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L’Ufficiale e la spia. La difesa del giusto come limite all’obbedienza

Recensione del film di Roman Polansky

 

«Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso […] E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima» Emile Zolà (J’accuse, quotidiano L’Aurore 13 gennaio 1898)

Francia 1894. Alfred Dreyfus, capitano francese di origine ebraica, in servizio presso lo Stato Maggiore dell’Esercito, viene accusato a torto di aver passato informazioni segrete all’Impero tedesco, nazione a quei tempi nemica della Francia. Il processo si svolge in modo sommario, con prove contraddittorie e apertamente false. I diritti della difesa e le procedure legali sono apertamente violate in nome dei superiori interessi della nazione francese. La giuria è pesantemente influenzata dalle pressioni dello Stato Maggiore dell’Esercito, del Governo francese, e di vasti strati dell’opinione pubblica nelle quali serpeggia un forte sentimento nazionalista e anti-ebraico. Il verdetto è scontato. Dreyfus è condannato alla deportazione, presso l’isola del Diavolo dopo la cerimonia pubblica di degradazione, a cui assiste la folla parigina che chiede la testa del traditore.

Poco dopo viene nominato come nuovo capo dell’ufficio di controspionaggio militare il colonnello Georges Picquart, giovane ufficiale con una promettente carriera innanzi a sè. Nonostante la ritrosia e gli aperti ostacoli dello stesso personale del proprio ufficio, Picquart ben presto si rende conto della gigantesca montatura di cui è vittima Dreyfus, parallelamente alla consapevolezza che la vera spia è ancora nei ranghi dell’esercito e può continuare a rivelare informazioni segrete al nemico. Si precipita dai suoi superiori convinto di ottenere l’appoggio per la prosecuzione delle indagini e la riapertura del caso Dreyfus, e di essere apprezzato per aver individuato la vera spia, ma trova un muro di omertà e copertura, che presto si converte in un vero e proprio processo contro l’ufficiale, in cui il giusto e fedele finisce al banco degli imputati come traditore.

Inizia così il lungo travaglio di un uomo dell’esercito, fedele alla sua nazione e alla disciplina, che si scontra con il dilemma tra la difesa dello spirito di corpo e il bene superiore della giustizia. Fare ciò che è giusto o seguire gli ordini dei propri superiori, quando si ha piena coscienza della loro arbitrarietà e ingiustizia? Seguire la strada comoda di una facile carriera o la propria coscienza? Denunciare pubblicamente l’arbitrio commesso, violando così l’obbligo di segretezza a cui è tenuto un militare, oppure lasciare che le regole formali soffochino la giustizia sostanziale a cui sarebbero poste a presidio? Porre fiducia in una giustizia interna alle stesse gerarchie militari, di cui si conosce già la corruzione, o divulgare all’esterno la verità sperando di risvegliare la coscienza collettiva?

Il film di Roman Polansky – L’ufficiale e la Spia, titolo originale J’Accuse, in questi giorni uscito nelle sale cinematografiche italiane –  è un vero capolavoro di modernità, perché interroga questo profondo conflitto di coscienza che non ha tempo. Correttamente accolto con giudizi positivi dalla critica, fedele alla verità storica, ma forse prigioniero in molte letture superficiali, di un legame esclusivo con la vicenda delle persecuzioni anti-ebraiche, tema giustamente presente e fondamentale, ma nel quale non si esaurisce la complessità della vicenda narrata. Quel che è certo è che l’affaire Dreyfus esce dai confini della Francia di fine ottocento, prestandosi ad essere una metafora generale, adatta davvero a tutti i tempi.

Quando alla fine della seconda guerra mondiale gli ufficiali nazisti furono portati a processo, molti di loro sostennero di essersi limitati a obbedire agli ordini impartiti. La pretesa era quella di scagionare le responsabilità singole, riducendo il tutto a una catena ininterrotta di ordini e esecuzione disciplinata. Ma gli ordini erano crimini che anche il singolo soldato avrebbe potuto comprendere, con la conseguenza che la fedeltà alla disciplina militare fu uno dei fattori che consentirono il perpetrarsi di quei crimini.

Per comprendere la complessità anche giuridica della materia basta leggere l’articolo 51 del codice penale, che prevede una ipotesi di scriminante per la commissione dei reati in caso di esecuzione di un ordine della pubblica autorità, ma che pone particolari problemi nel caso dell’ordine illegittimo impartito da superiori nei confronti di chi non ha alcun sindacato sull’ordine stesso. Nel caso delle Fosse Ardeatine, la Cassazione, con la sentenza 12595 del 1998, affermò che l’eccidio era immediatamente riconoscibile come criminoso per la contrarietà ai più elementari principi di umanità, e come tale fosse obbligo non darvi esecuzione. Nella stessa sentenza sostenne che anche l’insindacabilità e la vincolatività dell’ordine, proprie del sistema gerarchico militare, trovano un limite nell’intrinseco, oggettivo ed evidente contenuto criminoso dell’ordine superiore. Quindi di fronte a un ordine di tal genere anche il soldato deve rifiutarsi di eseguirlo, pena esserne corresponsabile.

Eppure vedendo l’Italia di oggi, questo principio appare tutt’altro che pacifico. Pensiamo al caso Cucchi. Un giovane ragazzo, sottoposto a fermo per un reato di lieve entità, ucciso per i pestaggi subiti e sepolto da una catena di omertà, depistaggi, spirito di protezione di corpo. Una parte importante di un intero corpo militare che per anni non solo non ha isolato e punito i colpevoli –  acconsentendo che la colpa ricadesse su altri –  ma li ha protetti, colpendo al contrario chi per primo si era ribellato a questa ingiustizia, facendo trapelare informazioni segrete con lo scopo di difendere la verità. E di esempi se ne potrebbero fare molti altri, non solo in ambito militare.

L’affaire Dreyfus e le sue conseguenze furono a lungo tema di dibattito in Francia. Uscito dalle singole sfere della giustizia militare, coinvolse l’opinione pubblica grazie all’interessamento di parte degli intellettuali, dei giuristi e della politica francese. Lo scrittore Èmile Zola si fece portavoce di questa battaglia, denunciando pubblicamente i nomi dei colpevoli della lunga catena di depistaggi e coperture nel celebre articolo J’Accuse – titolo originario del film, purtroppo non riportato nella versione italiana, espressione da allora divenuta celebre come simbolo di ogni denuncia pubblica – pubblicato sul giornale socialista l’Aurore, simbolo anche questo, di come il movimento operaio abbia saputo nella sua storia farsi portatore di ogni istanza di giustizia e democrazia.

Zola fu inizialmente condannato a un anno di carcere. Non vide mai trionfare la verità, morendo prima della vicenda. Ma diede un contributo fondamentale affinché ciò accadesse. Come scrisse in uno dei suoi articoli dedicato a questo caso: la verità è in marcia e nulla potrà fermarla.

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