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Abolire le tasse universitarie, obiettivo di lotta o spot elettorale?

Ha fatto scalpore il “grande annuncio”, o meglio la proposta-spot elettorale di Pietro Grasso, candidato di Liberi e Uguali, che ha proposto l’abolizione delle tasse universitarie. Una proposta che ha creato interrogativi anche a sinistra, subito osteggiata dal PD che afferma che “sarebbe un regalo ai ricchi” e rivendica l’introduzione della “no tax area”.

Quella contro le tasse universitarie e per la loro abolizione è una battaglia che da anni viene portata avanti dalle componenti più avanzate del movimento studentesco e dalla gioventù comunista. L’Italia, tra l’altro, è in Europa uno dei paesi in cui le tasse sono più alte (superato solo da Olanda e Inghilterra), dato che si somma all’insufficienza delle borse di studio (di cui beneficia solo il 9% degli studenti, percentuale molto inferiore rispetto ad altri paesi).

Ma in campagna elettorale, si sa, può succedere di tutto. Anche che una parola d’ordine di lotta venga fatta propria da chi fino a ieri ha governato col Partito Democratico, ne ha votato le peggiori riforme. Sotto quel governo, tra l’altro, per migliaia di studenti le tasse si sono alzate grazie all’entrata in vigore del nuovo Isee, nel quale vengono conteggiati i redditi esenti Irpef, e a causa della rivalutazione della prima casa ai fini Imu.

Una proposta rivoluzionaria, come molti l’hanno definita? In realtà no. Abolire le tasse universitarie non significa automaticamente garantire la gratuità dell’istruzione pubblica. Per fare questo servirebbero misure contro tutti gli ostacoli economici che oggi impediscono l’accesso universale all’istruzione universitaria. Ad esempio garantire le borse di studio per i redditi più bassi, combattere caro-libri, garantire trasporti gratuiti e alloggi per gli studenti fuori sede. Fare in modo che tutti possano trovarsi nelle stesse condizioni, eliminando il gap che continua ad esistere fra chi viene da un prestigioso liceo del centro e chi da istituti di periferia e “di serie B”.

Più in generale, abolire le tasse universitarie di per sé non modifica il carattere di classe dell’università, che oggi è fatta su misura per gli interessi delle grandi imprese e risponde agli interessi dei settori economici dominanti, non degli studenti. Un dato che è legato non solo agli ostacoli economici oggi esistenti (e che non sarebbero eliminati con la sola abolizione delle tasse), ma anche e soprattutto agli interessi economici che plasmano l’università a loro piacimento.

Oggi sono gli interessi delle imprese a influire sulla ricerca e sulla didattica, anche grazie alla dipendenza degli atenei dai finanziamenti privati. Quello del finanziamento degli atenei è un altro tema da prendere in considerazione: le tasse universitarie andrebbero abolite ristabilendo la piena copertura da parte dello Stato dei costi dell’istruzione, oppure lasciando che siano i privati a finanziare l’università? Già sulla base di questo punto discriminante il carattere di questa misura cambierebbe radicalmente.

Per cambiare realmente la natura dell’università non basta abolire le tasse universitarie. La riprova, tra l’altro, sta nel fatto che in diversi paesi europei le tasse sono relativamente molto più basse rispetto all’Italia, esistono agevolazioni maggiori per il diritto allo studio, e nonostante ciò l’università resta l’università dei padroni, fatta per le grandi imprese. Le esigenze dei padroni cambiano da paese a paese, e da ciò derivano le maggiori o minori misure per il diritto allo studio, il fatto che in alcuni paesi esista il numero chiuso e in altri no, ecc. In alcuni paesi, come la Germania, le imprese puntano a rilanciare la cosiddetta produttività sfruttando settori d’eccellenza, sfruttando lavoratori qualificati e specializzati; in altri paesi, fra cui rientra l’Italia, le imprese chiedono lavoratori dequalificati e ricattabili da sfruttare. È da queste necessità che derivano le differenti politiche sull’istruzione nei diversi paesi europei. Ma in tutti questi paesi l’università è ben lontana dall’essere “aperta” agli studenti, il diritto allo studio ben lontano dall’essere realmente garantito e accessibile a tutti.

Combattere il carattere di classe dell’università, ancora, significherebbe garantire l’assunzione dei neolaureati. Fare in modo, cioè, che l’università sia realmente collegata al mondo del lavoro secondo quelli che sono gli interessi generali della società, non quelli di imprese e Confindustria; che l’università produca lavoratori, uomini e donne coscienti, e non i dipendenti sfruttati, precari e sottopagati per le imprese.

Di tutto questo Grasso non parla, perché la sua proposta non è costruire un’università gratuita, di qualità, accessibile a tutti, fatta per gli studenti e non per le imprese. L’obiettivo sembra piuttosto quello di una grande promessa elettorale che costruisca consenso in una determinata fascia della popolazione, in linea con quanto stanno facendo più o meno tutte le forze politiche che corrono in queste elezioni. Una proposta che non modificherebbe nella sostanza ciò che è oggi il sistema universitario italiano.

L’errore più grande che possono fare oggi le forze del movimento studentesco sarebbe quello di fare da sponda a una forza socialdemocratica, traghettando su di essa il consenso degli studenti sulla base dello specchietto per le allodole di una proposta-spot elettorale. Il cambiamento non verrà dalle promesse elettorali di una formazione già forza di governo, appartenente all’orbita del centro-sinistra, ma dalla lotta organizzata degli studenti animata da un’idea rivoluzionaria di reale cambiamento dell’università, dell’istruzione e della società tutta.

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