentessa contadina. – Ma all’elezione successiva, eleggemmo sei donne, e adesso tocca a noi di ridere». In Siberia, nel 1928, incontrai venti di queste donne presidenti di Soviet sul treno per Mosca, dove andavano a partecipare a un congresso femminile: la maggior parte di esse viaggiava in treno per la prima volta, e una sola era già stata fuori della Siberia nella sua vita. Erano state invitate a Mosca a “consigliare il Governo” sulle esigenze delle donne: i loro distretti le avevano elette, e adesso andavano.
La lotta più dura per la libertà delle donne fu quella che si svolse nell’Asia centrale. Qui, le donne erano semplici oggetti di proprietà: vendute giovanissime per il matrimonio, non apparivano più in pubblico, da quel momento, senza l’orribile paranja, un lungo velo nero tessuto di crine di cavallo, che copriva tutto il volto, ostacolando la vista e la respirazione. Per tradizione, i mariti avevano il diritto di uccidere la moglie che si fosse tolta il velo: e i mullah – i preti musulmani – sostenevano questa tradizione con l’autorità della religione. Donne russe portarono un primo messaggio di libertà in queste tenebre: nei nidi d’infanzia, che esse organizzarono, le donne indigene impararono a togliere il velo in presenza l’una dell’altra, e a discutere i diritti della donna e i mali del velo. Il partito comunista fece pressioni sui suoi membri perché permettessero alle loro mogli di togliere il velo.
Quando visitai Tashkent per la prima volta, nel 1928, una Conferenza di donne comuniste annunciava: «Nei villaggi arretrati della campagna le nostre compagne vengono violentate, torturate e uccise. Ma questo sarà un anno storico per i nostri paesi: l’anno in cui la faremo finita con l’orribile velo». Questa risoluzione veniva lanciata proprio mentre alcuni eventi tragici ne sottolineavano la portata. Il corpo di una ragazza, studentessa a Tashkent, che aveva voluto dedicare le sue vacanze al lavoro di agitazione per i diritti della donna nel suo villaggio natio, fu rimandato a pezzi alla scuola, su un vecchio carro con scritto: “Questo è per la vostra libertà delle donne”. Un’altra donna, che aveva rifiutato le attenzioni di un padrone di terre e sposato un contadino comunista, fu assalita da una banda di diciotto uomini sobillati dal signorotto: la violentarono, mentre era all’ottavo mese di gravidanza, e gettarono il suo corpo nel fiume.
Vi furono poesie, scritte dalle donne, e che esprimevano la loro battaglia. Per Zulfia Kalin, una combattente della libertà delle donne che fu arsa viva dai mullah, le donne del suo villaggio composero un canto di dolore:
O donna, la tua lotta per la libertà non sarà
dimenticata in questo mondo.
Il tuo fuoco: non pensino che ti abbia consumata!
La fiamma in cui ti hanno arsa
è una fiaccola nelle nostre mani.
Buchara, la “città santa”, era la città di questa ortodossia d’oppressione. Qui, nella città “santa”, fu organizzata una drammatica azione collettiva di getto del velo. Verso l’8 marzo, Giornata internazionale della donna, corse voce che «qualcosa di spettacolare sarebbe accaduto»: in quel giorno, comizi di massa di donne furono tenuti in diversi luoghi della città e le oratrici chiesero all’auditorio che «si levassero il velo tutte insieme». Allora le donne passarono davanti al palco: giunte di fronte al podio, gettarono il velo, e poi, tutte insieme, andarono a sfilare per le strade. Erano state erette delle tribune, per i dirigenti e membri del Governo, che salutavano la sfilata. Altre donne uscivano dalle loro case, si univano alla sfilata e gettavano il velo davanti alle tribune. Così fu rotta la tradizione del velo nella sacra Buchara. Molte, naturalmente, rimisero il velo prima di comparire di fronte agli irati mariti: ma da allora, i veli per le vie di Buchara furono sempre più rari.
Per l’emancipazione delle donne, il potere sovietico impiegò diverse armi: l’istruzione, la propaganda, le nuove leggi, tutto vi ebbe la sua parte. Vi furono grandi processi pubblici di uomini che avevano ucciso le loro mogli, e la nuova propaganda dava un sostegno ai giudici che comminavano la pena di morte per un atto che l’antico costume non aveva considerato delitto. Ma lo strumento più importante dell’emancipazione fu, come nella Russia vera e propria, l’industrializzazione.
A Buchara, in quell’epoca, visitai anche un setificio nella città vecchia. Il direttore – un uomo pallido, esausto, impegnato in una corsa insonne per costruire dal nulla un’industria completamente nuova – mi diceva che la fabbrica, secondo i calcoli, non sarebbe stata attiva economicamente per un bel pezzo: «Stiamo addestrando delle contadine, che dovranno dare i quadri dei futuri setifici del Turkestan. La nostra fabbrica è uno strumento applicato consapevolmente per spezzare la tradizione del velo: noi esigiamo che le operaie si tolgano il velo in fabbrica».
Le canzoni composte dalle giovani tessitrici parlavano del nuovo senso della loro vita simbolizzato dallo scambio del velo col caratteristico copricapo delle donne russe, il fazzoletto.
Quando presi la via della fabbrica
vi trovai un fazzoletto nuovo.
Un fazzoletto rosso, di seta
comprato col lavoro delle mie mani.
In me c’è il rombo della fabbrica:
mi dà ritmo
ed energia.
Non si può non ricordare, leggendo queste parole, la Canzone della camicia di Thomas Hood, che esprimeva invece la fatica delle donne nelle fabbriche inglesi della rivoluzione industriale:
Con le dita stanche e consunte
Le palpebre rosse e pesanti,
In stracci non femminei
Una donna sedeva col suo ago e il filo.
Cucire cucire cucire
Miseria fame sporcizia.
Eppure (il tono della sua voce era dolente)
Cantava – la canzone della camicia.
Nell’Inghilterra capitalista la fabbrica apparve come uno strumento di profitto e di sfruttamento. Nell’Unione Sovietica, essa non fu solo uno strumento di ricchezza collettiva, ma un mezzo consapevolmente usato per spezzare vecchie catene. […]