*di Giorgio La Spina
È esploso di recente lo scandalo dei dati utilizzati illecitamente per organizzare propaganda politica, scandalo che ha coinvolto Facebook, social network per antonomasia. Cambridge Analytica, una società di marketing online fondata da un miliardario statunitense attivo nella politica di destra, avrebbe ottenuto informazioni di circa 50 milioni di utenti Facebook. I dati non sono stati ottenuti direttamente dal colosso dei social ma da un’applicazione, anch’essa fondata da un super ricco, che aveva accesso ai profili Facebook dei suoi utenti e dei loro contatti, ma non avrebbe avuto il diritto di passare le suddette informazioni a Cambridge Analytica; per questo sono state violate le policy sulla privacy.
Grazie ai dati, CA avrebbe costruito sofisticate campagne politiche sui social riuscendo a creare pubblicità altamente personalizzate, con profili falsi molto dettagliati e altri artifici e divulgando spesso notizie false. Alcuni giornali hanno parlato addirittura di un ruolo determinante di queste campagne nell’elezione di Trump a presidente degli Stati Uniti e nel risultato del referendum sulla permanenza del Regno Unito in Unione Europea.
Le notizie hanno suscitato un forte dibattito, nel quale passa in sordina un fatto molto importante: tutto questo accade in maniera estremamente frequente, da parecchi anni e nel pieno rispetto delle leggi. Lo scandalo è nato, infatti, non dall’utilizzo dei dati personali, ma “solo” dal fatto che in questo specifico caso sono state violate le policies di Facebook (cosa che lo staff di Obama, che ha utilizzato mezzi del tutto analoghi nel 2008 e nel 2012, era riuscito ad evitare). Non si tratta nemmeno di un reato riconosciuto dalle leggi statunitensi o inglesi che, allo stesso modo della quasi totalità delle nazioni, lasciano il web deregolamentato, una giungla in cui i padroni dei grossi colossi possono tutto.
Un simile utilizzo dei dati degli utenti è certo possibile perché vengono accettate le condizioni di uso senza porsi alcuna domanda, ma soprattutto perché da utenti non ci si rende conto fino in fondo di ciò che comporta il non essere proprietari dei dati con cui creiamo i nostri profili. Nel creare profili sui social, infatti, riconosciamo all’azienda i diritti di proprietà dei dati, regolati esclusivamente attraverso una “policy” decisa quasi totalmente proprio da quell’azienda. Gli sviluppatori privati dei servizi sul web che gli utenti non pagano guadagnano esclusivamente dalla pubblicità e dal trattamento dei dati degli utenti, strumenti preziosissimi che permettono di creare imperi. Insomma, che gli utenti non paghino è solo in apparenza: si paga attraverso la cessione dei propri dati personali.
Fra i giovani è diventato quasi indispensabile utilizzare questi servizi per rientrare nelle abitudini ormai diventate scontate per la nostra generazione: tutti condividiamo, ci mettiamo in contatto principalmente coi social, creiamo una vetrina sulla nostra individualità per farci conoscere e guardiamo quelle altrui. Nel web, ed in particolare sui social, lasciamo continuamente informazioni sui nostri gusti, interessi emozioni ecc.: facilmente ci capita di cercare un prodotto da acquistare e successivamente trovare pubblicità di quello specifico prodotto. Ciò influenza i consumi e soprattutto favorisce una tendenza a consumare di più. Si potrebbe dire “se quest’utilizzo delle informazioni che lascio mi aiuta nei miei consumi è un bene”… la politica merita due righe per sé.
L’episodio può essere utilizzato come uno spunto, come ce ne sono moltissimi, per prendere atto del fatto che in politica a fare la differenza è il fatto di avere capitali da investire in campagne elettorali e non. Il consenso di molti giovani viene “catturato” sulla base delle informazioni che si raccolgono nelle sfere individuali, private, su queste si fa una propaganda che faccia apparire il tuo prodotto vendibile o sgradevole il prodotto del concorrente, ma il prodotto è appunto la politica che sulla carta dovrebbe avere un grosso peso sulla collettività. Di fatti la politica è piegata ai grandi capitali e può ben poco: idee di società, valori, visioni del mondo se non sono conseguenti agli interessi del capitale si trovano a combattere una battaglia impari contro il potere di fare propaganda altamente personalizzata, in una società caratterizzata dal fortissimo individualismo, grazie a enormi risorse economiche.
È in questo sistema che dimenticando progressivamente la politica, il valore dei beni sociali, come studio, lavoro e diritti e trovando la sua massima affermazione l’individualismo, gli individui, che non si riconoscono in alcuna collettività di appartenenza, perdono qualsiasi funzione oltre a quella di consumatori. Durante questa evoluzione il sistema capitalistico svela ancor di più la sua intima natura: pochissimi multimiliardari fra i quali i padroni di Amazon, Google e Facebook, più potenti di qualsiasi capo di governo, sfruttano in maniera spietata miliardi di lavoratori e lobotomizzano miliardi di consumatori che li ingrassano sempre più. L’alternativa a questa barbarie si può avere in una società fondata su beni universali, con al centro la politica, che porti alla piena realizzazione dell’individuo nel lavoro e non nel consumo.