Negli ultimi anni l’istruzione italiana è stata oggetto di continui attacchi da parte dei governi che si sono succeduti, tramite un ciclo di tagli, di cui ancora oggi non si vede la fine, imposto dall’Unione Europea per contenere la spesa pubblica del Paese. Neanche il “governo del cambiamento” sembra intenzionato ad impegnarsi in un cambio di rotta, con l’ennesimo attacco all’istruzione pubblica posto nella legge di bilancio, dopo il tentativo di presentare il piano “scuole sicure” come un iniziativa volta al miglioramento della sempre più precaria condizione della scuola italiana.
Lo smantellamento dell’istruzione pubblica non passa però solo dai tagli strutturali ai fondi per scuole e università, ma anche da un nuovo modello di didattica che va facendosi strada nel Paese, orientato a produrre più velocemente possibile manodopera settorialmente iper-specializzata, spendibile solo in singoli campi della produzione, molto spesso legati esclusivamente al tessuto produttivo del territorio e dunque facilmente ricattabile.
Ciò sta avvenendo tramite le così dette “lauree professionalizzanti”, istituite dal 2018 sul modello delle Fachhochschule tedesche con l’obiettivo di creare dei corsi brevi che garantirebbero ai giovani di trovare lavoro entro un anno dal conseguimento del titolo di studio. Un provvedimento voluto dal governo Renzi con gli ex ministri Giannini e Fedeli, ma lasciato del tutto immutato dal governo Lega-Cinque Stelle, che anche su questo tema si ritrova allineato coi suoi predecessori, nell’incoraggiare un modello di istruzione sempre meno a misura di studente e ancor più piegato sulle esigenze delle grandi imprese.
I corsi, che sono attivati già da questo settembre su tre aree (Edilizia e Territorio, Energia e trasporti e Ingegneria), hanno una durata di 3 anni e attualmente vedono coinvolti oltre 600 studenti di 12 atenei di tutta Italia.
Il mantra comunicativo che ci offrono il MIUR e gli atenei coinvolti è sempre lo stesso: avvicinare il mondo della formazione al mondo del lavoro. Si tratta di un messaggio efficacissimo, soprattutto in questi anni in cui la gioventù è vessata da elevatissimi livelli di disoccupazione. Il passaggio che non viene invece raccontato è cosa vuol dire stringere le maglie fra la formazione e i capitali, quali conseguenze ciò comporta.
La questione della formazione della manodopera, sia specializzata che non, rappresenta un tema fondante della produzione, fin dagli inizi del ‘900. Quando i cicli produttivi si sono potenziati, quando la quota di capitale investita in macchinari è diventata sempre più rilevante rispetto a quella investita in salari, immediatamente ci si è resi conto che non si poteva più procedere all’arruolamento della manodopera senza che questa venisse opportunamente formata all’utilizzo dei nuovi e sempre più avanzati mezzi di produzione. All’inizio del secolo scorso Taylorismo e Fordismo ponevano la questione in maniera centrale, e ben presto tutti i gruppi industriali si dotarono di comparti formativi specifici. Con l’arrivo dell’istruzione obbligatoria, da subito le aziende hanno colto la possibilità di demandare i costi di questa formazione allo Stato, acquisendo cosi manodopera già formata e tagliando le spese.
Ciò ha avuto delle indubbie conseguenze nella strutturazione stessa del sistema formativo, permettendo la nascita di scuole secondarie specificatamente dedicate alla formazione lavorativa dove potessero andare a studiare i figli degli operai e dei ceti popolari. Il carattere di classe che divideva e tutt’ora divide spesso chi studia in un liceo rispetto a chi in un tecnico-professionale, è nato proprio dalle esigenze strutturali di manodopera formata che provenivano e tutt’ora provengono dalle fabbriche. Ciò esiste analogamente in merito alla manodopera specializzata che viene prodotta all’interno dalle varie facoltà scientifiche delle istituzioni accademiche.
Come già spiegato, tutto questo è un elemento strutturale e fondante del sistema formativo di ogni paese capitalistico. L’elemento di novità che si va strutturando, e di cui questo caso che riportiamo delle lauree professionalizzanti è uno dei molteplici esempi, è quello di sfruttare la formazione pubblica non solo come mezzo per fornire manodopera già formata alle imprese, ma anche per abbassarne il costo proprio tramite il ciclo formativo svolto. Per quanto possa sembrare paradossale, ciò è il nucleo centrale della questione. Più si stringono le maglie fra capitale e formazione, più lo studente viene indirizzato verso specifiche competenze professionali legate a specifici caratteri della produzione, più rimarrà mortalmente vincolato a quelle tipologie professionali e produttive nel momento in cui diverrà un lavoratore.
La produzione di manodopera iper-settorializzata all’interno di scuole e università, sia specializzata che non, rende quella manodopera estremamente ricattabile. I giovani lavoratori che terminano gli studi dopo aver appreso competenze settoriali sono estremamente competitivi in pochissimi settori ed estremamente non competitivi negli altri e ciò provoca un vincolo fra la formazione di quel lavoratore e l’azienda destinata ad assumerne la forza lavoro, e per il lavoratore tale vincolo rappresenta spesso l’unica strada lavorativa percorribile. Tale congiuntura è estremamente vantaggiosa per le aziende, che mettono continuamente questi lavoratori davanti alla scelta di vendere le proprie competenze a salari sempre più bassi o andare a cercarsi lavoro in altri poli produttivi dove quelle competenze sono inutili. Tramite questo sistema, i padroni sono riusciti nell’incantesimo di trasformare l’istruzione non solo in un mezzo per risparmiare capitali sulla formazione della manodopera, ma anche in uno strumento direttamente coercitivo nei confronti dei lavoratori e dei loro salari.
Si tratta di un modello di sfruttamento e ricatto avanzato ed estremamente pericoloso, che si rafforza ogni qual volta si portano avanti proposte formative come quella citata. Il ruolo della formazione pubblica dovrebbe essere necessariamente quello di fornire competenze ampie che armino il lavoratore contro chi amena a sfruttarne la manodopera, mentre in questo sistema l’istruzione diviene sempre più spesso complice di questo sfruttamento.
Nel caso specifico, vediamo bene i caratteri della questione. Una volta iscritti al corso professionalizzante, gli studenti svolgono un anno di tirocinio gratuito presso l’azienda di riferimento. Durante quest’anno l’azienda ha un duplice guadagno: da un lato addestra i propri lavoratori a spese dello Stato (e degli stessi studenti che pagano le tasse), dall’altro si guadagna un anno di lavoro gratuito. Successivamente, una volta laureato, lo studente è pronto per andare a contrattare con l’impresa la propria assunzione, con gioco facile del padrone che può dettare termini e condizioni di tale assunzione in virtù di un potere contrattuale enorme sulla base di quanto abbiamo detto.
Il passaggio logico successivo è chiedersi chi si iscriverà a tali corsi. Questi corsi di tre anni, che promettono alte opportunità occupazionali (senza svelarne le condizioni ovviamente), diventano allettanti per quelle centinaia di migliaia di studenti che sono esclusi spessissimo dalla possibilità di proseguire gli studi dopo la scuola. Parliamo di quei figli delle classi popolari che sempre più spesso rinunciano alla formazione in virtù delle proprie impossibilità economiche, per questi giovani il corso professionalizzante di tre anni può apparire un buon compromesso fra le proprie aspirazioni formative e le proprie disponibilità. Nuovamente l’avvicinamento del mondo del lavoro a quello dell’istruzione diverrà strumento di divisione classista fra studenti con maggiori possibilità economiche e una formazione più completa e studenti che tutto ciò non possono permetterselo.
Ancora una volta, siamo davanti all’ ennesimo provvedimento presentato come una fonte d’opportunità per i giovani, ma che in realtà continua lungo la strada ben solcata di plasmare il nostro sistema d’istruzione alla luce delle esigenze del mercato, dei padroni e di coloro che si ingrassano alle spalle delle classi popolari garantendo solo precarietà, sfruttamento e disoccupazione.