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Perché i “bonus giovani” per le assunzioni sono una presa in giro

L’ultima trovata del Governo, in quella che sembra più una campagna elettorale che altro, nel contesto del cosiddetto “piano Marshall per i giovani”, è un nuovo bonus per le aziende che assumeranno i giovani fino a 29 anni. Si parla di un fondo di 2 miliardi da stanziare con la Legge di Bilancio per il 2018. Secondo il Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, che ha parlato al meeting annuale di Comunione e Liberazione a Rimini (di cui è assiduo frequentatore da anni), è “plausibile” la creazione di 300mila nuovi posti di lavoro attraverso questi sgravi, corrispondenti a 3250 euro di sgravio per ogni impresa.

Il dibattito seguito al “grande annuncio”, che pure ha visto voci critiche (emblematica in tal senso la critica del Sole 24 Ore, il giornale di Confindustria) si è focalizzato unicamente sugli aspetti “tecnici” della proposta. Si parla della partita ancora aperta sul limite di età entro cui le aziende potranno beneficiare del bonus (29 anni in linea con le norme europee, o 32-35 anni?), del dimezzamento effettivo o meno dei contributi che le aziende dovrebbero versare. Ci si chiede, infine, se sia realistica o meno la previsione dei 300mila nuovi posti di lavoro.

La questione dell’efficacia di queste misure, però, è di natura sostanziale e non può essere ridotta alla giusta taratura di elementi quantitativi o di natura tecnica. Nessuno parla, cioè, della natura del mercato del lavoro in cui tutte queste misure si inseriscono. Si parla di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, ma per qualche ragione tutti, ma proprio tutti, fingono di dimenticarsi che oggi il tempo indeterminato non esiste più per come lo si conosceva.

La riforma Fornero prima, il Jobs Act di Renzi poi, hanno ampiamente facilitato il licenziamento, riconoscendo le motivazioni “economiche” legate alla riorganizzazione produttiva come un giustificato motivo di licenziamento (il c.d. giustificato motivo oggettivo), ed eliminando il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro del lavoratore licenziato ingiustamente, prevista nel famoso art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (legge 300/70), che viene mantenuto solo per casi di licenziamento discriminatorio (difficile se non impossibile da dimostrare). Il Jobs Act ha sostituito il contratto a tempo indeterminato con il nuovo contratto a tutele crescenti, ma non si smetterà mai abbastanza di ricordare cosa si cela dietro lo slogan del nuovo nome: a crescere con l’anzianità è solo la tutela obbligatoria, cioè la penale che il padrone dovrà pagare al lavoratore licenziato senza giusta causa o motivo, ma non è prevista la tutela reale (appunto, la reintegrazione, eliminata dall’art. 18).

I giovani che saranno assunti grazie al bonus, siano essi 300mila o molti di meno, saranno assunti con queste condizioni contrattuali. Il risultato è già prevedibile: succederà esattamente quello che è successo con i bonus del Jobs Act. Un aumento delle assunzioni nel breve periodo, dovuto al bonus, e un crollo secco nel medio periodo che si sommerà agli inevitabili licenziamenti, che le aziende possono compiere in piena libertà. I dati sugli effetti del Jobs Act sono eloquenti. Secondo i dati INPS nel 2014 le assunzioni stabili erano 1 milione e 271mila. Nel 2015, anno di entrata in vigore del Jobs Act e dei bonus che eliminavano i contributi, le assunzioni sono salite a oltre 2 milioni. Nel 2016, esaurita la “fiammata” del Jobs Act, si osserva un crollo del -37,6% dei contratti a tempo indeterminato con 1 milione e 264mila assunzioni, inferiori anche a quelle del 2014, e un totale di 763mila assunzioni in meno. Poletti afferma che l’obiettivo dei bonus è proprio quello di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato, ma i dati parlano già da sé.

Il punto è che in un mercato del lavoro strutturalmente precario, in cui anche il lavoro a tempo indeterminato è stato di fatto precarizzato con la libertà di licenziamenti selvaggi, è semplicemente una contraddizione quella di voler pensare a misure per l’assunzione dei giovani a tempo indeterminato. E se il mercato del lavoro è stato trasformato in quello che è oggi, non è per caso, ma grazie a precise scelte politiche accomodanti alle richieste del capitale italiano, la cui strategia di uscita dalla crisi fa leva sulla creazione di sempre più lavoratori dequalificati e ricattabili, da sfruttare con lo slogan del rilancio della “produttività”. Una politica portata avanti dai governi che si sono susseguiti, da Berlusconi a Monti, da Renzi a Gentiloni.

Il Governo Gentiloni, lungi dall’invertire questa rotta, opera nel solco di queste politiche antipopolari applicate in Italia così come in tutta Europa, e certo non invertirà la rotta. Se si volesse realmente garantire un lavoro alle nuove generazioni, si dovrebbe tornare a parlare di diritti sul lavoro, di sicurezza sociale, del diritto a costruirsi un futuro. Di tutto questo non si parla, perché non è nell’interesse dei grandi monopoli, delle imprese a cui interessa solo il profitto. E infatti si parla si sgravi fiscali e nulla di più. Si cerca di presentarli come una misura nell’interesse dei giovani, che rilancerà le assunzioni, ma nulla potrebbe essere più falso. Si tratta dell’ennesima misura in favore delle imprese private, che si vedranno regalato l’ennesimo bonus e lo intascheranno senza darci nulla in cambio.

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