di Antonio Martinetti
La crisi climatica c’è, è un dato di fatto a livello scientifico. Come l’uomo risponda di fronte ad essa invece non è qualcosa di ovvio, o meglio: dipende da cosa viene considerato importante. Se nella società vige un sistema economico e politico dove chi tiene le redini del potere – chi veramente può muovere le forze di un paese verso l’ecosostenibilità – vede la questione ambientale come qualcosa di subordinato, di secondario rispetto a ciò che per lui veramente conta, una soluzione non verrà raggiunta mai. Per capire cosa si intende concretamente, basta dare un occhio a come il sistema economico mondiale, di carattere capitalista, ha reagito alla emergenza climatica: non trovando un modo per eliminare il problema alla radice, ma scervellandosi per sfruttare la crisi e creare una nuova occasione di profitto, privatizzando ciò che ancora non era diventato una merce. Questa tendenza si può osservare anche in alcuni sviluppi recenti del sistema assicurativo.
Con lo svilupparsi di un’economia caratterizzata da beni il cui valore è ingente – si pensi ai macchinari da milioni di euro presenti in certe aziende –, il mondo delle assicurazioni ha avuto una crescita sempre maggiore, in quanto si è rivelato troppo rischioso perdere certi beni senza avere un salvagente economico. Inizialmente, secoli fa, esisteva solamente la semplice figura dell’assicuratore, a cui si versava una somma periodica per tutelarsi dalla possibile perdita di una merce (se compravo una nave e la assicuravo, nel caso quella nave fosse affondata, l’assicuratore mi avrebbe dato una quota del valore della merce che io avevo perso). Dal XIX secolo, tuttavia, con alcuni disastri di ingente portata (come l’incendio di alcune città, quale ad esempio Amburgo nel 1842), alcune agenzie assicurative fallirono: non riuscirono a pagare tutti i clienti. Nacquero così i riassicuratori: società talmente ricche da permettersi di assicurare gli assicuratori: se una agenzia assicurativa falliva, il riassicuratore la salvava e indirettamente pagava i clienti che aspettavano il risarcimento.
Nella seconda metà del Novecento le cose si fecero ancora più complicate, e la causa furono proprio i cataclismi ambientali, i cui danni ai beni assicurati furono enormi. Uragano Katrina: 75 miliardi di danni a beni assicurati (se contassimo anche i beni non assicurati, spesso in mano ai ceti popolari, arriveremmo a 150 miliardi di dollari); tsunami in Giappone nel 2011: 35 miliardi di danni a beni assicurati; uragano Andrews in Florida nel 1992: 25 miliardi di danni a beni assicurati. Giusto per fare un paragone, l’attentato alle Torri Gemelle costò “solamente” 24 miliardi al mondo assicurativo. Costi di tal genere sono tali che nemmeno i riassicuratori riescono a reggere. Il sistema capitalista non è tuttavia rimasto fermo, e di fronte al problema ambientale si è chiesto: come far funzionare ancora il sistema delle assicurazioni? Semplice: coinvolgendo quel mondo dove circolano quantità esorbitanti di denaro, cioè l’economia finanziaria. Si calcolò nel 2014 che in essa, a livello mondiale, circolassero 60 trilioni di dollari. Sfruttare parte di questa somma per ripartire i rischi ambientali è sembrata la soluzione migliore.[1]
Per fare uno solo dei vari esempi di come l’economia finanziaria è stata utilizzata, si veda il sistema dei cat bond, diminutivo di catastrophe bond, cioè obbligazioni catastrofe. Tali obbligazioni sono titoli di credito o parti di debito scambiabili su un mercato finanziario e oggetto di quotazioni. Esse, emettibili da un ente pubblico o da una realtà privata, sono titoli utili a ripartire i rischi per possibili future catastrofi. Più precisamente: relativamente ad una determinata zona geografica, viene valutata la probabilità di rischio che in futuro avvengano determinati disastri naturali. Sulla base dei dati, un certo ente rilascia i cat bond legati a quella zona e li immette nel mercato dei titoli. Il fluttuare del valore delle obbligazioni dipende da vari fattori, tra cui in primis la probabilità di avvenimento del disastro naturale. Se entro la data di scadenza dell’obbligazione (in media tre anni) nessun disastro avviene in zona, l’investitore che ha comprato il titolo riottiene i suoi soldi più una percentuale di guadagno. Se avviene un evento catastrofico (il quale rientra in certi parametri stabiliti), allora i soldi degli investitori sono utilizzati per sanare i danni.
Fino a qui, sembrerebbe la favoletta a lieto fine del capitalismo che riesce a interessarsi dell’ambiente, integrando profitto e tutela della natura e dell’uomo, anzi direzionando miliardi di dollari verso la causa ambientale (o almeno il risanamento dei siti colpiti). Nulla di più falso: in questo caso, l’unica vera cosa presente è l’interesse per il profitto, che subordina qualsiasi altra cosa. Tolta l’apparenza ingannevole, il sistema dei cat bond è sempre e comunque una parte del mercato finanziario, dove prevale su tutto l’interesse dell’investitore, che vuole avere un guadagno.
Innanzitutto, è evidente l’assurdità di come i soldi non siano direzionati a prevenire e mettere in sicurezza le zone a rischio di catastrofe, ma si propenda anzi per un vero e proprio gioco d’azzardo, dove l’investitore punta soldi sperando che il disastro non avvenga. Se dunque uno Stato ha maggiore probabilità di eventi catastrofici, il risultato è che la sua assicurazione in caso gli costerà ancora di più (dovrà promettere più interessi per attirare investitori di fronte al rischio di perdere l’investimento) o si potrebbe anche verificare il caso limite, se l’avvenimento di un disastro è cosa certa, che nessuno voglia investirci, prevedendo di perdere soldi. In secondo luogo, questo sistema assicura solo relativamente ad alcuni disastri naturali, come un sisma o un uragano, mentre altri li ignora, in quanto difficilmente calcolabili a livello dei danni causabili o della loro collocazione spaziale e temporale: esempi sono l’innalzamento del livello dei mari e la desertificazione. Ci si interessa dunque di ciò che è investibile nel mercato assicurativo e non di salvare il pianeta da certe criticità. In ultimo, per sintetizzare, il sistema assicurativo farà di tutto per sostenere sempre i propri investitori, che sono il fulcro dell’economia finanziaria, ciò che veramente conta. Si veda il seguente esempio.
Quando il Messico nel 2006 si basò sul sistema finanziario per vendere un pacchetto di cat bond inerenti a più disastri naturali, si trovò poi in situazioni alquanto imbarazzanti: nel 2010 un sisma colpì lo Stato della Baja California, con danni notevoli per le città di Calexico e Mexicali, ma l’epicentro del sisma era leggermente fuori dalla zona assicurata. Risultato? Per l’agenzia assicurativa i danni non erano coperti. Sempre lo stesso anno, un uragano colpì lo Stato di Tamaulipas, ma la potenza era inferiore ad una soglia prestabilita. Risultato? Lo Stato pagò da solo i danni. E, oltre al danno, la beffa: dovette anche pagare gli interessi agli investitori, una volta che le obbligazioni catastrofe non usate (sic!) dovettero essere restituite con gli interessi. Non mancarono poi neppure i casi in cui la scienza venne piegata agli interessi degli investitori: nel 1999, vi furono lunghe trattative in Francia, tra assicuratori e assicurati, per stabilire se gli uragani Lothar e Martin che avevano colpito il paese fossero due o solo uno. La differenza equivaleva a pagare gli indennizzi due volte o una sola volta. Lascio ai lettori immaginare cosa sostenevano le agenzie di assicurazione.
Verrebbe allora da chiedersi: perché non ci pensa lo Stato e il pubblico a gestire la crisi ambientale? La risposta è sia semplice che, ormai, diventata ovvia: perché viviamo in un sistema capitalista. Viviamo in un regime economico basato sull’imperativo della privatizzazione, dell’esautoramento di qualsiasi realtà che sia pubblica o in mano ai lavoratori, nel trasferimento delle ricchezze e del potere decisionale in poche mani. Col risultato che le popolazioni sono inermi e indifese, gli Stati hanno le proprie casse sempre più svuotate e gli unici che avrebbero le risorse economiche necessarie per agire pensano solo al profitto. L’economia finanziaria, fiore all’occhiello del capitalismo attuale, dimostra come, finché sussiste un sistema del genere, la risposta a qualsiasi problema non è direzionata a risolvere quel problema, ma a come trovare un nuovo sbocco per il profitto di pochi a discapito dei molti. Quello stesso sistema che favorisce il taglio dei diritti sociali e dei lavoratori, che preferisce l’autoritarismo al potere popolare, è la causa principale della crisi ambientale: credere che da esso derivi la soluzione per risolvere l’emergenza climatica è pura utopia. Finché la logica che muove la società nei suoi differenti ambiti è l’interesse dei padroni per i loro guadagni, non c’è soluzione. L’unica vera soluzione è il controllo collettivo, da parte della popolazione, della società nei suoi vari lati (economico, politico, militare, ecc.) che permetta di porre il benessere collettivo e la salvaguardia ambientale sopra ogni altra cosa.[2]
[1] Su questi dati, ma anche successivamente per il sistema dei cat bond, si veda La natura è un campo di battaglia di Razmig Keucheyan, Ombre corte, Verona 2019.
[2] Si veda, per approfondire, Inquinamento e movimento ambientalista. La lotta per il pianeta è contro il capitale di Paolo Spena, pubblicato su Senza Tregua il 14/12/19.