di Alessandro Mustillo
Ottanta anni fa moriva Antonio Gramsci, segretario del Partito Comunista, per anni trattenuto in carcere e al confino, nonostante le sue precarie condizioni di salute, dal regime fascista. Quando fu arrestato dalla polizia e processato la pubblica accusa fascista pronunciò, richiedendone la condanna, una frase che sarebbe divenuta tristemente famosa: «Noi dobbiamo impedire a questo cervello di pensare per almeno vent’anni. Ecco tutto». Non riuscirono ad impedire a Gramsci di pensare. In carcere i suoi appunti, che poi sarebbero stati pubblicati come “Quaderni dal Carcere” sono una continua riflessione, uno studio sistematico di strategia politica, di teoria, di storia, di cultura, finalizzate alla costruzione del partito. Riuscirono però ad impedire a Gramsci di essere protagonista della storia del suo periodo, lasciandolo rinchiuso in carcere fino alla sua morte, trasformando persino la sua stanza d’ospedale in una sorta di cella. Poco prima di morire trovò la forza per rifiutare sdegnosamente ogni promessa di grazia in cambio del disconoscimento delle sue idee comuniste.
Quel pensiero, che il fascismo voleva impedire, è oggi studiato in tutto il mondo, ed ha condizionato lo sviluppo del movimento rivoluzionario, specialmente nei paesi occidentali. Nei paesi del Sud-America esistono addirittura delle cattedre universitarie che si occupano di Gramsci, che è considerato uno degli autori italiani più studiati in assoluto. In ogni viaggio politico mi è capitato di realizzare che la curiosità per un’interpretazione “autentica” di Gramsci, da comunista italiano, è stata sempre presente, e le domande non sono mai mancate davvero in ogni parte del mondo e con gradi di interesse e conoscenza che colpiscono.
Togliatti a ragione definì Gramsci il primo bolscevico del movimento operaio italiano[1]. Più volte le tesi di Gramsci e del gruppo dell’Ordine Nuovo – il giornale torinese da lui fondato, per dare voce alla parte più cosciente del movimento operaio nel periodo dei consigli – furono approvate direttamente da Lenin sia prima che dopo la scissione di Livorno, con cui nacque il Partito Comunista[2]. Sebbene l’Ordine Nuovo non fosse la parte numericamente più consistente alla formazione del partito, la sua autorevolezza fu conseguenza di questo reale collegamento con il pensiero leninista, che Gramsci seppe magistralmente esprimere nella condizione italiana. Antonio Gramsci era prima di tutto un comunista, un marxista-leninista. Chi prova a spiegare Gramsci al di fuori del suo sistema di pensiero, del suo modo di concepire l’analisi politica come elemento finalizzato all’azione rivoluzionaria, fa un torto alla sua figura, cerca di piegarlo e di addomesticarlo, tentando di trovare contraddizioni che lo allontanino dal marxismo, riducendolo ad un volgare democratico, o ad un “pensatore neutrale” buono per tutte le stagioni. Nulla di nuovo rispetto a quello che Gramsci stesso aveva visto realizzare per Marx a suo tempo, e un paradosso estremo per chi, più di tutti, aveva difeso in occidente l’autonomia del marxismo dal pensiero borghese[3].
Ora, nell’ottantesimo anniversario della sua morte, sorgerebbe spontanea ad un giovane la domanda: perché leggere, studiare Gramsci? Cosa può esserci di attuale in quello che è stato scritto quasi un secolo fa? La risposta è semplice, basta guardare la realtà che abbiamo intorno. Sebbene l’apparenza delle forme sia mutata, non è cambiato il carattere della società in cui viviamo, ancora oggi fondata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. La guerra, la disoccupazione, la precarietà del lavoro, l’assenza di strutture sociali adeguate, il carattere di classe dell’istruzione non sono semplici fatti che accadono senza una spiegazione. Il capitalismo, uscito apparentemente trionfante dal secolo scorso, genera ogni giorno contraddizioni maggiori che proprio la gioventù è destinata a vivere sulla sua pelle, ed è chiamata, se ne sarà capace, a combattere. Gramsci, e insieme a lui il marxismo, garantiscono strumenti di lettura di questa fase, e i mezzi per attrezzarsi a combattere le forze che determinano in ultima istanza il suo carattere ingiusto e reazionario.
Prendiamo ad esempio gli scritti di Gramsci sulla questione meridionale, il problema dello sviluppo storico dell’unità italiana e l’alleanze tra la borghesia industriale del nord e la proprietà fondiaria del sud. Oggi la strategia di unità d’azione, di alleanza di classe del proletariato industriale con le masse contadine, può apparire superata. Ma se la si legge al di fuori delle categorie di allora –le masse contadine in Italia non sono più quelle di inizio ‘900 – resta validissimo il punto centrale delle alleanze di classe. In più, all’ineguale sviluppo dell’Italia si aggiunge oggi un’ineguale livello di sviluppo mondiale, che sotto il potere dei grandi monopoli, di quelle che nel linguaggio comune di chiamano multinazionali, schiaccia ed opprime tanto i lavoratori dei paesi più ricchi quanto quelli più poveri. Gli spunti sull’immigrazione, sulla necessità di superare ogni separazione sono validi oggi come ieri, rapportati al tema, centrale in questa fase, dell’unità dei lavoratori indipendentemente dal paese di provenienza, dalla razza, dalla religione, situazione assolutamente non dissimile alla strategia dei comunisti torinesi di fronte all’immigrazione dal sud in un’Italia unità allora da appena mezzo secolo. E così si potrebbe parlare di egemonia, della strategia sindacale dei comunisti, della teoria del partito, persino di scuola, educazione, di cui Gramsci parla nei Quaderni. Però per restare fedele al tema di questo articolo, ossia trovare un argomento che possa interessare e convincere un giovane di oggi, ho scelto la parte che Gramsci dedica alla disciplina e all’organizzazione nella Città Futura, un opuscolo di formazione dei giovani socialisti di cui curò la redazione prima della scissione di Livorno e della nascita del Partito Comunista.
«Disciplinarsi è rendersi indipendenti e liberi», scrive Gramsci. Quest’affermazione è in completa controtendenza rispetto all’ideologia dominante, che esalta ogni forma di autonomia, presupposto per la diffusione di una cultura in ultima istanza individualista, e funzionale al perpetrarsi del sistema di mercato, il modo eufemistico in cui viene definito il capitalismo. Per l’ideologia dominante bisogna essere liberi, bisogna rifiutare ogni forma di associazione stabile che finirebbe per comprimere la purezza del singolo e dei suoi ideali, schiacciandoli e snaturandoli. Oggi questo punto è tanto più importante perché è la prima fortezza, la più salda, dietro cui l’ideologia capitalista si difende. È talmente salda che anche la principale forza di opposizione, il Movimento Cinque Stelle, che pure a parole si presenta come forza “rivoluzionaria”, ha fatto completamente sua, confondendo la giusta critica alla deriva dei partiti, anche della sinistra, con l’idea di rigettare e distruggere ogni forma di associazione stabile, animata da una visione comune della società, premessa stessa per il cambiamento rivoluzionario. Ma in una società solo apparentemente libera in cui il conflitto capitale-lavoro è la base dello sfruttamento sociale, in cui la formalità dell’uguaglianza è negata nella sostanza dei rapporti di forza e della condizione di classe, l’associazione, l’organizzazione e la disciplina che ne segue sono l’unica forza che le classi dominate hanno da contrapporre alle classi dominanti, tanto come elemento di resistenza (sindacato), tanto come forma di organizzazione per il contrattacco e la vittoria (partito), ossia per il rovesciamento di quei rapporti sociali e giuridici che le rendono subalterne.
Scrive Gramsci, con un esempio mutuato dall’esperienza comune: «L’acqua è acqua pura e libera quando scorre fra le due rive di un ruscello o di un fiume, non quando è sparsa caoticamente sul suolo, o rarefatta si libra nell’atmosfera. Chi non segue una disciplina politica è appunto materia allo stato gassoso, o materia bruttata da elementi estranei: pertanto inutile e dannosa. La disciplina politica fa precipitare queste lordure, e dà allo spirito il suo metallo migliore, alla vita uno scopo, senza del quale la vita non varrebbe la pena di essere vissuta». Chi sono davvero quelle persone che ritengono di essere libere perché così anticonformiste da non associarsi ad un movimento che lotta per rivoluzionare questa società? Nient’altro che imbevute dalla stessa ideologia che a parole sostengono di voler combattere. Siamo davvero sicuri di “pensare con la nostra testa” quando formiamo la nostra opinione su un giornale, su quello che dice la televisione? Siamo convinti che nell’ambito delle strutture stesse che sostengono il potere di questa società sia, automaticamente possibile formarsi una coscienza realmente critica? È possibile che questa coscienza sia realmente più “pura”, più genuina di quella che può invece realizzarsi mettendo insieme collettivamente le proprie capacità, i propri mezzi, per rovesciare le premesse che portano alla subalternità delle classi oppresse? In questo senso, scrive Gramsci, chi non segue una disciplina finisce per essere «materia bruttata da elementi estranei», perché la forza dell’ideologia capitalista, nella nostra società è tanto più forte, dispone di mezzi tanto più efficaci e pervasivi, che solo l’unione, l’organizzazione e la disciplina possono riuscire a respingere.
Certo, dice Gramsci, esiste disciplina e disciplina. Anzi la disciplina della vecchia società va del tutto rifiutata e ad essa deve essere contrapposta una nuova forma di disciplina. «Bisogna a disciplina contrapporre disciplina. Ma la disciplina borghese è cosa meccanica ed autoritaria, la disciplina socialista[4] è autonoma e spontanea. Chi accetta la disciplina socialista vuol dire che è socialista o vuole diventarlo più compiutamente, inscrivendosi al movimento giovanile se è un giovanotto. E chi è socialista o vuole diventarlo non ubbidisce: comanda a se stesso, impone una regola di vita ai suoi capricci, alle sue velleità incomposte. Sarebbe strano che mentre troppo spesso si ubbidisce senza fiatare a una disciplina che non si comprende e non si sente, non si riesca a operare secondo una linea di condotta che noi stessi contribuiamo a tracciare e a mantenere rigidamente coerente. Poiché è questo il carattere delle discipline autonome: essere la vita stessa, il pensiero stesso di chi le osserva. La disciplina che lo stato borghese impone ai cittadini fa di questi dei sudditi, che si illudono di influire sullo svolgersi degli avvenimenti. La disciplina del partito socialista fa del suddito un cittadino: cittadino ora ribelle, appunto perché avendo acquistato coscienza della sua personalità, sente che questa è impastoiata e non può liberamente affermarsi nel mondo». Mentre nella società capitalista siamo abituati in nome di questa apparente libertà a finire per obbedire, obbedire sul posto di lavoro, nelle scuole, alle regole generali della società, associarsi ad un movimento comunista significa determinare la propria disciplina, contribuire a realizzare le scelte collettive e dunque le proprie scelte. A differenza di quanto si possa pensare, di quanto dicono i detrattori del comunismo, l’organizzazione altro non è che il prodotto, la sintesi dialettica, tra base e dirigenti, tra elementi che insieme, nella discussione contribuiscono a decidere la strategia e l’azione del partito. La disciplina di appartenere a un movimento comporta la possibilità di prendere parte alle sue decisioni, portando poi avanti la linea comunemente decisa in virtù di questa decisione comune.
«Associarsi a un movimento – scrive Gramsci – vuol dire assumersi una parte della responsabilità degli avvenimenti che si preparano, diventare di questi avvenimenti stessi gli artefici diretti. Un giovane che si iscrive al movimento giovanile socialista compie un atto di indipendenza e di liberazione». La prima lezione che Gramsci fa a un giovane è quella di liberarsi dell’ideologia borghese dell’individualismo, nella sua forma più affilata, quella del rifiuto dell’organizzazione e della disciplina che ne consegue. Liberandosi di questo feticcio che la società moderna ci consegna, un giovane sarà un lavoratore più forte, perché parte di un’associazione in grado di unire insieme a sé altri lavoratori e insieme di difendere le prerogative di tutti. Ciascuno di noi da solo non vale nulla. L’individualismo diventa concorrenza, a tutto vantaggio delle classi dominanti e del loro potere, l’unione, la solidarietà spezza questa subalternità, la direzione politica e l’organizzazione consentono quel processo di liberazione che è la rivoluzione socialista.
Parafrasando Gramsci quindi, aggiornando i termini e le organizzazioni di allora con quelle di oggi, ogni giovane proletario che sente quanto sia pesante il fardello della sua schiavitù di classe, deve compiere l’atto iniziale della sua liberazione, iscrivendosi al Fronte della Gioventù Comunista. Associarsi al FGC significa oggi compiere quella scelta di coerenza che un giovane rivoluzionario può portare a termine solo prendendo direttamente parte all’azione politica, non restando spettatore della storia, ma volendo divenire attiva di essa, contribuendo al rovesciamento di un sistema di ingiustizie e alla costruzione della nuova società socialista, per garantire la pace, il progresso, il lavoro, il futuro delle giovani generazioni che oggi vivono sulla loro pelle tutte le contraddizioni di questo sistema.
[1] Palmiro Togliatti «In memoria di Antonio Gramsci», discorso pronunciato da Togliatti a Mosca il 27/o5/1937
[2] In particolare mi riferisco allo scritto di Gramsci «Per un rinnovamento del Partito Socialista» approvato da Lenin come base per la strategia in Italia al secondo congresso dell’Internazionale Comunista
[3] Nei «Quaderni dal Carcere» la difesa dell’autonomia del marxismo e la lotta contro la sua scissione e riduzione da un lato idealistica e dall’altro deterministica, è un tema preponderante degli appunti teorici presenti. Il tema è sempre attuale, come cercai di spiegare in una serie di articoli pubblicati alcuni anni fa proprio su senzatregua https://www.senzatregua.it/gramsci-lautonomia-del-marxismo-e-la-lotta-contro-la-doppia-revisione-part-1/
[4] Gramsci utilizza sempre l’espressione “socialista” in quanto lo scritto è antecedente alla nascita del Partito Comunista e alla formazione stessa dell’Internazionale Comunista. Allora esistevano i partiti socialisti e socialdemocratici. Pertanto, anche viste le successive idee di Gramsci, ogni volta che si legge socialista, si può intendere a tutti gli effetti “comunista”