di Maria Chiara Verducci*
Due giorni fa il Senato Accademico dell’Università Statale di Milano ha approvato il numero chiuso per le facoltà di Studi Umanistici: con 18 voti favorevoli, 11 contrari e 6 astenuti è passata la mozione del rettore Gianluca Vago, che prevede già a partire dall’anno 2017/2018 l’introduzione dell’accesso programmato alle facoltà di Storia, Filosofia, Beni Culturali e Scienze Umanistiche per l’Ambiente.
Già lo scorso 28 aprile gli studenti avevano presidiato l’aula in cui si riuniva il Comitato di Direzione di Studi Umanistici, per dire no al numero chiuso e per richiedere di essere chiamati in causa su una decisione così importante. Le mobilitazioni sono poi seguite, in un’escalation di proteste che ha coinvolto anche professori e dottorandi: il 16 maggio, data in cui il rettore aveva fissato la seduta del Senato Accademico in cui si sarebbe dovuto votare sul numero chiuso, gli studenti hanno presidiato l’aula in centinaia, forzando la seduta e bloccando la decisione del Senato che è stato poi costretto a rinviare la riunione al martedì successivo. Il 23 Maggio un nuovo presidio nel cortile centrale dell’università chiamava il Senato Accademico a non votare per l’introduzione dell’accesso programmato: una parte degli studenti, in segno di protesta, ha scelto di sdraiarsi davanti all’ascensore e alle scale d’ingresso del rettorato.
Tutto questo crescendo di proteste e decisioni così repentine si è venuto a delineare in poco meno di un mese: il rettore Vago, con una gestione del potere alquanto discutibile in termini di autorità, ha richiesto di accelerare notevolmente i tempi dell’approvazione e, nel farlo, si è dimenticato di considerare non solo il parere degli studenti, ma anche quello dei singoli dipartimenti, che chiedevano l’introduzione di un test di autovalutazione.
Ma da che cosa dipende la decisione operata in fretta e in furia dal Rettore? A ben vedere, la “necessità” di inserire il numero chiuso a Studi Umanistici risponde ad un decreto ministeriale, datato dicembre 2016, in cui si fissa ad un rapporto di 9 docenti su 200 studenti la capacità o meno di un corso di laurea umanistico di “accreditarsi”, ovvero di poter essere avviato. In sostanza, l’ANVUR (Agenzia Nazionale di valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca) ha dato un anno di tempo per adeguarsi al decreto; per chi ridimensiona gli studenti in base al numero di professori bene, per tutti gli altri c’è la soppressione del corso di laurea.
È chiaro che questa decisione si inserisce nel quadro di un progressivo disinteresse e disimpegno dello Stato nei confronti dell’università: proprio di recente la ministra Fedeli dicendosi contraria alla decisione presa dall’Università di Milano ha però ricordato che si tratta di questioni che “devono affrontare le università, visto che hanno autonomia”. È nel nome di questa sbandierata autonomia che abbiamo assistito negli ultimi anni a tagli sempre più ingenti al sostentamento delle università pubbliche e ad un conseguente innalzamento della tassazione sugli studenti.
È finita da tempo ormai l’illusione dell’università di massa, che aveva accompagnato le speranze della generazione precedente la nostra: se in quegli anni il processo di scolarizzazione veniva fortemente incoraggiato dallo sviluppo delle esigenze produttive del capitale, che necessitava di un innalzamento delle capacità tecniche e di formare una manodopera maggiormente qualificata, oggi non è più così. In un momento di profonda ristrutturazione dell’economia italiana, con lo smantellamento di interi settori produttivi strategici, il sistema produttivo non necessita più di lavoratori altamente specializzati ma di una manodopera sempre più dequalificata e basso costo, che possa consentire alle imprese di essere ancora profittevoli sul mercato in un momento di feroce crisi economica come questo.
Negli anni ’70, la massificazione dell’università fu stimolata dalla preoccupazione della “disoccupazione intellettuale”: i diplomati senza lavoro venivano riconvertiti in studenti e universitari, e gli studenti universitari in professori. Chiaramente con il tempo, questo elemento portò ad un inasprirsi della contraddizione fra l’acquisizione delle capacità intellettuali delle masse e il tentativo del capitale di appiattire l’istruzione su un apprendimento nozionistico: è in quest’ottica che si spiega la minor domanda di lavoro qualificato e la maggiore disoccupazione fra i laureati, nonché la progressiva perdita di importanza delle facoltà umanistiche. Lo stesso rettore Vago, in un’intervista al Corriere della Sera, giustifica la sua presa di posizione sottolineando i dati sull’occupabilità, per cui “per Almalaurea l’inefficacia di Beni Culturali per esempio è doppia della media di ateneo. E in alcuni corsi un terzo dei laureati che trovano un lavoro dichiara di non utilizzare quello che ha studiato all’università».
Ma per spiegare la decisione sul numero chiuso, il rettore aggiunge pure che è un sistema che “migliora la qualità “e “riduce il numero degli abbandoni”, e che “il diritto allo studio però non è in discussione, il tema è come garantirlo al meglio con le poche risorse che lo Stato mette a disposizione delle università”. Di fronte ad una crisi sempre più profonda dell’università pubblica in Italia, con l’aumento del 50 % delle tasse universitarie in 10 anni, con i tagli al FFO e all’assegnazione delle borse di studio, con l’aumento del costo di libri e trasporti, viene da chiedersi: come può essere un’ulteriore barriera economica sinonimo di qualità? Come potrebbe garantire la tanto sbandierata meritocrazia un sistema che non tiene conto delle differenze di partenza di ogni studente? Chi oggi si schiera a favore del numero chiuso, portando a difesa del suo pensiero queste convinzioni, non fa che schierarsi apertamente a difesa dello smantellamento dell’università pubblica in Italia e non fa che difendere, ancora una volta, il totale asservimento delle università alle necessità delle imprese e di chi gestisce il mercato del lavoro.
Oggi la questione del numero chiuso, a Milano come in tutta Italia, non può essere assolutamente slegata da un discorso che rimetta in discussione il sistema universitario così com’è concepito adesso: non è più possibile continuare a pensare all’università come ad uno stagno da cui un pugno di padroni pesca a piacimento i pesci migliori per far profitto. La lotta contro il numero chiuso, che in questo sistema si trasforma nell’ennesima selezione di classe, deve passare a tutti gli effetti per la lotta contro l’università di classe, contro un un’università che è sempre più inaccessibile anche e soprattutto perché asservita agli interessi ed alle esigenze del grande capitale, contro un’università modellata su misura della classe dominante. La vittoria della mozione presentata da Vago non ha fatto altro che confermare questa tendenza: ecco perché lottare contro il numero chiuso oggi vuol dire rilanciare la lotta per un’università realmente gratuita e accessibile a tutti, vuol dire lottare per un modello diverso di università, non più asservito agli interessi di un gruppo di padroni, ma finalizzato alla crescita collettiva della società.
*responsabile del FGC all’Università Statale di Milano