È notizia di pochi giorni fa che il rettore dell’Università di Catania è stato sospeso dal suo incarico, a causa di alcune indagini in corso che lo vedono indagato, insieme ad altri 66 docenti in tutta Italia (40 solo a Catania), di aver truccato 27 concorsi per il conferimento degli assegni, delle borse, dei dottorati di ricerca, che venivano “cuciti” addosso ai candidati prescelti. I criteri dei bandi, secondo le indagini, erano infatti scelti per assicurare l’idoneità completa di una persona nello specifico e proiettarla in cima alla lista dei candidati. I pesanti reati contestati sono associazione a delinquere, corruzione e turbativa d’asta.
Istituita nel 1999, in un’ondata generale di privatizzazioni ed espulsione dello Stato dall’economia, l’autonomia universitaria ha concesso pieno arbitrio agli atenei in ambito finanziario, didattico ed amministrativo. All’epoca l’autonomia venne accolta proprio come lo strumento che avrebbe finalmente messo fine al baronato delle cattedre e nella ricerca. Ma la vera logica che genera questa deresponsabilizzazione del Miur nella gestione degli atenei, si colloca in un’ottica di progressiva privatizzazione e aziendalizzazione del mondo della formazione tutto e delle università, le quali da allora gestiscono autonomamente i loro bilanci, non con l’obiettivo di fornire un servizio eccellente agli studenti, ma al fine di chiudere in attivo l’anno accademico. Il tutto in un quadro di definanziamento complessivo dove i tagli vanno a colpire soprattutto diritto allo studio e punti organico per le assunzioni.
Senza soffermarci troppo sugli aspetti economici della vicenda, i fatti di Catania ci impongono una seria riflessione sul potere che l’autonomia universitaria conferisce ai singoli atenei, i quali decidono a livello locale l’assunzione di docenti ordinari e ricercatori (attraverso punti organico assegnati con parametri dubbi) l’elargizione di borse di studio, assegni e dottorati di ricerca. Se uno degli aspetti per cui l’autonomia universitaria veniva promossa era la lotta serrata al baronato e all’assegnazione a chiamata delle borse di dottorato, con i bandi di concorso scritti su misura questo meccanismo si è riprodotto ed ha trovato una legittimità statutaria; l’inchiesta “Università Bandita” ci sbatte in faccia una realtà che non era ovviamente sconosciuta a chi vive gli atenei e ambisce a intraprendere una carriera accademica.
Anche la normativa che impone una percentuale di chiamate esterne, cioè di persone che non abbiano mai avuto contratti con quell’ateneo, è un rimedio poco utile il cui maggior risultato è quello di garantire una gestione poco trasparente delle poche assunzioni interne rimaste disponibili.
Ci si scontra solitamente con interessi intrecciati di alcuni professori e direttori di dipartimento che vogliono quei pochi posti assegnati ad amici o per investire in settori di ricerca di loro interesse. Se per loro è evidente quale possa essere il guadagno nel “gestire” i bandi in questo modo, ottenendo più risorse dove preferiscono, sarebbe più difficoltoso immaginare cosa possa ottenere il rettore con la sua connivenza. In questo caso pare che gli abbia permesso di avere complicità totale nel costruire la composizione degli organi centrali dell’ateneo così da garantirsi una comoda gestione complessiva delle risorse.
Secondo le indagini infatti il Consiglio d’Amministrazione di UNICT sarebbe stato deciso a tavolino dall’ex rettore Pignataro e dall’attuale rettore Basile, anche con il benestare dei rappresentanti degli studenti i quali avrebbero preso parte a questo sistema tramite pizzini.
Occorre fare anche una riflessione seria sul ruolo che i rappresentanti svolgono all’interno dei nostri atenei. Giovani carrieristi, ambiziosi arrivisti che utilizzano la politica universitaria per scalare gerarchie di partito, i rappresentanti coinvolti in questo squallido teatrino fanno parte di quelle associazioni legate a doppio filo con i partiti che governano/hanno governato a livello cittadino, regionale e statale, e che hanno condotto una lotta serrata all’università pubblica, tagliando risorse, svilendola e privandola della sua caratteristica di massa.
Il ruolo svolto da questi giovani squali che in campagna elettorale indossano la maschera di colleghi premurosi, attenti alle necessità dello studente, al servizio della comunità, è venuto fuori in tutta la sua brutalità con questa indagine: burattini nelle mani di dirigenza universitaria e politici, che agiscono nell’interesse loro e delle loro associazioni, ripudiando qualsivoglia ruolo di avanguardia e di megafono delle lotte e delle istanze che gli studenti portano avanti nelle università.
L’iter giudiziario farà il suo corso, ma non è di questo che ci importa. Gli alti vertici dell’università, i rappresentanti, non devono tanto conto alla legge quanto a noi studenti, che tra mille difficoltà cerchiamo di costruirci un futuro in quelle aule universitarie, e che veniamo penalizzati dai piani opportunisti e clientelari di chi sta sopra di noi. Questi fatti evidenziano ancora una volta come anche il mondo dell’università, della formazione e della conoscenza sia vittima delle leggi del profitto e dell’accumulazione di denaro che regolano la nostra società, e che spingono amministratori e rappresentanti a svendere il loro ruolo per avere un tornaconto personale. È contro questa università dei baroni e contro chi la asseconda tradendo gli studenti che bisogna alzare la testa.