Proseguiamo il ciclo di articoli sui passaggi storici e strategici fondamentali della Rivoluzione d’Ottobre. Dopo gli articoli sulla Rivoluzione di Febbraio e sulle Tesi di Aprile, questo terzo articolo è dedicato al 1° Congresso dei Soviet, uno dei momenti più alti della lotta dei bolscevichi fra le masse popolari nella Russia rivoluzionaria. L’articolo ripercorre le principali scelte politiche dei bolscevichi, che perseguono con coerenza una politica rivoluzionaria con l’obiettivo di ribaltare la propria – temporanea – condizione di minoranza, mostrando poi come queste tesi siano perseguite con coerenza durante il Congresso dei Soviet e nei giorni immediatamente successivi al Congresso.
- Le cause dell’immaturità del proletariato
I quattro mesi successivi alla Rivoluzione di Febbraio furono caratterizzati dal cosiddetto dualismo di potere, con la presenza di fatto di due governi: da un lato il Governo provvisorio e il potere centrale dello Stato, che si trovavano nelle mani della borghesia; dall’altro il Soviet dei deputati operai e soldati di Pietrogrado – il soviet “centrale” – una sorta di Governo collaterale e “di controllo”, che godeva della fiducia di tutti i soviet locali, organi di un potere popolare “immaturo” nato dall’attività rivoluzionaria delle masse proletarie, dalla loro organizzazione e dal loro ruolo incontestabile di forza motrice della Rivoluzione di Febbraio.
Furono i soviet stessi, pur essendo espressione della volontà delle masse proletarie che avevano abbattuto lo zarismo, a cedere volontariamente al Governo provvisorio (e quindi alla borghesia) il potere conquistato da operai e soldati insorti, relegando se stessi ad un ruolo di controllo e di sorveglianza tutt’altro che effettivo, a patto che fossero rispettate alcune condizioni che però non toccavano minimamente le questioni fondamentali (la fine della guerra, la distribuzione delle terre, la riduzione della giornata lavorativa, la fine della crisi economica e del caos della produzione) la cui risoluzione veniva continuamente rimandata ad un’Assemblea Costituente che non fu mai convocata. La causa di questa cessione di potere alla borghesia, che di fatto sancisce la fase del dualismo, era – come disse Lenin – «il grado insufficiente di coscienza e di organizzazione dei proletari e dei contadini».
I soviet detenevano tutta la forza militare, ma erano diretti nella maggior parte dei casi da forze politiche che – pur incontrando il consenso delle grandi masse popolari e pur rifacendosi all’ideale della costruzione di una società socialista – avevano concezioni profondamente arretrate. Anziché lavorare affinché il proletariato maturasse e fosse in grado di prendere il potere nelle sue mani, i dirigenti dei soviet sostenevano posizioni conciliatorie secondo le quali, in questa fase e nella particolare situazione della Russia, era compito della borghesia portare avanti la rivoluzione democratica, e compito del proletariato darle sostegno ed esercitare pressioni per “raddrizzarne il tiro” quando necessario, rimandando ad un futuro indefinito la trasformazione della società in senso socialista. I deputati dei soviet, infatti, erano in maggioranza menscevichi e socialisti rivoluzionari, o comunque operai, contadini e soldati ingenuamente persuasi dalle loro posizioni e parole d’ordine. Questa egemonia era dovuta da un lato al criterio di composizione dei soviet stessi, che dava più peso a piccole fabbriche e officine a scapito delle grandi industrie con più di 500 lavoratori, che impiegavano circa il 56,6% di tutti gli operai e dove i bolscevichi avevano una schiacciante egemonia; dall’altro alla pesante influenza che in quel periodo gli strati sociali intermedi della società esercitavano sul proletariato e sui contadini poveri. Lenin la definiva «una gigantesca ondata piccolo-borghese» che aveva «schiacciato non solo col suo numero, ma anche con le sue idee il proletariato cosciente, […] contaminato e pervaso con concezioni politiche piccolo borghesi vastissimi strati operai». All’epoca, infatti, la classe operaia e il proletariato erano numericamente molto inferiori alla popolazione degli strati intermedi della società (piccoli e medi padroni e proprietari terrieri, contadini abbienti, bottegai e lavoratori autonomi, artigiani, funzionari, intellettuali) che nel complesso comprendevano la parte più grande della popolazione del «paese più piccolo-borghese d’Europa», come Lenin definiva la Russia di allora[1]. Per via del posto che occupavano nella produzione sociale, questi strati intermedi dipendevano direttamente dalla borghesia e, di conseguenza, la loro coscienza e visione del mondo coincideva essenzialmente con quella dei capitalisti. Con la Rivoluzione di Febbraio e la caduta dello zarismo, questa grande parte “amorfa” della società divenne improvvisamente attiva nella vita politica del paese, trasmettendo alle masse proletarie una «fiducia incosciente nei capitalisti, i peggiori nemici della pace e del socialismo». Inoltre, la parte più avanzata e politicamente matura del proletariato e del partito bolscevico era morta in guerra, imprigionata nelle carceri, confinata all’estero o deportata in Siberia. Condanne, queste ultime, per le quali prima della Rivoluzione di Febbraio bastava semplicemente essere iscritti al partito bolscevico. Tutto ciò aveva fortemente indebolito l’avanguardia della classe operaia e del proletariato, esponendolo ancora di più all’influenza piccolo-borghese.
D’altro canto, invece, la borghesia dei banchieri, degli industriali e dei grandi proprietari terrieri era enormemente più organizzata del proletariato. Questa sua forza era espressione del potere reale che deriva dal controllo dei mezzi di produzione, delle fabbriche, della terra e di tutta la ricchezza della nazione. La guerra imperialista, inoltre, per i capitalisti che controllavano diversi settori industriali centrali per l’economia russa, era stata fin dall’inizio un grande affare che aveva accelerato la crescita del loro potere sotto lo zarismo più di quanto la “normale” maturazione dei nuovi rapporti di produzione capitalistici in seno alla vecchia società feudale avrebbe fatto.
Pur essendo politicamente immaturo, nelle lotte, negli scioperi e nell’insurrezione vittoriosa di febbraio il proletariato aveva acquisito una grande forza, che rendeva impossibile per la borghesia assicurare il potere unico nelle proprie mani “con le maniere forti”. Anzi, si era trovata costretta a riconoscere (parzialmente ma in modo decisivo) il potere dei soviet: basti pensare che il primo provvedimento in assoluto del Governo provvisorio – la famigerata Ordinanza N° 1 cui Kerenskij si riferiva quando affermava che avrebbe dato 10 anni della propria vita perché quel decreto non fosse stato mai firmato – decretava che in tutte le unità dell’esercito e della marina, i soldati avrebbero dovuto eleggere democraticamente un comitato di propri rappresentanti designati tra i soldati semplici; che in ogni azione politica le unità militari avrebbero ubbidito al soviet e ai suoi rappresentanti; che gli ordini della commissione militare della Duma di Stato andavano eseguiti esclusivamente qualora non in contraddizione con quelli dei soviet e, infine, che le armi di qualsiasi genere dovevano «essere poste a disposizione e sotto il controllo dei comitati di compagnia e in nessun caso consegnate agli ufficiali, anche se questi ne facessero formale richiesta». Si lasciavano in sostanza la forza militare e le armi sotto il controllo dei soviet.
La Rivoluzione di febbraio, quindi, era già andata ben oltre i desideri della borghesia, che non voleva altro che la caduta dello zarismo, incapace di condurre la guerra fino in fondo negli interessi suoi e dei capitalisti anglo-francesi. Nonostante l’immaturità del proletariato, che le aveva consegnato il potere dopo averlo conquistato col proprio sangue, la borghesia era fortemente intimorita dall’attività degli operai e dei soldati, dalle loro forme di organizzazione autonoma, dalla coscienza politica che gli operai e i soldati stavano maturando molto rapidamente negli scioperi e nelle mobilitazioni contro la guerra imperialista grazie alla direzione dei bolscevichi. Qualunque offensiva diretta e aperta della borghesia contro il proletariato avrebbe provocato uno spostamento di quest’ultimo verso le posizioni rivoluzionarie dei bolscevichi, avrebbe aumentato il rischio di una trasformazione della rivoluzione democratico-borghese in rivoluzione sociale, in guerra civile per il potere unico nelle mani dell’una o dell’altra classe sociale.
Per questo, di fronte alla forza che i soviet avevano conquistato e contro la minaccia di una rivoluzione proletaria, che avrebbe ribaltato i rapporti di produzione privandola del suo potere, alla borghesia non restava altro che usare la tattica delle concessioni, delle promesse indossando una maschera progressista per porsi alla testa della rivoluzione e, una volta accumulate le forze necessarie, decapitarla. I grandi proprietari terrieri e i capitalisti, diceva Lenin, «hanno capito che non è più possibile regnare col manganello; l’hanno capito benissimo e passano quindi ad un sistema di dominio che per la Russia costituisce una novità, ma che in Europa occidentale esiste già da molto tempo… Le rivoluzioni istruiscono i proprietari terrieri e i capitalisti; insegnano loro che bisogna governare il popolo con la menzogna, con l’inganno; bisogna adattarsi, appuntarsi sulla giacca il distintivo rosso e, come dei vampiri, proclamare: “noi siamo la democrazia rivoluzionaria, aspettate un poco, per piacere, e noi risolveremo per voi tutti i problemi”». E in questo, i partiti opportunisti che dirigevano i soviet – Menscevichi e Socialisti Rivoluzionari in testa – giocarono fin dall’inizio un ruolo fondamentale.
- I compiti dell’avanguardia ed il ruolo dell’opportunismo
I bolscevichi avevano compreso che questa situazione temporanea di equilibrio dei rapporti di forza tra le classi sarebbe durata poco, e che il proletariato ne sarebbe uscito vittorioso soltanto se avesse maturato la coscienza del proprio ruolo storico e la capacità concreta di portarlo a termine. Il compito dei comunisti, allora come oggi, era quindi da un lato far comprendere alle masse popolari la necessità della lotta rivoluzionaria per il potere ai lavoratori, districandole dalla ragnatela di tentennamenti piccolo-borghesi e illusioni di conciliazione dei propri interessi con quelli dei capitalisti in cui erano state paralizzate dalle forze opportuniste; dall’altro, dargli organizzazione, trasformare la classe operaia e il proletariato in classe rivoluzionaria, realmente in grado di porsi alla testa della rivoluzione, prendere il potere nelle proprie mani e costruire la nuova società socialista.
Operare questa trasformazione non è affatto un compito semplice, ma è il compito fondamentale e inderogabile di un’avanguardia rivoluzionaria. Sarebbe davvero semplicistico pensare che per svolgere questo ruolo basti esporre alle masse oppresse i loro errori e indicargli il da farsi con ordini e direttive secche calate dall’alto, come un ufficiale di un esercito fa con i soldati suoi sottoposti. «L’esercito politico – come disse Stalin in un suo intervento durante la Conferenza bolscevica di aprile – è tutt’altra cosa di quello normale. Mentre il comando militare scatena una guerra disponendo di un esercito completamente addestrato e pronto, il partito è obbligato a costruire il proprio esercito nel corso stesso della lotta, durante lo scontro delle classi, man mano che le masse si convincono, per la propria esperienza, della giustezza delle parole d’ordine del partito, della giustezza della sua politica». Era quindi nel fuoco della lotta che la classe operaia doveva trasformarsi in “esercito politico”, sotto la guida e le parole d’ordine del partito.
L’essere in netta minoranza all’interno dei soviet non aveva scoraggiato i bolscevichi, non li aveva dissuasi dal portare avanti con coerenza questo compito rivoluzionario, non li aveva indotti a rimandare, come fecero menscevichi e socialisti rivoluzionari (pur avendo la maggioranza) ad una indefinita fase successiva la conquista del potere da parte delle classi lavoratrici, concedendo in questo modo alla borghesia tutto il tempo per rafforzare il proprio dominio. Non sono le minoranze a fare le rivoluzioni, questo i bolscevichi lo sapevano bene. È proprio per questo che si lanciarono coraggiosamente alla conquista delle masse proletarie per sottrarle all’egemonia piccolo-borghese cui erano sottoposte, in un lavoro solitario che oggi qualcuno definirebbe “settario”. Moltissime volte, infatti, furono accusati di avere atteggiamenti divisivi, di mettere a rischio la rivoluzione rompendo l’unità del popolo russo e delle forze socialiste (oggi si parlerebbe di “unità della sinistra”), di non saper comprendere che di fronte al rischio di una involuzione reazionaria, all’immaturità del proletariato e alle particolarità di quella determinata fase storica, era necessario subordinare l’obiettivo della rivoluzione socialista a compromessi con la borghesia (o con una parte di essa) nel nome di obiettivi di fase di carattere intermedio. Cedere a questi appelli all’unità avrebbe inevitabilmente paralizzato i comunisti all’interno di posizioni di compromesso e di conciliazione con la borghesia che avrebbero finito per porre la classe operaia alla coda degli interessi dei propri sfruttatori.
Quello dei bolscevichi fu l’esatto opposto di un comportamento settario: fu un grande lavoro di massa che consentì al partito di rafforzarsi rapidamente raccogliendo nelle proprie fila i migliori elementi della classe operaia e costruendo la propria presenza organica in ogni fabbrica, in ogni reggimento e in ogni quartiere popolare. Il contenuto rivoluzionario di questo lavoro risiedeva nell’unione dialettica tra spiegazione e critica delle posizioni mensceviche, e organizzazione delle lotte e dell’attività politica in generale delle masse proletarie, a partire dagli scioperi e le mobilitazioni per arrivare al controllo della produzione e all’organizzazione delle milizie popolari nei contesti più avanzati. La propaganda bolscevica avvicinava le masse al partito rispondendo al malcontento e alle spontanee rivendicazioni popolari, senza appiattirsi su di esse e senza assecondare la loro arretratezza. Al contrario, le parole d’ordine lanciate dai bolscevichi traducevano questo malcontento in precisi obiettivi di lotta; una lotta che il partito organizzava in modo capillare in ogni fabbrica, in ogni unità dell’esercito e in ogni quartiere popolare. Ed era proprio attraverso l’esperienza diretta della lotta che le masse proletarie comprendevano la giustezza delle posizioni bolsceviche e la necessità della lotta rivoluzionaria per il potere ai soviet. La lotta insegnava agli operai l’enorme valore dell’organizzazione, gli mostrava che il proletariato, armato di coscienza e organizzazione, era davvero in grado di prendere tutto il potere nelle proprie mani. Allo stesso tempo, nella misura in cui avveniva questa maturazione, le lotte si spostavano in modo sempre più deciso in una direzione rivoluzionaria, verso la risoluzione del dualismo di potere in favore dei soviet.
Tale lavoro di massa si concentrava soprattutto sulla classe operaia e all’interno delle sue organizzazioni di base: i comitati di fabbrica e i sindacati, dove l’influenza dei bolscevichi divenne ben presto totalmente egemone. Sotto la direzione dei bolscevichi, l’attività politica della classe operaia ebbe uno sviluppo esplosivo: nei soli mesi di marzo e aprile, le organizzazioni sindacali operaie in Russia erano passate da 130 a più di 2.000; ovunque le organizzazioni di base della classe operaia si affermavano come la parte più creativa ed avanzata del movimento rivoluzionario.
A dispetto delle difficili condizioni che si era appena lasciato alle spalle (la clandestinità sotto lo zarismo, le deportazioni in Siberia e l’allontanamento di molti quadri e dirigenti, tra i quali lo stesso Lenin fino al 3 aprile 1917), il partito bolscevico e la sua influenza tra gli operai e i soldati crebbero enormemente già soltanto nei primi due mesi dopo la rivoluzione di febbraio. Grazie all’instancabile lavoro di propaganda e organizzazione di scioperi e manifestazioni, il numero di militanti a Pietrogrado era passato da circa 2.000 nei primi anni della guerra a più di 16.000 alla vigilia della Conferenza d’aprile, mentre a Lugansk da 100 si era passati a 1.500; nella regione di Mosca il numero di operai e soldati iscritti al partito si attestata attorno ai 13.000, a Kronstadt si contavano 3.600 bolscevichi estremamente attivi e capaci; nelle città del Volga – Saratov, Samara e Kazan’ – si contavano 4.600 bolscevichi, mentre nell’Ural il partito superava i 16.000 membri.
La propaganda bolscevica si estendeva e rafforzava ogni giorno di più, con la nascita di nuovi giornali e la loro diffusione capillare nelle officine e nelle trincee attraverso il duro lavoro militante. Oltre alla famosa Pravda, il partito bolscevico stampava molti altri giornali: a Mosca il Social-demokrat (la cui tiratura era di ben 60.000 copie!), negli Urali la Pravda dell’Ural e il Vpered, ad Helsinki il Volna, a Kronstadt il Golos Pravdy (Voce della verità), ad Efaterinoslav il Zvezda (La stella), a Charkov il Proletarij, nel Caucaso Kavkazskij Rabocij (L’operaio del Caucaso) e per finire, nella regione del Volga, tre giornali cittadini a Saratov, Samara e Kazan’.
Il movimento rivoluzionario, inizialmente concentrato nei grandi centri urbani di Pietrogrado e Mosca, si era diffuso nelle “periferie” sconfinate della Russia, dove il suo sviluppo aveva in poco tempo superato nettamente il centro. Infatti, man mano che ci si allontanava dalle grandi città, in regioni come gli Urali, il sud della Poponia ed il Baltico dove, assieme all’area centrale, era concentrata circa il 79% dei lavoratori ed il 75% della produzione industriale, la componente operaia e proletaria della popolazione aumentava nettamente a scapito di tutti quegli elementi intermedi della società. Di conseguenza la loro influenza riusciva a contaminare molto di meno le masse proletarie e la direzione dei soviet. In queste regioni, come il bacino del Donez e gli Urali per citare giusto due esempi, i bolscevichi avevano conquistato quasi tutti i soviet, che sotto la loro direzione erano diventati a tutti gli effetti organi del potere operaio: controllavano l’industria, organizzavano la produzione e l’approvvigionamento, organizzavano milizie popolari e avevano stabilito la giornata lavorativa di 8 ore. «Lugansk, di fatto, è attualmente nelle mani degli operai. – riferiva un delegato alla Conferenza bolscevica – I minatori sono dappertutto: nei commissariati e nella milizia, nei soviet dei deputati operai e soldati e svolgono anche la funzione di giudici. Tutte le organizzazioni sono nelle mani dei minatori, tanto che questi sono i padroni assoluti delle miniere.»
Nel frattempo, nelle campagne divampava la lotta dei contadini contro i grandi latifondisti. Le tenute dei padroni venivano prese d’assalto e le terre espropriate. I socialisti rivoluzionari, tradizionalmente il partito dei contadini, avevano costantemente rimandato la soluzione della questione agraria all’Assemblea Costituente, di fatto svolgendo una funzione di contenimento delle lotte contadine tentando di spegnerle con promesse, illusioni e concessioni molto limitate, come ad esempio la confisca delle terre della famiglia Romanov. I contadini erano esasperati dalle continue promesse dei dirigenti dei soviet contadini, in maggioranza socialisti rivoluzionari e menscevichi, che proprio della distribuzione delle terre avevano fatto da sempre una propria bandiera. I bolscevichi, invece, sostennero con decisione la lotta del movimento contadino, contrastando l’illusoria aspettativa che il Governo provvisorio e la borghesia avrebbero risolto la questione della terra al posto dei soviet. La borghesia, infatti, non poteva togliere le terre ai proprietari fondiari perché questo avrebbe significato danneggiare i suoi stessi interessi: le terre, infatti, erano state ipotecate diverse volte alle banche borghesi. Per questa ragione, aspettare l’Assemblea Costituente era inutile, e non bisognava accontentarsi di qualche esproprio con indennizzo a vecchi padroni feudali. Era necessario lottare per l’esproprio senza indennizzo di tutte le terre dei grandi proprietari latifondisti e metterle nelle mani dei soviet locali dei deputati dei salariati agricoli e dei contadini poveri. Inoltre, i bolscevichi capirono che limitarsi a lottare per la nazionalizzazione della terra non era sufficiente, bensì era necessario rivendicare l’esproprio di tutto il capitale produttivo agricolo (bestiame, sementi, strutture, ecc.). Sarebbe stato poi compito dei soviet dei contadini poveri e dei braccianti salariati riorganizzarlo secondo un modello produttivo nuovo e più avanzato, di carattere collettivo.
L’avanzare deciso del movimento contadino e il suo radicalizzarsi su posizioni di rottura con le illusioni conciliatorie ancora egemoni nei soviet, costrinse i socialisti rivoluzionari e i menscevichi a gettare la maschera rivelando da che parte stavano realmente. Il congresso del Partito Socialista Rivoluzionario emise un comunicato col quale la lotta contadina veniva squalificata, sostenendo ancora una volta che «la confisca delle terre coltivate, degli appannaggi, della corona e dei privati non può essere realizzata che attraverso la via legislativa, ad opera dell’Assemblea costituente che darà al popolo la terra e la libertà».
Le forze opportuniste riuscirono a dimostrarsi persino più reazionarie della stessa borghesia che, di fronte alla forza che le lotte contadine andavano conquistando, adottava la tattica del concedere qualcosa per non perdere tutto. Si arrivò quindi al paradosso che mentre il Governo provvisorio confiscava e nazionalizzava parte delle terre delle famiglie nobili feudali come concessione al movimento contadino, la Conferenza dei soviet dei deputati operai e soldati della Russia adottò, su proposta dei menscevichi, una risoluzione in cui si affermava che «i disordini contadini non possono essere utilizzati che dalla controrivoluzione, e non certo dai contadini. Non bisogna dimenticare che, attualmente, il potere è nelle mani del popolo e che sarà lo stesso popolo che, all’Assemblea costituente, deciderà sulla questione agraria».
- La crisi di aprile e l’ingresso dei “socialisti” nel governo di coalizione
Negli ultimi giorni di aprile del 1917, quando ancora la Conferenza bolscevica non si era conclusa, nelle grandi mobilitazioni spontanee contro la guerra imperialista a Pietrogrado la tattica dei bolscevichi dimostrò pienamente la sua grande efficacia e la sua portata rivoluzionaria. I soldati operai e contadini continuavano a morire al fronte combattendo unicamente negli interessi della borghesia russa e dei suoi creditori inglesi e francesi, in condizioni di grave disorganizzazione e spesso letteralmente sacrificati come carne da cannone. I bolscevichi, nelle trincee, nelle fabbriche e nelle officine, svolgevano un lavoro incessante per spiegare alle masse quali erano i reali interessi in gioco nella guerra, affinché comprendessero che era impossibile separare la guerra dagli interessi dei capitalisti e che, di conseguenza, non poteva essere la borghesia a porre fine alla guerra.
L’illusione di una guerra fatta nel nome della rivoluzione, sempre più faticosamente tenuta in piedi dai discorsi dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari, cadde definitivamente agli occhi di operai e soldati quando, sotto le pressioni degli alleati e della borghesia russa, preoccupati e contrariati dalle dichiarazioni (per quanto fumose e vaghe) in favore della pace, il Governo provvisorio dovette mettere in chiaro quali erano le sue reali intenzioni rispetto alla guerra. Il 18 aprile, il ministro degli esteri Pavel Nikolaevic Miljukov diede garanzia esplicita agli alleati dell’impegno della Russia nella guerra “fino alla vittoria finale”. Questo significava che la condanna alla “guerra di conquista” e l’impegno per “una pace senza annessioni”, espresse dai soviet e dallo stesso Governo provvisorio poche settimane prima, erano lettera morta. La dichiarazione di Miljukov provocò un’ondata di rabbia e indignazione tra gli operai e i soldati che in 15.000, il 20 e 21 aprile, manifestarono nelle strade di Pietrogrado assediando il Palazzo Mariinskij, sede del Governo provvisorio, ed esigendo le dimissioni di Miljukov. Per operai e soldati, soprattutto quelli che avevano sinceramente ed ingenuamente creduto che la guerra fosse un sacrificio necessario a difendere la rivoluzione, questa esperienza costituì un punto di svolta che cambiò definitivamente il loro atteggiamento verso il Governo provvisorio e la borghesia.
I bolscevichi erano dunque riusciti a dimostrare quanto indissolubile era il legame tra la guerra e gli interessi della borghesia. Nel migliore dei casi, sotto la pressione delle masse popolari, il Governo provvisorio avrebbe potuto interrompere la guerra con una pace, ma si sarebbe trattato comunque di una pace imperialista, un accordo temporaneo di spartizione tra le potenze imperialiste a danno dei popoli che avrebbe inevitabilmente portato a nuove guerre. Soltanto i soviet, una volta preso il potere, avrebbero potuto porre fine alla guerra imperialista, e i bolscevichi avevano saputo dimostrarlo con un lavoro paziente e instancabile di spiegazione e critica delle posizioni difensiste diffuse dagli opportunisti. Ma soprattutto lo avevano dimostrato mobilitando le masse proletarie quando il difensismo rivoluzionario era ancora fortemente diffuso al loro interno, chiamandole a lottare contro una guerra di conquista e di spartizione del bottino tra capitalisti, per una pace tra i popoli senza annessioni. Questo fu possibile soltanto attraverso una scelta accurata di parole d’ordine che rispondevano alle aspirazioni delle masse evitando salti in avanti troppo grandi ma al contempo, e soprattutto, che chiamavano le masse a mobilitarsi, lottare e prendere l’iniziativa anziché riporre passivamente la propria fiducia nel Governo provvisorio, spingendo in questo modo le contraddizioni ad esplodere e a rendersi pienamente evidenti agli occhi di tutti.
Con la crisi di aprile, al cambio di atteggiamento delle masse proletarie nei confronti del governo provvisorio e allo spostamento deciso di una parte ancor più consistente della classe operaia e dei soldati sulla parola d’ordine rivoluzionaria dei bolscevichi “tutto il potere ai soviet”, i dirigenti piccolo-borghesi dei soviet reagirono spostandosi su posizioni più apertamente a favore dell’accordo con la borghesia e del pieno sostegno al governo provvisorio. Basti pensare che prima della crisi di aprile quasi metà dei deputati del comitato esecutivo del soviet di Pietrogrado si era pronunciata contro il Governo provvisorio; dopo la manifestazione 34 delegati contro 19 si dichiararono a favore del governo dei capitalisti e della conciliazione con la borghesia.
Mentre i bolscevichi erano sulle barricate di Pietrogrado, Mosca e dei grandi distretti industriali delle province, menscevichi e socialisti rivoluzionari sedevano alla testa dei soviet forti di un consenso che era frutto del facile inganno tipico dell’opportunismo: dissuadere le masse dalla lotta rivoluzionaria, convincerle a non marciare sulla difficile via della lotta di classe e a prendere la scorciatoia della conciliazione con la borghesia, in definitiva, invitarle ad avere fiducia nel proprio nemico di classe. Ma le contraddizioni sociali e politiche esplodevano inesorabilmente e in modo sempre più violento. Operai e soldati, sotto la guida dei bolscevichi, prendevano rapidamente coscienza del ruolo antirivoluzionario del Governo provvisorio e assumevano con decisione la parola d’ordine di “tutto il potere ai soviet”. Gli schieramenti iniziavano a delinearsi più chiaramente: da una parte la borghesia, il Governo provvisorio e i capi opportunisti dei soviet; dall’altra i bolscevichi alla testa di operai e soldati. Restava adesso da vedere in quale dei due campi in lotta si sarebbero schierate le grandi masse popolari e degli strati sociali intermedi, in particolar modo i contadini.
Con la crisi di aprile, la borghesia vide scricchiolare gravemente i meccanismi di consenso che avevano garantito al Governo provvisorio l’appoggio delle masse popolari. La figura di Kerenskij, il cui ingresso nel governo provvisorio come ministro della Giustizia era stato il frutto della negoziazione tra la borghesia e i dirigenti dei soviet, non bastava più a dimostrare che la politica del Governo fosse espressione della volontà dei soviet. Per rafforzare l’inganno e non perdere il controllo, era quindi necessario procedere con altre concessioni: il 26 aprile Miljukov e Guckov, rispettivamente ministro degli Esteri e della Guerra, furono “sacrificati” ed estromessi dal Governo, e il principe L’vov, presidente del Consiglio del Governo provvisorio, propose al soviet di Pietrogrado la partecipazione nel governo di suoi rappresentanti.
I menscevichi si trovarono messi alle corde da questa situazione: mentre settori sempre più ampi delle classi lavoratrici – in particolar modo la classe operaia e i soldati – si mobilitavano rivendicando tutto il potere ai soviet, il governo si mostrava disposto ad un’ulteriore significativa cessione di potere statale in loro favore. Menscevichi e socialisti rivoluzionari erano convinti che in quel momento fosse necessario appoggiare la borghesia e consentirle di stabilizzare il proprio potere. La prospettiva che sotto la pressione delle proteste popolari il potere unico potesse passare ai soviet li terrorizzava, essendo incapaci di sviluppare una politica indipendente dalla borghesia. Ma rifiutare l’invito a partecipare al Governo avrebbe significato mostrare apertamente al proletariato il proprio tradimento e perdere in un sol colpo la loro egemonia sui soviet, che si sarebbero inevitabilmente spostati dalla parte dei bolscevichi, coerenti sostenitori della necessità del potere unico del proletariato. Perdere il controllo dei soviet significava compromettere il loro sostegno alla borghesia, un rischio non accettabile per gli opportunisti. Il 1 maggio, quindi, il comitato esecutivo del soviet di Pietrogrado, da loro presieduto, annullando la vecchia risoluzione del 28 febbraio, decise di far partecipare al governo esprimendo 6 ministri “socialisti”: Černov (socialista rivoluzionario) al ministero dell’agricoltura, Cereteli (menscevico) alle Poste e telegrafi, Skobelev (menscevico) al Lavoro, Pešechonov (socialista populista) al ministero degli approviggionamenti e Kerenskij, che lasciava il ministero della Giustizia al socialista rivoluzionario Pereverzev per passare a quello della Guerra e della Marina. Nasceva così il Governo di coalizione.
È evidente che questa assegnazione dei ruoli nel nuovo governo non era assolutamente casuale, bensì legata ad una precisa tattica della borghesia. Assegnando questo nuovo incarico a Kerenskij la borghesia sperava di riuscire ad avvalersi dell’influenza che il neo ministro della Guerra riusciva ancora ad esercitare su una parte dei soldati nonché della stima di numerosi ufficiali nei suoi confronti, per ristabilire l’ordine nell’esercito e assicurare il proseguimento della guerra “fino alla vittoria finale”. Con promesse e illusioni, Kerenskij avrebbe dovuto a tutti i costi frenare lo sviluppo del movimento rivoluzionario tra i soldati e arginare la diffusione della propaganda bolscevica contro la guerra imperialista, nonché cercare di ricucire i sempre più profondi antagonismi di classe tra i soldati semplici (in stragrande maggioranza di estrazione proletaria e contadina) e gli ufficiali (borghesi e nobili).
Černov, invece, era il capo e massimo teorico del Partito Socialista Rivoluzionario, ritenuto un esperto della questione agraria. In teoria, quindi, il suo compito da ministro dell’agricoltura era quello di arrivare al tanto sospirato obiettivo della distribuzione delle terre dei grandi latifondi mettendo in pratica la contorta e fumosa strategia dei socialisti rivoluzionari. Peccato, però, che la borghesia avesse tutti altri piani per lui: il principe Volkonskij, grosso proprietario terriero, in una lettera a proposito delle rivolte contadine gli raccomandava di «gettare acqua sui carboni ardenti del lucro (come veniva definita da Volkonskij la confisca delle terre dei padroni da parte dei contadini, ndr) riscaldati dagli avvenimenti della lotta di classe» e di « far capire ai contadini, con autorità, che si tratta di azioni che, in tempi come i nostri, sono assolutamente contro natura». Con cinica chiarezza, il latifondista spiegava a Černov che soltanto un ministro “socialista” avrebbe potuto portare a termine questo compito: «bisogna farglielo capire (ai contadini, ndr), e solamente voi, da Pietrogrado, siete in grado di farlo. Ogni parola che viene detta qui, sul posto, è sospetta: a quello non gli si può credere perché proprietario terriero, a quell’altro nemmeno perchè è un mercante, quest’altro ancora è un giurista e poi tutti, in generale, sono dei “borghesi”, elementi del “vecchio regime”. Voi, signor ministro, voi siete il nuovo regime. Se voi parlerete tutti vi crederanno». Queste erano le aspettative condivise da tutti i grandi proprietari terrieri nei confronti di Černov, chiamato a difendere le loro rendite dalla confisca delle terre e placare le lotte contadine creando l’illusione di poter raggiungere un accordo pacifico con i grossi proprietari terrieri “percorrendo la via della legalità”, per usare le sue parole.
Questa fiducia nella democrazia borghese e nei suoi meccanismi contraddistinse l’operato (o meglio, i discorsi) di tutti i neo-ministri “socialisti”. Tali meccanismi democratici, però, erano totalmente ostaggio degli interessi e del potere della borghesia e dei proprietari terrieri, che di fatto se ne servivano per legittimare il proprio dominio e tenere buoni i lavoratori e i soviet. La dinamica tipica era questa: venivano istituite commissioni e organismi di composizione di classe mista, con rappresentanti dei lavoratori (operai/contadini) e rappresentanti della controparte padronale; scopo di questi organismi era affrontare le questioni più spinose in un’ottica di accordo tra le classi, prime tra tutte la questione della terra e la legge sulle 8 ore lavorative, entrambe tenute in sospeso da mesi. Peccato che, in questi organismi, operai, contadini poveri e lavoratori salariati erano messi sistematicamente e inevitabilmente in minoranza e, quando malauguratamente per i padroni questo non accadeva, proposte di legge e risoluzioni venivano rimbalzate da un’istituzione all’altra all’infinito, risolvendosi immancabilmente in un nulla di fatto. Mentre questi organismi godevano della sua totale fiducia, nei confronti delle forme di organizzazione autonoma della classe operaia come i comitati di fabbrica, il neo-ministro del Lavoro Skobelev non dimostrava la stessa considerazione: non solo non ebbe nulla da ridire riguardo una legge emanata pochi giorni prima dal precedente governo, secondo la quale quale i comitati operai avrebbero dovuto avere esclusivamente una “funzione educativa e culturale” e “risolvere i problemi derivanti dai rapporti tra operai e rappresentarli presso l’azienda”; ma in una sua dichiarazione ufficiale il ministro “socialista” dichiarò che a suo parere i comitati di fabbrica non avevano più alcun motivo di esistere.
Questa ostilità nei confronti dei comitati operai di fabbrica non era casuale: come accennato prima, si trattava di organismi che costituivano la punta più avanzata della maturazione politica e ideologica della classe operaia, nei quali l’egemonia dei bolscevichi era fortissima. La Conferenza dei comitati di fabbrica, tenutasi a Pietrogrado dal 30 maggio al 3 giugno, si svolse infatti interamente sotto la direzione dei bolscevichi, che avevano investito moltissimo nell’organizzazione e lo sviluppo politico di dei comitati operai e di tutte le organizzazioni di base della classe operaia. Per capire quanto avanzato fosse lo sviluppo della rivoluzione in questi organismi, si consideri che nella risoluzione centrale della conferenza, approvata su proposta dei bolscevichi e presentata da Lenin in persona, si diceva chiaramente che la soluzione della crisi economica e del caos della produzione poteva avvenire unicamente a condizione che tutto il potere statale passasse nelle mani dei soviet dei deputati operai e soldati. La risoluzione menscevica, invece, che sosteneva la necessità di dare appoggio al governo provvisorio e rigettava nettamente l’ipotesi che il potere passasse al proletariato, ottenne soltanto 13 voti su 421.
In pieno stile opportunista, la funzione dei ministri “socialisti” era quindi quella di far guadagnare tempo alla borghesia con illusioni, promesse e inutili giochi di burocrazia, consentendole di raccogliere le forze per sferrare l’offensiva definitiva contro la rivoluzione. Per usare le parole di Lenin, «i transfughi del socialismo, diventati ministri, non erano in realtà nient’altro che delle macchine per parlare», che non avevano spostato minimamente la politica del Governo provvisorio ma gli avevano soltanto assicurato con l’inganno un appoggio più deciso e diretto da parte dei soviet.
- Il 1° Congresso dei soviet e la manifestazione di giugno: le parole d’ordine bolsceviche conquistano le masse
Il “rimpasto” di governo, con l’apertura ai dirigenti dei soviet, era riuscito effettivamente a calmare un po’ le acque e dare respiro alla borghesia, ma non aveva di certo cancellato le cause della crisi di aprile. Sebbene la classe operaia, come dimostrato dall’esito della conferenza dei comitati di fabbrica, aveva assunto con decisione la parola d’ordine del potere ai soviet, le grandi masse popolari attorno ad essa non avevano ancora raggiunto questo grado di maturità. Erano contro la borghesia, che le stava affamando e trascinando nel massacro della guerra, ma erano ancora lontane dall’idea di prendere esse stesse il potere nelle proprie mani. Di conseguenza, prevedendo che quelle stesse contraddizioni (prima fra tutte, la prosecuzione della guerra) sarebbero esplose di lì a poco in nuove ondate di rabbia e malcontento popolare, i bolscevichi potenziarono ancora di più il proprio intervento di massa su tutti gli strati popolari per far comprendere la necessità della lotta per la presa del potere da parte dei soviet. Lo fecero incentrando la loro propaganda sullo slogan: “Abbasso i ministri capitalisti!”. Chiaro e semplice, questo slogan consentiva in modo estremamente immediato di denunciare il fatto che i ministri “socialisti” si ostinavano a dare il sostegno dei soviet ad un governo composto in larga maggioranza da “ministri capitalisti”, il cui unico scopo era proseguire il massacro della guerra imperialista e difendere i profitti e le rendite dei borghesi e dei latifondisti a spese del popolo e dei lavoratori.
Il coraggioso lavoro dei bolscevichi tra le masse aveva prodotto in pochi mesi un vero e proprio risveglio del proletariato. Alla base, sulle barricate delle manifestazioni, nelle trincee, nelle miniere e nelle campagne, le cellule e i quadri del partito rivoluzionario del proletariato, il partito bolscevico, costituivano i nervi che mettevano in moto ogni fibra della straordinaria potenza della classe operaia, facendo avanzare la lotta passo dopo passo verso l’obiettivo rivoluzionario del potere operaio e contadino. La reale portata di questo successo da parte dei bolscevichi risulta pienamente evidente in un momento decisivo dello sviluppo della rivoluzione: il 1° Congresso dei soviet. Il congresso, infatti, segna il punto di massimo sviluppo della contraddizione che c’era tra l’iniziativa rivoluzionaria delle masse e la direzione piccolo-borghese dei soviet, imperniata sulla linea della conciliazione degli interessi del proletariato con quelli della borghesia. Il congresso, apertosi il 3 giugno, era composto da circa 1.000 delegati in rappresentanza di 305 soviet unificati di operai, soldati e contadini, 53 soviet di centri regionali e provinciali, e 34 organizzazioni militari di esercito e marina. I bolscevichi erano una minoranza, esprimendo soltanto 105 delegati, contro i 285 dei socialisti rivoluzionari e i 248 dei menscevichi. Tutti gli altri delegati erano organizzati in piccoli gruppi posizionati quasi tutti alla coda del blocco piccolo-borghese.
Il primo punto all’ordine del giorno del Congresso era l’atteggiamento che i soviet avrebbero dovuto tenere nei confronti del governo provvisorio e la forma di organizzazione del potere rivoluzionario. Nei loro interventi, i menscevichi e i socialisti rivoluzionari respingevano totalmente la possibilità che i soviet prendessero il potere, sparando isteriche sentenze con l’assurda pretesa di dimostrarle con la logica e con i fatti. Quando Cereteli arrivò a dire che «oggi in Russia non esiste nessun partito politico che affermi: dateci il potere, andatevene via, prenderemo noi il vostro posto. Un simile partito oggi in Russia non semplicemente non esiste!”, dalla platea improvvisamente tuonò una risposta che squarciò il silenzio di tomba della sala:
«Questo partito esiste!»
Era Lenin, che sotto gli sguardi attoniti dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari si era alzato dal suo banco e si dirigeva verso la tribuna per fare il suo intervento.
«È stato detto che in Russia non esiste nessun partito politico che sia pronto ad assumere completamente il potere. Io rispondo: ce n’è uno. Nessun partito può dire di no, e il nostro partito non si tira indietro: in qualsiasi momento è pronto ad assumere completamente il potere.”
Il suo intervento fu inizialmente accolto da risa e commenti sarcastici, ma man mano che procedeva spiegando con chiarezza e semplicità il programma del Partito elaborato dalla Conferenza d’aprile, l’atteggiamento dei deputati – soprattutto i soldati – cambiò rapidamente. Una ad una, tutte le illusioni e le bugie degli opportunisti cadevano sotto i colpi della coerenza e della logica stringente del programma bolscevico, perfettamente comprensibile alle masse e incontestabilmente espressione dei loro interessi. I bolscevichi proposero dunque una risoluzione che criticava il governo provvisorio e i dirigenti dei soviet, denunciava la loro funzione controrivoluzionaria e proponeva la consegna il potere ai soviet dei deputati operai e soldati in quanto unica possibile soluzione per ottenere la pace e porre fine alla disastrosa crisi economica. La risoluzione approvata dal congresso fu però quella proposta da menscevichi e socialisti rivoluzionari, che dichiarava:
«Il passaggio del potere ai soviet dei deputati operai e soldati, in questa tappa della rivoluzione russa, indebolirebbe notevolmente le sue forze, respingendo prematuramente gli elementi ancora in grado di servirla, e minaccerebbe a morte la rivoluzione».
In questo modo, la questione dell’avanzamento della rivoluzione ad una fase superiore veniva totalmente squalificata ed esclusa dal programma dei soviet.
Lenin intervenne una seconda volta riguardo la questione della guerra. Nel suo intervento ricordò il messaggio che il soviet di Pietrogrado aveva lanciato ai proletari di tutto il mondo soltanto pochi mesi prima: «Voi dite: ”Rifiutate d’essere uno strumento di rapina nelle mani dei re, dei proprietari fondiari e dei banchieri” – ammoniva Lenin, citando la dichiarazione – mentre lasciate i vostri banchieri partecipare al governo e li fate sedere accanto a dei ministri socialisti. Voi consigliate agli altri popoli “abbasso le annessioni”, ma le fate in casa vostra. Voi riducete a niente il vostro appello, voi smentite nei fatti tutta la vostra politica!”. Ovviamente, la questione del potere era quella centrale, e dalla posizione assunta dal congresso rispetto ad essa discendevano in sostanza tutte le altre. È ovviamente il caso della risoluzione sulla guerra, sulla quale la maggioranza dei deputati si espresse ancora una volta a favore delle posizioni difensiste finora portate avanti: proseguire la guerra per “difendere” la rivoluzione.
Ma per quanto nel Congresso le proposte dei bolscevichi fossero messe nettamente in minoranza, le loro parole d’ordine erano ormai penetrate in profondità tra le masse, scavalcando i vertici dei soviet e il Congresso stesso. Il Comitato Centrale del Partito Bolscevico fece appello alle masse operaie e ai soldati affinché facessero sentire al Congresso dei soviet qual’era il loro volere scendendo nelle strade di Pietrogrado il 10 giugno in una grande manifestazione pacifica sotto le parole d’ordine: “tutto il potere ai soviet!”, “abbasso i ministri capitalisti”, “controllo operaio sulla produzione”, “pane, pace e libertà”. Questo mandò completamente nel panico i partiti piccolo-borghesi, che sapevano bene che la “chiamata alle armi” del Comitato Centrale bolscevico rispondeva ad uno stato di agitazione diffuso delle masse e, soprattutto, ad un loro profondo malcontento nei confronti delle posizioni che il Congresso stava assumendo. Accusando i bolscevichi di ordire un complotto contro i soviet e la rivoluzione, fecero in modo che il congresso vietasse la manifestazione. Contravvenire a tale divieto non ritirando la manifestazione avrebbe comportato due gravi conseguenze per i bolscevichi: in primo luogo, il rischio di essere espulsi dal congresso e dai soviet; e in secondo luogo – cosa forse ancor più grave – il mettersi in una posizione di aperta violazione ad una delibera del congresso. Sarebbe stato una grave contraddizione, da parte di chi chiamava le masse a lottare affinché il potere passasse tutto ai soviet, disconoscerne di fatto l’autorità ed ignorare le disposizioni del congresso, che era l’organismo supremo dei soviet stessi. Per questo il Comitato Centrale del partito bolscevico decise di sottomettersi alla decisione del soviet e rittirare la manifestazione.
Fu una mossa delicata e rischiosa, quella di muoversi “in ritirata” in un momento in cui la rabbia del popolo stava per scoppiare spontaneamente. Quando nei giorni successivi i delegati del congresso si recarono nelle fabbriche e nei reggimenti, percepirono la rabbia e indignazione degli operai pronta ad esplodere. Decisero quindi di convocare loro stessi una manifestazione il 18 giugno sotto le parole d’ordine della fiducia al governo provvisorio e della conciliazione con la borghesia. Ovviamente, gli opportunisti non avevano lasciato la scelta del giorno al caso: sapevano che il 18 giugno sarebbe iniziata una nuova offensiva militare al fronte, e avevano ben pensato di tentare di mettersi alla testa del movimento popolare per estorcergli un’implicita approvazione di questa offensiva. Avevano sbagliato di grosso i loro calcoli.
Il 18 giugno nelle strade di Pietrogrado si riversò un fiume di 500.000 persone. Operai e soldati confluivano da tutti i punti della città e da fuori. Le parole d’ordine bolsceviche erano su tutti gli striscioni, urlate a squarciagola dalla stragrande maggioranza dei manifestanti. «Non una officina, non una fabbrica, non un reggimento aveva accettato la parola d’ordine della “fiducia al Governo provvisorio”. – riferiva Stalin – Persino i menscevichi e i socialisti rivoluzionari si erano dimenticati (o meglio, non si erano decisi) di formulare questa parola d’ordine. Sui loro cartelli si trovava di tutto: “abbasso la scissione”, “per l’unità”, appoggio al soviet”, vi mancava solo l’essenziale: la fiducia al Governo provvisorio». Soltanto un paio di sparuti gruppetti di “coraggiosi” sostenitori della conciliazione con la borghesia avevano cartelli con slogan per la fiducia al governo provvisorio, ma vennero accolti da risa, insulti e costretti in malo modo ad andarsene.
Impeccabile, in questo caso, fu il bilancio della giornata fatto dalla direzione centrale del partito menscevico: «Sembrava che la Pietrogrado rivoluzionaria si fosse separata dal congresso dei soviet di Russia. Qualche giorno prima il congresso aveva votato la fiducia al Governo provvisorio. Il 18 giugno Pietrogrado rivoluzionaria sembrava esprimere a quello stesso Governo la sua completa sfiducia». Dalla manifestazione si capì quanto ormai era forte l’influenza del partito bolscevico: a migliaia e migliaia di operai e soldati non bastava più dirsi sostenitori delle proposte bolsceviche: si dichiaravano apertamente bolscevichi.
In questi eventi, per quanto parziali rispetto a ciò che sarebbe avvenuto nei mesi successivi, emergeva già il significato più profondo della politica dei comunisti russi. I “settari” bolscevichi di Lenin avevano rifiutato ogni alleanza politica con le forze opportuniste, avevano rifiutato ogni forma di sostegno al governo provvisorio, perseguendo una politica rivoluzionaria e intransigente rispetto a ogni forma di conciliazione fra le classi. Per le loro posizioni i bolscevichi furono dapprima derisi, tacciati di estremismo, di essere sabotatori, traditori della rivoluzione, nemici della “patria” o disfattisti. Ma a pochi giorni dal Congresso dei Soviet, in cui pure i bolscevichi erano rimasti in minoranza fra i delegati, le masse popolari iniziano a fare proprie le loro parole d’ordine. Era l’inizio dell’alleanza sociale fra i bolscevichi e gli strati più avanzati delle masse, che non sono non si basava su una forma di alleanza politica con le forze riformiste che fino ad allora erano risultate maggioritarie fra le masse, ma era al contrario nettamente antitetica ad essa, e rafforzava il legame diretto fra i bolscevichi e le masse. I bolscevichi iniziavano ad acquisire consensi sempre maggiori non malgrado la loro linea rivoluzionaria, ma esattamente grazie alla loro linea rivoluzionaria. Era il primo risultato del lavoro costante di chiarificazione e di propaganda fra le masse, che i bolscevichi avevano individuato come strategico nella Conferenza d’Aprile. Tanto questo lavoro, tanto il rifiuto di alleanze politiche con le forze opportuniste in virtù di una politica rivoluzionaria sviluppata a contatto con le masse, sono oggi, a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, elementi centrali nella strategia attuale dei comunisti, che proprio nella vicenda dei bolscevichi trovano confermata la giustezza delle loro posizioni.
[1] Si stima che all’inizio della Prima Guerra Mondiale (1914) il numero totali di lavoratori in Russia fosse 15 milioni, di cui 4 milioni impiegati nell’industria e nelle ferrovie. La classe operaia costituiva meno del 20% di tutta la popolazione, mentre i piccoli produttori di merci (contadini e artigiani) erano il 66.7% e le classi sfruttatrici il 16.3% di cui 12.3% erano kulaki.