*di Enrico Bilardo
Da poco più di una settimana è uscita la settima creazione di Caparezza, “Prisoner 709”. L’ultima volta avevamo lasciato il rapper di Molfetta all’interno del suo personale museo-musicale, con l’album “Museica”. Come al solito la chioma riccia più famosa di Italia ha stupito più o meno tutti. Come si potrà intuire dal titolo la tematica attorno a cui ruota il nuovo disco è la “prigionia”. Un senso di oppressione che si declina in più modi durante lo sviluppo dell’album. Ma da dove nasce questo senso di prigionia? L’origine è piuttosto curiosa ed ha il nome di una patologia, l’acufene, di cui il cantante ha rivelato di essere affetto.
L’acufene non è altro che un disturbo acustico che affligge persone che durante la loro vita si sono esposte troppo a lungo a grandi rumori. Nel mondo della musica difatti è piuttosto comune esserne affetti dopo i quarant’anni. Nella pratica il disturbo si traduce in un sibilo/fischio più o meno perenne da cui si riesce difficilmente a fuggire. Una prigionia senza dubbio atipica, alienante, che ha portato il Capa a un periodo di crisi, tra depressione, medici e veri propri episodi di “dissociazione”.
Proprio la “dissociazione” rappresenta un altro tema fondamentale, che, combinato a quello della prigionia, ha portato il rapper a trovare una grossa fonte di ispirazione nel celebre esperimento di Stanford, portato avanti dal professore di psicologia Philip Zimbardo nel 1971. L’esperimento si basava proprio sull’instaurazione di dinamiche carcerarie tra le “cavie”, scelte tra persone apparentemente stabili e dotate di enorme auto-controllo. Questa dissociazione ha portato a un vero e proprio dualismo all’interno della personalità di Caparezza. Lo stesso titolo rappresenta il manifesto di una vera e propria crisi interiore: la lettura del titolo va così sviluppata “Prisoner 7 o 9?”. 7 come le lettere del vero nome, Michele, 9 come quelle del nome artistico, Caparezza. La contrapposizione tra parole di 7 e 9 lettere caratterizzerà ogni traccia dell’album. Da questa rapida introduzione può emergere subito un elemento di rottura rispetto agli album passati: ci troviamo dinnanzi a una produzione estremamente introspettiva, introversa, una novità quasi assoluta quando parliamo di Caparezza. Gli elementi politici, di critica sociale, che tanto hanno contribuito a rendere celebre il rapper, sono in questo caso più attenuati (anche se non del tutto assenti).
Dopo questo preambolo è dunque giunto il momento di addentrarsi nella crisi interiore del nostro Michele Salvemini, per i più Caparezza, analizzando le tracce di questo lungo disco.
- “Prosopagnosia”: si parte subito in quinta. La traccia d’apertura rappresenta una perfetta introduzione all’album, un vero e proprio manifesto d’intenti. Il titolo riprende il nome da un deficit percettivo che porta chi ne è affetto all’avere diverse difficoltà nel riconoscimento dei tratti di insieme dei volti. In questo caso è l’autore stesso a non riuscire più a riconoscersi. L’evoluzione della propria carriera artistica porta Caparezza a sentirsi diametralmente diverso dalla persona che era prima che il suo percorso iniziasse. Il ruolo che si è ritagliato e che, ormai, gli è imposto, viene vissuto come una gabbia, che limita la sua stessa possibilità di espressione. Possiamo dare anche una lettura politica del testo, vedendo questo senso di prigionia come una vera e propria alienazione legata all’impossibilità per l’artista di esprimersi come preferisce, schiacciato da un ruolo rigido che è obbligato, spesso e volentieri, a ricoprire anche per logiche di mercato, le stesse logiche contro cui si è più volte scagliato (“Cantavo per fuggire dal mondo in un solo slancio. Ora che cantare è il mio mondo ne sono ostaggio […] Non ha senso recitare la parte degli incompresi. Con tutti dalla mia parte, con tutti così cortesi”). Questo pezzo traccia una linea di demarcazione rispetto ai precedenti album anche da un punto di vista musicale: fin da subito veniamo introdotti a sonorità più cupe, che a tratti ricordano quelle del primo lavoro in studio del rapper, “?!”; i suoni rock che hanno caratterizzato gli ultimi album, del resto, passeranno decisamente in secondo piano. Inoltre siamo subito catapultati nell’ “Io” dell’artista, che ci fa capire fin da subito che questa volta ci sarà poco spazio per le usuali tematiche politico/sociali
- “Prisoner 709”: la title track, nonché singolo di lancio dell’album ci presenta un Caparezza decisamente aggressivo. La prigionia come sempre è il leitmotiv. In questo caso il pezzo diventa una critica all’evoluzione del mercato della musica, nonché alla fruizione della stessa. Il “prigioniero” di questo pezzo non è altro che un “CD”, un supporto fisico ormai in stato di abbandono, surclassato dall’era del digitale. Non si può non leggere una nota di biasimo nei confronti di un approccio alla musica sempre più “consumistico” e usa e getta, superficiale, con gli album che sono ormai ridotti, il più delle volte, a semplice oggetto di collezionismo. “I detenuti” tra cui afferma di stare Caparezza alla fine del pezzo non sono altro che i vecchi Compact-disc, i vinili 33 e 45 giri.
- “La caduta di Atlante”: in questo pezzo Caparezza rispolvera una delle sue abitudini più frequenti, ovvero collegare le tematiche portanti dei suoi album con elementi epici, come accaduto anche in “Le dimensioni del mio caos” con “Ulisse (You Listen)”. In questo pezzo il senso di oppressione e di prigionia vengono adattati alla storia di Atlante, oppresso dal peso del mondo che è costretto a sorreggere. Una dimostrazione di eclettismo e di abilità cantautorale, che dimostra come l’artista di Molfetta sia in grado di scrivere un pezzo praticamente su ogni tematica.
- “Forever Jung”: dal titolo emerge subito il gioco di parole tra la diffusa formula “Forever Young” e “Jung”, uno dei fondatori della psicoanalisi insieme a Freud. La canzone afferma il ruolo del rap come strumento di auto-analisi ed è impreziosita dalla collaborazione con il notissimo rapper statunitense DMC.
- “Confusianesimo”: senza dubbio uno dei pezzi più politici dell’album. Fin dall’incipit Caparezza sottolinea gli schemi concettuali che accomunano le varie religioni, rendendo palese come siano delle costruzioni artificiose a cui le persone si aggrappano per colmare un legittimo bisogno spirituale. Tuttavia prestarsi a tali costruzioni si traduce, alla fin fine, in una privazione della propria libertà. La canzone si chiude con un vero e proprio proclama: “C’è una scienza dietro le religioni. Il testo epico, l’impianto scenico. Nuove barriere, nuove prigioni. Non mi immedesimo, Confusianesimo”
- “Il testo che avrei voluto scrivere”: forse uno dei pezzi meno incisivi dell’album, ma comunque apprezzabile. Come è facilmente intuibile dal testo il pezzo si riferisce sostanzialmente all’approccio del rapper di Molfetta quando è alla presa con il cosiddetto “blocco dello scrittore”: scrivere, scrivere, scrivere, finché non esce qualcosa di buono.
- “Una chiave”: pezzo decisamente ottimista, innanzitutto nelle sonorità (probabilmente si tratterà di uno dei prossimi singoli). Il testo costituisce un mantra di auto-incoraggiamento, molto personale, come si può evincere dall’autoritratto che Caparezza delinea lungo i versi. Traccia evidentemente figlia di uno dei tanti momenti di sconforto e rassegnazione attraversati dal cantante durante la sua lotta contro l’acufene.
- “Ti fa stare bene”: secondo singolo dell’album, rilasciato lo stesso giorno d’uscita dell’album. Indubbiamente molto radiofonico (è lo stesso Caparezza a dichiararlo con la frase finale della canzone: “Questa canzone è un po’ troppo da radio”). Si collega in qualche modo con il prezzo precedente, l’ottimismo in questo caso è decisamente più “propositivo”. Un manifesto di genuino buonumore che si distacca fin da subito dalla felicità artificiosa che riguarda il mondo dello show business e della musica e che viene espresso nella prima strofa con una frase decisamente eloquente: “Sono stufo dei drammi in tele, delle lamentele delle star in depre, del nero lutto di chi non ha niente a parte avere tutto”. Del resto Caparezza è un artista decisamente atipico: vive lontano da lussi e sfarzosità, preferendo ai salotti bene di qualche metropoli la sua casa a Molfetta. Nell’outro distrugge gran parte della scena rap italiana con una sola frase: “Canto di draghi, di saldi e di fughe più che di cliché”. Il parallelismo con “droga”, “soldi” e “fighe” è immediato: i tre temi più in voga nei testi del 90% dei suoi colleghi, che, per l’appunto, riducono a un cliché un genere originariamente nato come strumento di denuncia e riscossa sociale.
- “Migliora la tua memoria con un click”: nonostante il titolo la memoria in questo pezzo conta relativamente poco. La cultura (più nello specifico la storia) a portata di click è oggetto di una facile ironia: slegata da ogni visione d’insieme critica, da “assumere in pillole”, con un vero e proprio approccio “usa e getta”. Emerge anche una presa di distanza dal feticismo per la modernità ad ogni costo, che spesso diventa limitante e “restrittiva” se non vi si approccia in maniera critica (“Non venerare la modernità, è di plastica
Negli anni ’30 la modernità era la svastica”). - “Larsen”: in questa traccia, una delle più emblematiche dell’album, Caparezza si mette a nudo esponendo il suo difficilissimo rapporto con l’acufene. Il titolo ha origine nell’ “effetto Larsen”, definizione scientifica per il “feedback”, il fischio prodotto da microfoni e amplificatori quando il segnale emesso dall’altoparlante di turno torna indietro. L’acufene del resto condanna chi ne è affetto a subire la presenza di un perenne feedback nel proprio cervello.
- “Sogno di potere”: il preludio alla fuga auspicata dall’autore che coincide con l’addentrarsi nella fine dell’album. Il cantante dichiara la sua volontà di fuggire dalle impalcature che gli sono state costruite attorno, da un ruolo che non gli appartiene e che lo fa sentire, per l’appunto, in prigione, alimentando i suoi sogni di evasione.
- “L’uomo che premette”: forse il pezzo più irriverente dell’intero album. Ricorda tantissimo il primo Caparezza. Il rapper si fa beffe di tutti quei personaggi che cercano di mascherare i loro peggiori comportamenti con ampie, quanto ripetitive, perifrasi. L’ipocrisia che si cela dietro certi atteggiamenti viene totalmente messa a nudo: dietro certe “premesse” si nascondono “promesse” non proprio desiderabili…
- “Minimoog”: brano molto sperimentale. Vi è un parallelismo tra un trattamento medico decisamente aggressivo e l’utilizzo di un Minimoog, uno dei primi sintetizzatori ad incidere in maniera significativa sul mondo della musica.
- “L’infinto”: un’altra traccia su una modernità malata, che diventa distopica. Stavolta ad essere bersagliato è l’atteggiamento di totale scollamento che porta fin troppe persone a non riuscire più a distinguere la realtà vera da quella virtuale. Il quadro di una tecnologia che non diventa più strumentale, ma alienante, in grado di imprigionare nella propria realtà fittizia. Una frase risulta particolarmente emblematica a riguardo “Siamo dei sistemi operativi, figli performanti più dei padri”
- “Autoipnotica”: torna il tema della psicoanalisi. Caparezza ci guida in una sua sessione di autoipnosi, accompagnandoci con un pezzo dall’andamento vorticoso e scandito da un ritornello costruito a mo’ di filastrocca, propedeutico a perdersi nel subconscio del buon Michele.
- “Prosopagno sia!”: il pezzo di chiusura riprende quello di apertura, chiudendo un viaggio dall’andamento circolare. Nella versione album (quindi non su piattaforme come Spotify e simili, una scelta che sottolinea ulteriormente l’apprezzamento del rapper per i supporti “rigidi”) gli ultimi due minuti contengono una “ghost track” che ci fa letteralmente entrare nella testa di Caparezza: un dominio di fischi e sibili. Il rapper di Molfetta saluta i suoi ascoltatori facendo assaggiare loro le sensazioni che hanno prodotto l’intero album. Un’ultima curiosità: la ghost track inizia esattamente al minuto 7.09. Dettagli che fanno la differenza.
Un album lungo, impegnativo, caratterizzato da un’importante varietà di tematiche. Da ascoltare attentamente, da “studiare”, come spesso accade con gli album e le canzoni di Caparezza, che dimostra, nonostante sia ormai abbondantemente oltre i 40, di mantenere una capacità creativa e di composizione che in pochi possono vantare nel panorama musicale italiano.
A seguire la tracklist, con le tracce accompagnate dai rispettivi sottotitoli e i rispettivi “dualismi interpretativi “ ( ricordate il “7 o 9?”).
1)Prosopagnosia (capitolo: il reato) feat. John De Leo “Michele” o “Caparezza”
2) Prisoner 709 (capitolo: la pena) “Compact” o “Streaming”
3) La caduta di Atlante (capitolo: il peso) “Sopruso” o “Giustizia”
4) Forever Jung (capitolo: lo psicologo) feat. DMC “Guarire” o “Ammalarsi”
5) Confusianesimo (capitolo: il conforto) “Ragione” o “Religione”
6) Il testo che avrei voluto scrivere (capitolo: la lettera) “Romanzo” o “Biografia”
7) Una chiave (capitolo: il colloquio) “Aprirsi” o “Chiudersi”
8) Ti fa stare bene (capitolo: l’ora d’aria) “Frivolo” o “Impegnato”
9) Migliora la tua memoria con un click (capitolo: il flashback) feat. Max Gazzé “Ricorda” o “Dimentica”
10) Larsen (capitolo: la tortura) “Perdono” o “Punizione”
11) Sogno di potere (capitolo: la rivolta) “Servire” o “Comandare”
12) L’uomo che premette (capitolo: la guardia) “Innocuo” o “Criminale”
13) Minimoog (capitolo: l’infermeria) feat. John De Leo “Graffio” o “Cicatrice”
14) L’infinto (capitolo: la finestra) “Persone” o “Programmi”
15) Autoipnotica (capitolo: l’evasione) “Fuggire” o “Ritornare”
16) Prosopagno sia! (capitolo: la latitanza) “Libertà” o “Prigionia”