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La truffa del lavoro “autonomo” spiegata nel film di Ken Loach

*di Ruggero Caruso

“Sorry we missed you” è l’ultimo capolavoro prodotto da Ken Loach che in linea con i suoi lavori precedenti fornisce in maniera brutale agli spettatori uno spaccato di realtà quotidiana della working class inglese.

Al centro del racconto, la storia di una famiglia nella Newcastle della fine degli anni 10 del ventunesimo secolo: lui, Ricky, fattorino mal pagato, lei, Abby, badante di anziani e disabili, realizzano in un’Inghilterra in piena recessione che, a causa dei debiti e della loro condizione lavorativa, non riusciranno mai a raggiungere la stabilità, comprare casa e vivere una vita serena insieme ai loro due figli, Seb e Liza Jean. Ma ecco presentarsi l’opportunità di una svolta: un’impresa di consegne, leader nel settore in tutto il Paese, offre a Ricky un lavoro autonomo come fattorino. Ricky, stregato dall’idea di essere “padrone di sé stesso” e ipnotizzato dalle parole del padrone che con una serie di frasi fatte (del tipo “salirai a bordo, lavorerai con noi, non per noi”, “da noi non esistono licenziamenti”) gli fa credere di potere finalmente iniziare una carriera di successo, vende la macchina della moglie, unico bene di proprietà della famiglia, e acquista un furgone.

Come tutti possono immaginare, le aspettative di Ricky si schiantano presto su una realtà fatta di sfruttamento: il lavoro “autonomo” gli occupa circa 14 ore al giorno; il tempo è scandito dai click dello scanner che non lasciano spazio a pause, tanto che i lavoratori sono costretti a portarsi dietro una bottiglietta per urinare; l’algoritmo dello scanner impone una guida spericolata per rispettare i tempi di consegna e non ricevere multe dall’azienda; e tutte una serie di atrocità che il mondo dell’e-commerce riserva ai lavoratori della gig economy. L’assenza da casa e l’alienazione dovuta al lavoro usurante per lui e per la compagna che, senza macchina, deve spostarsi da un punto all’altro della città per assistere i suoi pazienti, spezza l’unità familiare che attraverserà numerose crisi e si ricompatterà solo nel momento di massima disperazione.

‘Sorry we missed you’, parzialmente ispirato alla storia di Don Iane, un corriere morto nel 2018 a causa dei ritmi ottocenteschi di lavoro che non gli consentivano di controllare il suo diabete, offre ai giovani l’opportunità, tragica senza dubbio, di scoprire cosa li aspetterà non appena terminato il percorso di studi e di riflettere su tutte quelle nuove caratteristiche che ha assunto il mondo del lavoro nell’era della gig economy (l’autonomia, la flessibilità, la mobilità, ecc…). Queste novità vengono presentate nelle aule scolastiche e universitarie come elementi di innovazione: in realtà sappiamo bene che dietro la “gig economy culture” e il suo lessico ingannevole, si celano nient’altro che nuovi strumenti nelle mani del capitale per perpetrare le stesse dinamiche di sfruttamento di sempre.

La presunta “autonomia” non è altro che un escamotage per le imprese per scaricare sul lavoratore i costi d’assunzione, formazione ed assicurazione. Essere “padroni di sé stessi” sotto il capitalismo vuol dire affrontare autonomamente, si intenda a proprie spese, i problemi che possono venir fuori dall’attività lavorativa (infortuni, rottura di macchinari, ritardi, assenze) producendo, allo stesso modo che nel lavoro dipendente,  ricchezza per un padrone che in questo modo guadagna il doppio. Un parallelismo perfettamente calzante può essere fatto con le decine di migliaia di riders che da lavoratori autonomi hanno garantito margini di profitto per miliardi di euro alle multinazionali del delivery. Esattamente come Ricky e i suoi colleghi, sempre da “lavoratori autonomi”, hanno reso prima nel settore delle consegne nel Regno Unito l’impresa per cui di fatto lavorano.

Il film, in un drammatico realismo tipico delle produzioni di Ken Loach, evidenzia anche tutte le ripercussioni che il lavoro usurante ha nella vita privata. I rapporti familiari ridotti all’osso e resi naturalmente tesi dal nervosismo causato da una vita di sacrifici e privazioni, l’emarginazione e l’abbandono in cui inevitabilmente finiscono i figli che non vedono praticamente mai i genitori durante il giorno, l’abbrutimento dei rapporti umani e l’alienazione da qualsivoglia contesto di socialità. Il regista non inserisce nel film un’alternativa né fa emergere speranze di cambiamento, il finale sotto questo punto di vista è abbastanza eloquente. La vita che ci garantisce il progresso capitalista è questa e con un tono di pessimismo il regista sembra dirci che non esistono vie d’uscita. La schiavitù del lavoro salariato, dei debiti per la casa e per la macchina, l’avvilimento fisico e morale è l’unica prospettiva possibile in questo sistema.

L’alternativa esiste? Sì, ma va ricercata al di fuori della società di mercato. Non esiste alcuna speranza di liberazione in una società in cui poche decine di persone posseggono gran parte delle ricchezze del nostro pianeta, garantite dal lavoro di miliardi di individui che non ne beneficeranno mai. Lo schema mentale per il quale “è così che funziona, e non c’è nulla che si possa fare” è ad oggi il più grande ostacolo  che impedisce ai lavoratori di tutto il mondo di prendere coscienza del loro ruolo all’interno della società e spezzare le catene dello sfruttamento. Qualcuno diceva che il progresso non serve a costruire belle fabbriche, ma a creare belle persone; attualizzando si potrebbe affermare che il progresso non serve a creare nuove forme di sfruttamento, magari celate sotto il falso mito dell’innovazione, ma a liberare l’uomo dalla schiavitù. Bisogna lavorare in questa direzione.

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