*di Sebastian Pelli e Adnan Nemri
Il 25 luglio del 1943, in seguito alla caduta di Mussolini, il generale Badoglio annunciò l’intenzione di proseguire con la guerra a fianco della Germania nazista. In tutta Italia cittadini e lavoratori scesero in piazza per opporsi alla guerra dei padroni, stanchi di soffrire le conseguenze di un conflitto mai voluto. A Reggio Emilia nacque un corteo spontaneo e pacifico da parte degli operai delle Officine Meccaniche Reggiane, che venne represso nel sangue per mano di un plotone di bersaglieri in servizio d’ordine pubblico. Vennero assassinati nove operai, tra cui una donna incinta (Antonio Artioli, Vincenzo Bellocchi, Eugenio Fava, Nello Ferretti, Armando Grisendi, Gino Menozzi, Osvaldo Notari, Domenica Secchi e Angelo Tanzi) e decine di altri manifestanti furono feriti gravemente dai manganelli.
All’epoca le Reggiane erano l’industria più grande d’Emilia e ospitavano migliaia di lavoratori, anche dalle province vicine. Producevano locomotive, rotabili ferroviari, ma in particolare gli aerei impiegati nel conflitto bellico. Durante il riarmo fascista, per sostenere i ritmi richiesti dalla guerra, la produzione era organizzata a massimo regime: la fabbrica era aperta 24 ore e gli operai si alternavano con due turni da dodici ore, quello “mattutino” e quello “serale”. Era un lavoro pesante, svolto in condizioni difficili anche da giovani ragazzi e donne, per poche lire al mese. Essere un operaio lavorando in questa azienda, tuttavia, era un motivo di orgoglio. Tra le migliaia di lavoratori impiegati nelle reggiane si era sviluppato, spontaneamente, un sentimento di unità. Quando si vedeva un aereo volare o una locomotiva andare, ci si rendeva conto che ciò poteva accadere solo grazie al lavoro di tutti gli operai che lo avevano costruito. Essi erano i veri artefici di quel progresso di cui il fascismo si diceva portatore.
Si resero conto che, però, quel loro lavoro che poteva far prendere il volo a dei pezzi di metallo veniva utilizzato per proseguire una guerra di contraria ai loro interessi, di conquista e razzia degli altri popoli. Le macchine che essi costruivano venivano impiegate per perseguire gli interessi del grande capitale, mentre la maggioranza della popolazione si impoveriva. Già prima della caduta di Mussolini alcuni operai si organizzavano per sabotare la produzione di nascosto, rallentando tutta la catena produttiva. In un contesto di spoliticizzazione della stragrande maggioranza degli operai, cominciarono a comparire sui muri della fabbrica le prime scritte inneggianti alla rivoluzione, firmate con falce e martello: sebbene il partito comunista fosse ancora lontano dall’ottenere l’egemonia sui dipendenti, erano nate le prime cellule comuniste all’interno del complesso industriale.
Il 25 luglio gli operai, ricevuta la notizia delle dimissioni di Mussolini, staccarono tutti i suoi ritratti dalla fabbrica e gettarono a terra le spille del PNF che costituivano una sorta di lasciapassare per potersi recare a lavoro. Il direttore delle Reggiane invitò a mantenere la calma, ma gli operai si rifiutarono di continuare la produzione e decisero di scioperare, gridando alla pace.
Il 28 luglio cinquemila operai decisero di portare il loro sciopero in piazza, ma vennero intercettati da un plotone di bersaglieri dotato di artiglieria pesante, che in quel momento faceva le veci delle forze dell’ordine pubblico. I manifestanti, convinti che il plotone non avrebbe aperto il fuoco su degli operai disarmati, avanzarono provando a cercare un dialogo. Non è chiaro se furono proprio i bersaglieri o una guardia giurata delle officine ad aprire il fuoco, ma il plotone sparò ad altezza uomo, uccidendo nove persone, tra cui una donna incinta che cercava di nascondersi dietro un cancello. I manifestanti vengono poi caricati e respinti nelle fabbriche, dove trovarono rifugio e si barricarono, armandosi con l’attrezzatura bellica prodotta nell’industria. Quando giunsero i carri armati dell’esercito, minacciando di abbattere l’intero edificio, dovettero arrendersi.
La strada d’ingresso alle Reggiane era ricoperta di sangue, e i nove corpi delle vittime erano ammucchiati al centro. I familiari vennero a conoscenza della scomparsa dei loro cari attraverso i conoscenti o i colleghi. Non furono mai celebrati i funerali degli operai caduti in questa giornata, e i giornali non scrissero nulla riguardo all’accaduto. Quindici giorni dopo l’accaduto apparvero i nomi delle vittime nella pagina “nati/morti”, senza specificare null’altro. Tuttavia in tutti gli operai della fabbrica ormai si era sviluppata la coscienza di essere tutti nella condizione di dover lottare per una società diversa, dove non ci fosse spazio né per la guerra né per lo sfruttamento. In seguito molti di loro si unirono alla Resistenza e organizzandosi nel Partito Comunista per prendere il potere, con l’obiettivo costruire una società in cui il lavoro degli uomini venga utilizzato per costruire un mondo di pace e prosperità.
A 75 anni da questo eccidio è doveroso ricordare gli operai morti quel tragico giorno. Ricordandoli è doveroso far fronte ai nuovi fascismi che si ripresentano oggi, mascherandosi da alternativa, raccogliendo consensi nei quartieri popolari. Essere argine al fascismo è uno dei grandi ruoli dei comunisti, che sono gli unici che lo possono realmente ricoprire, costruendo una presenza in ogni luogo di lavoro e di studio, indirizzando la rabbia degli oppressi verso una prospettiva rivoluzionaria. Proprio come fece il Partito Comunista, che seppe essere una vera e propria avanguardia del proletariato, che sapeva diffondere coscienza di classe all’interno di un contesto lavorativo spietato: turni di dodici ore, sindacati e comunisti costretti alla clandestinità, manifestazioni proibite dal governo. Addirittura ad ascoltare le testimonianze di alcuni operai del tempo ci si sente dire che inizialmente quasi tutti erano fascisti, che era la normalità, ma che col tempo le contraddizioni materiali della realtà e la capacità dei comunisti di organizzarsi, di accompagnare i lavoratori nelle loro lotte, li portarono tutti a stare con quest’ultimi.
Il nostro compito oggi è lo stesso, organizzarci nel territorio ed essere presenti in ogni luogo di lavoro, di studio, di aggregazione, per mostrare a studenti e lavoratori che l’unica alternativa a questo sistema è la rivoluzione, è il potere nelle mani della classe operaia, per mostrare loro che lottando è possibile raggiungere un futuro più giusto, più libero, più equo.