di Lorenzo Vagni
In questi ultimi giorni ha avuto particolare risalto sui mezzi di informazione l’incontro di stato a Palm Beach tra Donald Trump e Xi Jinping. In particolare suscita l’interesse di molti la posizione della Cina riguardo questioni quali la guerra in Siria e la Corea del Nord. Potrebbe dunque essere legittimo chiedersi se in questa fase la Cina possa assumere un ruolo di argine all’imperialismo e di speranza per i popoli del mondo. Per dare una risposta occorre analizzare la situazione cinese in relazione al concetto di imperialismo, un punto centrale per l’analisi marxista della società, spesso frainteso anche da una parte del movimento comunista.
Per una chiara ed esatta chiave di lettura dell’imperialismo occorre rifarsi alla definizione che Lenin diede nel suo saggio del 1916, “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo“:
«Quindi noi […] dobbiamo dare una definizione dell’imperialismo, che contenga i suoi cinque principali contrassegni, e cioè:
1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;
2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria;
3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;
4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;
5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici» (cfr. V.I. Lenin, L’imperialismo (1916), Editori Riuniti, 1974, pag. 128).
Secondo questa definizione il militarismo e l’aggressività nei confronti di altre nazioni non sono caratteristiche preponderanti dell’imperialismo, ma soltanto sue possibili manifestazioni. Alla luce della teoria leninista è possibile individuare quali stati, nel corso della storia recente, abbiano effettivamente assunto un ruolo di argine all’imperialismo.
L’Unione Sovietica è senz’altro uno degli esempi più lampanti di potenza antimperialista in quanto priva di esportazione di capitale (la grande maggioranza del commercio estero sovietico era con altri stati socialisti). Infatti anche dopo il 1956, anno in cui le politiche di Chruščёv iniziarono a compromettere l’impianto socialista dello stato e i cui sviluppi furono la restaurazione del capitalismo con Gorbačëv nel 1991, nonostante l’aumento delle esportazioni, l’URSS non esportò capitale.
Non è invece di immediata interpretazione la situazione dell’attuale Repubblica Popolare Cinese. Per un’adeguata valutazione è necessario comprendere come si è giunti all’odierna condizione economico-sociale del paese. A seguito del XX Congresso del PCUS del 1956, il Partito Comunista Cinese, sotto la guida di Mao Zedong, criticò, coerentemente con la teoria marxista-leninista, il revisionismo chruscioviano in URSS, che fu definito revisionismo moderno per distinguerlo dal revisionismo bernsteiniano-kautskiano. Tuttavia, subito dopo la morte di Mao nel 1976, un nuovo tipo di revisionismo si manifestò in Cina a seguito della presa del potere dell’ala destra del PCC, che faceva capo a Deng Xiaoping, dopo la condanna della cosiddetta Banda dei Quattro, un gruppo di dirigenti del Partito che aveva avuto un ruolo determinante nella Rivoluzione Culturale.
Contrariamente a quanto avvenuto in Unione Sovietica, in cui la figura di Stalin fu criminalizzata, il revisionismo denghista, che potrebbe essere definito come revisionismo contemporaneo, non attaccò mai apertamente Mao, ma continuò a celebrarlo e a rivendicare una, peraltro inesistente, continuità con la sua politica. Al contempo Deng elaborò la teoria del socialismo di mercato, o socialismo con caratteristiche cinesi, una soluzione strategica di media o lunga durata, in attesa di un non meglio definito ritorno al socialismo. Molti sostenitori delle attuali politiche della Cina paragonano le riforme di Deng con la Nuova Politica Economica (NEP), applicata da Lenin nell’URSS reduce dal conflitto mondiale e dalla guerra civile. Questo rappresenta tuttavia una valutazione fallace: la NEP, che fu un provvedimento transitorio e di breve durata (dal 1921 al 1928), prevedeva delle limitate concessioni al capitalismo al fine di ripristinare l’industria nazionale, devastata dalla guerra, nella prospettiva dell’accumulazione di forze necessarie, e si realizzava nel quadro della dittatura del proletariato (non vi erano capitalisti e miliardari nel Partito e il settore privato consentito non coinvolgeva i grandi mezzi di produzione ma solo i piccoli, come nell’ambito del commercio interno). Era quindi basata sul rafforzamento della classe operaia, mentre, come ad oggi è stato possibile constatare, in Cina il socialismo di mercato ha rappresentato una manovra di transizione dal socialismo al capitalismo vero e proprio, con la reintroduzione dei rapporti di produzione tipici del capitalismo.
Conferma di quanto detto è la creazione delle Zone Economiche Speciali (ZES), nelle quali, a partire dal 1979, specifiche legislazioni economiche favoriscono e incoraggiano l’afflusso di capitale proveniente da multinazionali straniere attraverso una fiscalità vantaggiosa e una larga indipendenza per le imprese (è da sottolineare come il governo cinese abbia approvato recentemente un piano per la creazione di una nuova ZES, che porterà alla fondazione di un’imponente città chiamata Xiongan, e che ha visto immediatamente dopo l’annuncio governativo l’afflusso massiccio di speculatori intenzionati ad acquistare immobili nelle aree interessate da rivendere a prezzi raddoppiati).
Merita inoltre di essere menzionata la cosiddetta teoria delle tre rappresentanze, dottrina ideata nel 2000 da Jiang Zemin, successore di Deng, che di fatto forniva all’imprenditoria ancora maggior riconoscimento politico e sociale. Secondo tale teoria, infatti, il Partito doveva rappresentare anche gli imprenditori, non più soltanto il proletariato e le masse lavoratrici. Il PCC abbandonava quindi anche formalmente il principio della lotta di classe, trasformandosi in un partito interclassista. Veniva così permesso l’ingresso sempre più palese di elementi borghesi all’interno del Partito, ormai definitivamente deideologizzato, seppur già compromesso dalla gestione di Deng.
È bene chiarire a questo punto il seguente concetto: il socialismo prevede relazioni di produzione nelle quali la classe operaia ha il potere e, di conseguenza, detiene i mezzi di produzione. In questo senso, ha come condizione necessaria il dominio della proprietà statale socialista su quella privata e la scomparsa progressiva di ogni mezzo di produzione privato, compresa la piccola proprietà. È inevitabile che ci siano differenze tra i vari paesi nella costruzione del socialismo, ma queste non possono essere mai di principio, ossia differenze che contraddicano i principi universali su cui il socialismo si basa; in particolare, nel caso cinese, si hanno rapporti di produzione grazie ai quali predomina il capitale privato, con una tendenza al maggiore sviluppo dello stesso.
Per meglio comprendere l’importanza che le imprese private assumono in Cina, basta esaminare alcune cifre riguardanti il peso del settore privato nello stato a seguito della privatizzazioni massicce applicate da Deng in poi: nel 2005 il numero di imprese private ammontava a 4,3 milioni, nel 2010 a 7,5 milioni e nel 2015 a 12 milioni, mentre nello stesso anno le imprese statali erano 2,3 milioni; attualmente circa il 70% della produzione industriale cinese è dovuta a imprese non statali, oltre l’80% della forza-lavoro industriale è impiegata nel settore privato e solo il 13% dei lavoratori urbani sono dipendenti statali; inoltre la crescita delle imprese private è di gran lunga superiore a quella delle imprese statali (negli ultimi 3 decenni il 95% dell’aumento della forza-lavoro urbana è dovuta a compagnie private).
È dunque evidente come in Cina il ritorno al capitalismo sia pressoché completo, tutt’al più in una sua variante statalista, ma bisogna prendere in considerazione alcuni dati economici per convincersi del fatto che il paese sia ormai giunto anche alla fase imperialista.
Secondo la rivista Forbes, stimando il patrimonio in dollari, attualmente in Cina sono presenti ben 400 miliardari, che detengono circa 947,03 miliardi. Questi dati pongono la Cina al secondo posto tra gli stati al mondo con più miliardari, seconda solo agli Stati Uniti, che nel 2016 ne contavano 540, e testimoniano come l’accumulazione della ricchezza nel paese abbia raggiunto livelli impressionanti, tali da creare un’oligarchia finanziaria, a ulteriore riprova di come la forma statale socialista sia ormai solo una definizione de iure.
Inoltre, secondo la Chinese Sociological Review, nel 2012 l’1% della popolazione cinese possedeva oltre il 33% della ricchezza, mentre il 25% più povero meno del 2%.
Secondo il Center for China and Globalization l’esportazione cinese di capitale nel 2015 aveva superato il capitale straniero nel paese; gli investimenti diretti esteri (OFDI) ammontavano a 145,6 miliardi di dollari, mentre il capitale estero in Cina era di 135,6 miliardi di dollari. A tale proposito, secondo il Financial Times, nel 2017 la Cina risulta essere il più grande esportatore di capitale in Africa, per la maggior parte al fine estrattivo di risorse naturali, proseguendo la depredazione del continente a cui secoli di colonialismo e imperialismo ci hanno tristemente abituato. Proprio in Africa, a Gibuti, sorgerà una base militare cinese capace di ospitare circa 10˙000 soldati e navi da guerra veloci.
Per quanto riguarda l’energia, come anche in altri settori, quali ad esempio le comunicazioni, va segnalata la presenza di monopoli, tra cui la China Petroleum and Chemical Corporation (Sinopec, 4ª società al mondo per ricavi nel 2015) e la China National Petroleum Corporation (CNPC, 3ª società al mondo per ricavi nel 2015), che rappresentano due società internazionali tra le maggiori al mondo nel campo del petrolio e del gas.
Infine il settore bancario cinese vanta ben 4 delle 10 banche più potenti al mondo, tra cui le 5 maggiori sono la Industrial and Commercial Bank of China (la più grande banca al mondo per capitale), la China Construction Bank, la Bank of China, la Agricultural Bank of China e la China Development Bank. Tutte queste banche possiedono sedi all’estero (Asia, Europa, Africa e America), ma quella più presente a livello internazionale è la BOC.
In aggiunta a quanto detto bisogna anche considerare il ruolo della Cina nel blocco dei BRICS, alleanza imperialista, in cui svolge un ruolo da protagonista. Fa parte dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, di cui sono membri anche la Russia e vari stati dell’Asia Centrale, e che si occupa non solo di sicurezza, ma anche di cooperazione economica (è importante il ruolo della SCO Interbank Association, che riunisce rappresentanze della banche delle nazioni aderenti all’organizzazione). Uno dei possibili sbocchi economici dell’Organizzazione, peraltro più volte suggerito dalla stessa Cina, potrebbe essere la creazione di un’area di libero mercato tra gli stati membri, ma già ad oggi sono previste norme che facilitino gli scambi commerciali interni.
Un altro elemento fondamentale per inquadrare l’azione della Cina e dei BRICS nello scacchiere mondiale è la creazione della Nuova Banca di Sviluppo: costituita nel 2014, durante il IV Summit dei BRICS, la NBS nasce a seguito del rifiuto da parte delle potenze imperialiste tradizionali, a guida USA-UE, di effettuare una distribuzione delle quote di voto più vantaggiosa per i paesi emergenti all’interno del Fondo Monetario Internazionale (di cui la Cina rappresenta il terzo investitore con 30 miliardi di dollari). La NBS costituisce la prima grande struttura finanziaria internazionale nata dopo gli accordi di Bretton Woods, e rivestirà un ruolo analogo e in competizione con quello del FMI e della Banca Mondiale, nati nel 1944 proprio alla luce degli accordi di Bretton Woods. La NBS permetterà ai BRICS di estendere la propria influenza su altre economie più deboli, attraverso le pressioni esercitate da questo nuovo e potente mezzo.
La Cina ha annunciato inoltre di aver sospeso per il 2017 l’acquisto di carbone dalla Corea del Nord in applicazione delle sanzioni decise, su richiesta degli Stati Uniti, dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (e che la Cina ha accettato, non avendo esercitato il proprio diritto di veto). Ciò priva lo stato socialista nordcoreano di 1 miliardo di dollari. La Cina sta anche lavorando per la creazione di un’area di libero scambio con Giappone e Corea del Sud.
Nell’interpretare l’azione cinese nel contesto internazionale, bisogna considerare che ogni membro della piramide imperialista si muove sulla base della propria forza economica, militare e politica, nella direzione di rafforzare la propria posizione e la competitività dei propri monopoli attraverso la strategia ad essi più congeniale, a volte attraverso politiche di “pace”, a volte attraverso mezzi militari. È su questa base che è possibile comprendere alcune delle mosse della Cina che, in apparenza, seguono un approccio diverso rispetto a quello di altre potenze imperialiste. In particolare, risalta il fatto che la Cina prediliga utilizzare a livello internazionale un approccio di “soft power“, ovvero un metodo di esercizio della propria influenza senza il ricorso ad interventi diretti, in contrapposizione a quello di “hard power” caratteristico dei centri imperialisti tradizionali, che prevede politiche aggressive e interventi militari nell’esercizio della propria influenza. Ciò, alla luce di quanto espresso precedentemente, non deve trarre in inganno, in quanto l’aggressività militare non è una caratteristica preponderante dell’imperialismo. Bisogna inoltre considerare il fatto che, nel continuo evolversi dei rapporti di forza economici e militari su scala globale, la strategia dei diversi blocchi potrebbe variare repentinamente da un approccio di soft power a quello di hard power e viceversa.
Appurato come anche la Russia svolga un ruolo di prim’ordine nella piramide imperialista internazionale, è necessario per i comunisti avere massima consapevolezza della natura imperialistica dei paesi BRICS, che si pongono in aperto contrasto con le potenze imperialiste tradizionali USA (al vertice della piramide) e UE soltanto nel tentativo di imporre la propria egemonia, in uno scontro inter-imperialistico nel quale si intensifica la tendenza alla guerra imposta dal capofila statunitense (che oltre contro la Russia procede nella concentrazione di potenza di fuoco anche intorno alla Cina nel Mar Cinese Meridionale e Orientale) che rischia di gettare i popoli del mondo in una nuova guerra generale alla quale tutte le potenze si stanno preparando.
Va a tale proposito ricordato come i lavoratori abbiano soltanto da perdere da un conflitto di questo tipo, e che, come insegna Lenin, i comunisti non devono schierarsi dalla parte di nessuno dei contendenti in gioco, disarmando politicamente, organizzativamente e ideologicamente la classe lavoratrice. Al contrario questi devono stabilire una posizione indipendente di classe per sfruttare attivamente queste contraddizioni nella piramide imperialista, al fine di indebolire le “proprie” borghesie nella direzione di rovesciare nei propri paesi il capitalismo, rifiutando al contempo sia la guerra imperialista, sia la pace imperialista. Solo la lotta per un diverso modello di società potrà dare ai popoli la liberazione dallo sfruttamento e dal capitale, e questa lotta ha come artefici e alleati i proletari di ogni paese.