*di Domenico Ribezzo
C’erano una volta il cinema di genere e il cinema d’autore. O meglio, queste due categorie esistono ancora, ma nel frattempo ci siamo persi per strada gli autori che facevano film di genere, quei film con cui ci si divertiva ma non si lasciava a casa la politica, le considerazioni sulla società, i problemi del mondo in cui vivevamo: si pensi non solo ai film di registi come Petri (tutt’altro che “mattoni politici”), ma anche ad autori di commedie come Salce, che con Fantozzi ci ha regalato un ritratto perfetto della distopia capitalista (e che oggi si potrebbe definire quasi utopia: il ragionier Ugo Fantozzi ha un posto fisso, va spesso in villeggiatura, garantisce col suo stipendio una vita dignitosa a tutta la famiglia). Lo stesso valeva addirittura per le grandi produzioni hollywoodiane: poche opere hanno condannato la guerra con la potenza dell’Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, solo per fare un esempio.
Bisogna rassegnarsi all’idea che tutto ciò rappresenta solo un lontano ricordo? No. Anche se costretti a lottare per sopravvivere alla dura prova del botteghino, gli autori che ancora oggi cercano di fare un intrattenimento di qualità esistono… e molto spesso vengono da oriente. L’ultima fatica del regista coreano Bong Joon-ho è l’esempio perfetto di come intrattenimento – di altissima qualità – e denuncia sociale possano non solo convivere, ma addirittura sostenersi a vicenda.
Il film narra la vita di due famiglie: da una parte i Kim, che vivono di espedienti in un seminterrato di un quartiere ai margini della società; dall’altra i Park, ricchi borghesi che vivono in una villa della Seoul bene. Le loro vite si intrecciano quando un amico di Ki-woo, il figlio dei Kim, gli chiede di sostituirlo come tutor d’inglese della giovane figlia dei Park; questo vorrà dire per il nostro Ki-woo, brillante studente che ha sospeso gli studi per difficoltà economiche, falsificare il certificato d’iscrizione all’università con l’aiuto di sua sorella Ki-jeong, una ragazza piena di voglia di rivalsa e priva di scrupoli. Non passa molto che i due vedono nella famiglia Park la possibilità di riscatto sociale tanto agognata, e uno dopo l’altro troveranno le maniere per rimpiazzare l’intero entourage della casa con i membri della loro famiglia. Senza raccontare di più sulla trama (d’altronde è un thriller – oltre che una commedia, oltre che un film drammatico), si sappia che Joon-ho è riuscito a realizzare un film fortemente politico senza tirare mai fuori esplicitamente la politica.
Quella che il regista porta sullo schermo è una descrizione accurata della società sudcoreana: pur non facendo sconti ai rappresentanti delle classi superiori (la moglie, che si divide tra la vita mondana e una preoccupazione morbosa per i figli, due bambini viziatissimi, è talmente ingenua da risultare stupida, mentre il padre, preoccupato solo del fatto che i suoi dipendenti “non oltrepassino la linea”, incarna perfettamente lo stereotipo del ricco snob, pronto a disprezzare senza esitazioni chi sta peggio di lui e convinto che tutto gli sia dovuto), è chiaro fin da subito che quella di fare del film un panegirico del proletariato sudcoreano è l’ultima delle sue intenzioni. I poveri di questo film infatti sono tutt’altro che degli eroi: quasi fosse un omaggio al cinema neorealista (no, non lo è) questi raggirano, rubano, si picchiano e si ammazzano senza turbamento morale di sorta, tanto che è impossibile per lo spettatore empatizzare con alcuno dei personaggi di questo film. Ma dunque, qual è l’obiettivo del cineasta? Agli occhi di chi scrive, è quello di raccontare una storia immersa nel contesto della società sudcoreana. Bong Joon-hoo è anticapitalista, l’ha dichiarato in più di un’occasione e chi conosce i suoi lavori sa che non si preoccupa molto di celarlo (qualcuno ricorderà il noto “Snowpiercer”). Per questo dev’essere stato per lui impossibile raccontare una storia come questa rendendola avulsa da considerazioni politiche. Quello che ne viene fuori è un ritratto di un proletariato corrotto: diviso e privo di coscienza di classe (se pensate che sia esagerato aspettate di arrivare alla seconda metà del film), è stato forgiato dal sistema al punto da volere non distruggere le classi dominanti bensì sostituirsi ad esse. Un pessimismo senza speranza? No, dopo aver passato l’intero film a prendersela con altri disgraziati, alla fine il signor Kim si scaglierà contro il signor Park. A dirla tutta ha più i connotati di uno sprazzo di lucidità che di una presa di coscienza, però ormai lo sappiamo: tra le intenzioni di Joon-ho non c’è quella di fare indottrinamento politico e va benissimo così.
Si tratta di una magnifica opera descrittiva (non casualmente, dato che si parla di un regista che vanta degli studi sociologici nel suo curriculum), in grado di colpire, appassionare e, soprattutto, far riflettere senza mai annoiare. Il messaggio politico più dirompente deriva proprio dalla rappresentazione della realtà. Una realtà in cui, per chi non ne ha la possibilità, è impossibile persino pianificare piccole cose e costruirsi delle garanzie minime. Questa è, probabilmente, l’unica suggestione esplicita del film, inserita in maniera totalmente coerente con la narrazione, senza alcuna forma di appesantimento o rallentamento del ritmo.
Sugli aspetti tecnici c’è poco da dire: il film è perfetto. Una cura maniacale dei dettagli e delle simmetrie (la simmetria più importante del film è proprio tra il seminterrato dei Kim e la villa dei Park), un utilizzo delle luci magistrali e mai un rallenty a sproposito: ogni fotogramma di questo film è una foto d’artista. C’è addirittura un omaggio inaspettato all’italo pop: tra i pezzi del compositore Jung Jae-il nella colonna sonora fa capolino “In ginocchio da te” di Gianni Morandi, che contribuisce a rendere memorabile una scena che, se esistesse di per sé, avrebbe come titolo “Il trionfo delle classi dominanti”.
Parasite è uno dei film migliori del decennio e, forse a sua insaputa, uno dei più politici. Perderselo sarebbe un peccato imperdonabile.