Riceviamo e pubblichiamo un contributo di riflessione sull’alternanza scuola-lavoro da parte di un compagno che preferisce restare anonimo.
“Torniamo a educare i figli”, recita il mantra degli adulti consapevoli. La nuova (vecchia) parola d’ordine dei genitori e degli insegnanti che hanno ancora un briciolo di sale in zucca, quelli che hanno resistito alla valanga di YouTube, Instagram e Spotify… è l’esercito dei padri che non prendono in mano il joystick della PS4, delle madri che non gareggiano con le figlie nell’indossare un abbigliamento giovanile e che non si sforzano di resistere al proprio inevitabile invecchiamento…
Ragazzini fuori controllo, irrispettosi, privi di profondità, incapaci di riflettere, persi nello scintillante mondo dell’iPhone. Preferiscono stare davanti a uno schermo piuttosto che andare a correre, chattare più che parlare davvero. Il mondo adulto disorientato e in preda al panico cerca risposte…
Il discorso meriterebbe di essere svolto a un alto livello di competenza pedagogica e psicologica, capace di affrontare seriamente le attuali sfide educative. Invece, ciò che arriva al grande pubblico è, come spesso accade, un coro disordinato di pregiudizi, banalità e semplificazioni. In questa fogna confusionaria, nella quale vengono concepite le brillanti ricette per “salvare i giovani”, si distinguono principalmente due specie di topo: da una parte, il nostalgico dell’autorità; dall’altra, il fautore del duro lavoro. E non di rado si trovano fusi nello stesso pezzo di idiota.
Nei dibattiti televisivi, sui giornali, nelle chiacchiere al bar o sulla metropolitana, si assiste a un ritorno di legittimazione della severità pedagogica, che spunta trasversalmente nelle analisi (o negli sfoghi frustrati) di genitori e insegnati, preti e industriali, giornalisti, cantanti, giudici dei talent show, psichiatri, panettieri, tassisti, carabinieri, ristoratori. Fascisti, liberali, cattolici, grillini, ex-sessantottini pentiti, maoisti invecchiati male che scrivono editoriali per il Corriere della Sera. L’oggettivo degrado morale della società, gli eccessi dei giovani che lanciano cestini addosso agli insegnati, gli allarmanti dati sul sexting e sul consumo di alcol e droghe, la “perdita dei valori”, allargano le schiere degli intellettuali da quattro soldi, che osservano preoccupati le nuove generazioni, e invocano, vergognandosi sempre meno, il ritorno alle maniere forti prima che sia troppo tardi. Illuminati psicologi laureati all’università della parrocchia, che ormai da qualche decennio infestano l’opinione pubblica con la retorica contraria alla confusione di ruoli, al collasso di tutte le generazioni in un’unica, grande adolescenza allargata… Prendono coraggio, mettono il naso fuori dalla sagrestia, e lanciano strali contro l’obbrobrio educativo del “genitore amico”, tradendo però una malcelata nostalgia per il “genitore nemico”, per il suo misto patologico di sadismo e protettività, di violenza ordinaria e tenerezza occasionale, per quel regime di polizia domestica e di santificazione del trauma che è la famiglia tradizionale: quella in cui nessuno è mai se stesso, in cui nessuno conosce e comprende l’altro, quella che la vita vera è altrove. Non possono ancora dirlo troppo apertamente, ma gli piacerebbe impugnare una frusta, per sentirsi qualcuno…
Ma non è di questo che vogliamo occuparci. Se almeno lo stato di diritto è progredito, e il bastone del padre si può spezzare con una semplice e rapida denuncia alle autorità competenti, lo stesso non si può dire delle catene del capitale. Ecco il nemico più attuale e infido dei giovani proletari. Un nemico che ha il mantello dell’invisibilità, e che a differenza dei padri violenti ha dalla sua parte la legge. Del resto, non è proprio il capitale a far scrivere le leggi, come il Jobs Act e la Buona scuola, ai burattini che mette in Parlamento?
Qual è allora la ricetta educativa del capitale davanti al degrado morale di questi tempi bui? Non certo un truculento e grezzo ritorno ad arcaiche punizioni! Siamo o non siamo persone civili? Per il narcisismo dei ragazzi, per la loro abitudine a essere sempre confermati e mai smentiti, per la loro ricerca di gratificazione immediata senza fatica, per la loro pretesa di ottenere le cose con un click (o un tap sul touchscreen)… per la loro carenza di disciplina, per l’idiozia dei pomeriggi buttati a giocare a Clashroyale, per la mediocrità delle serate spese a guardare Stranger Things su Netflix…contro tutta questa miseria della vita dei giovani d’oggi, il capitale ha pronto un rimedio: il lavoro.
Chi può essere contro il lavoro? Essere contro il lavoro è come essere contro la pace nel mondo o a favore della tortura. Impara a lavorare, a guadagnarti le cose, ti dicono tutti, e sembra sensato anche se a te non va tanto. Non puoi avere sempre la pappa pronta. Il lavoro nobilita l’uomo. La vita è dura.
L’inganno è assai raffinato. Il lavoro è moralmente corretto: non è immorale come la violenza, non è infame come l’autorità e la sopraffazione. Il capitalista si presenta come un onesto cittadino. Non è uno sfruttatore, è un benefattore. Qualche volta ha anche lanciato una colletta di beneficenza, e a Natale serve il pasto ai barboni alla mensa della Caritas. Il pensiero che potrebbe essere anche lui affamato gli morde la coscienza, il bisogno di apparire dopotutto buono lo spinge a travestirsi da infermiere dei poveri. Dice che il suo Dio vede tutto, ma evidentemente si accontenta di fregarlo con una giornata da samaritano. E poi via ai Caraibi, a dimenticare in un hotel di lusso tutta quella pericolosa puzza di miseria…
Lavorate, dice l’imprenditore. Fate come me! Prendete l’iniziativa, rimboccatevi le maniche. Aguzzate l’ingegno, usate la fantasia e l’inventiva, siate creativi. L’imprenditore ci tiene sempre a sembrare un po’ artista. Ma ci tiene anche a sembrare un po’ operaio, e a raccontarti quanto si è fatto il culo, quanto è stata dura all’inizio, quanto era bello quando l’industria fioriva, e quanto è difficile ora che c’è la competizione con le merci cinesi a basso costo. Che sarebbe anche lui tentato di trasferire l’azienda in Serbia, dove l’operaio lo paghi 400 euro al mese. Ma lui rimane qui, perché è un fiero italiano, perché ama il tricolore, perché ci vuole bene e ci fa un favore, e in fin dei conti perché è un eroe. Un eroe quotidiano, uno dei tanti dell’Italia che produce e che resiste. Un rappresentante della creatività italica, popolo di poeti, navigatori e inventori del telefono “to speak abouts in de theater”. L’imprenditore ci tiene pure a far sentire l’operaio un po’ imprenditore. Uno che può decidere il suo destino, che può essere vincente e raggiungere il successo. Se non ce la fa, è un po’ colpa sua. Bisogna premiare il merito. Chi rimane indietro, non è stato abbastanza creativo, non era capace di apportare benefici e progresso alla società.
Fate come me, lavorate. Poche cazzate, lavorare dalla mattina alla sera, imparate da me, giovanotti che non sanno niente della vita. Ecco la sana morale degli imprenditori, della classe produttiva…Ma quando ti svegli capisci che l’imprenditore non lavora: l’imprenditore è uno che il lavoro lo sfrutta. “Datore di lavoro” è un modo di dire ingannevole. Perché chi il lavoro lo dà, chi offre una prestazione di lavoro, è il lavoratore che viene assunto. Chiamare l’imprenditore “datore di lavoro” è come chiamare “datore di sesso” uno che va a puttane. Mentre è chiaro a tutti che a offrire il sesso è la persona che si prostituisce. Ecco, l’imprenditore non è un benefattore dell’umanità, è un lurido puttaniere, e i giovani proletari le sue puttane, pagate (sempre meno)…
Il lavoro come terapia educativa, dunque. Senza ricadere negli eccessi violenti del passato, l’infanzia prolungata si cura con il lavoro. La maturità del giovane con la testa tra le nuvole è la soggezione al capitale. L’uscita dall’infanzia, la maturazione, è lavorare per il padrone, alle condizioni del padrone. Svegliati, matura, capisci la tua natura di servo. Prostituisciti al capitale. Gratis mentre sei a scuola, e poi per un salario da fame quando la scuola sarà finita. E ringrazia il padrone se non porta l’azienda in Serbia e non ti lascia disoccupato, ché farti lavorare mica gli conviene. Lo fa per te, come un buon padre.
Dietro la retorica del lavoro, si nasconde il profitto degli imprenditori. Dietro la voce che ti dice di maturare, si nasconde la legge iniqua del capitale. La “cura del lavoro” è una enorme violenza ideologica, che spaccia il lavoro sotto il padrone per l’unico lavoro possibile.
La contraddizione è delle più evidenti. Il duro lavoro dovrebbe farti maturare. Ma con le attuali condizioni di lavoro non si esce mai dall’infanzia. Il capitale finge di volerti adulto, mentre ti lascia per sempre bambino. Questa è la base economica dell’infantilismo psichico! Come puoi diventare adulto, comprare casa, mettere su famiglia, con il salario da fame che ti dà il capitale quando diventi “maturo”? Finché comanda il capitale, l’età adulta è solo anagrafica. E le soluzioni del capitale sono, come al solito, false soluzioni.
Solo in un’umanità liberata, solo in una società comunista, il lavoro può essere realizzazione di se stessi. Solo nel comunismo, il lavoro è il tuo lavoro, quello che dà senso alla tua vita. Nel comunismo lavori per te stesso, e non per un altro che si arricchisce con il tuo lavoro, togliendoti tutto. Solo nel comunismo il lavoro è davvero nobile, e non è l’ignobile fatica del lavoro imposto e comandato dal capitale, che ti mastica per 8 ore al giorno e poi ti sputa; e che ti rende un fantasma durante il poco tempo libero che ti viene generosamente concesso!
I giovani perdono tempo, è vero. C’è bisogno di più disciplina, è vero. Ma non della vecchia disciplina familiare; né della disciplina del lavoro capitalistico. La disciplina di cui i giovani hanno bisogno è la disciplina che serve per organizzarsi, per riconoscere i propri compagni, e combattere insieme a loro la lotta di classe per la propria liberazione.