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Un ragazzo di 15 anni è stato ucciso. Non lasciamo che il moralismo di destra prevalga

* di Paolo Spena (segreteria nazionale FGC) e Giorgio Di Fusco (segretario FGC Napoli)

Un ragazzo di quindici anni è stato ucciso da un carabiniere fuori servizio durante un tentativo di rapina con un’arma finta. Sono in corso le indagini per appurare le circostanze e la dinamica dei fatti, che sono essenziali per comprendere cosa è accaduto realmente e la configurazione giuridica di questo fatto. Ma la giuria popolare dei social network ha già emesso la sua sentenza, in un paese in cui il moralismo di destra e il tema della “sicurezza” sono ormai egemoni, anche perché privi di un reale contrasto.

Il primo indizio è che questa vicenda è forse una delle pochissime notizie ad essersi imposta nel dibattito nazionale di questi giorni nonostante il coronavirus. Nella miseria di una politica che è sempre più limitata alla ricerca del consenso quotidiano, con gli esponenti dei partiti che si riducono a meri commentatori della realtà, l’intera questione è stata come sempre ricondotta su toni degni di opinionisti di un talk show. Una dinamica che ricorda le discussioni sull’omicidio di Davide Bifolco, diciassettenne del Rione Traiano ucciso in motorino da un carabiniere per non essersi fermato all’alt. A distanza di giorni, gran parte del dibattito non va oltre la questione se il carabiniere abbia fatto bene o no a sparare. E sarebbe una forzatura persino affermare che l’opinione pubblica si è “divisa” su questo, perché in realtà è chiaro che la stragrande maggioranza delle persone dinanzi a questa domanda secca risponde semplicemente “sì”.  Ma è sufficiente porre la questione in questo modo, chiedendosi se abbia sbagliato di più il ragazzo ormai morto, l’uomo che ha sparato o i genitori del giovane per la loro reazione in pronto soccorso dopo il decesso? Sorprendentemente, anche a sinistra in tanti sembrano accontentarsi di questo, quando invece da dire ci sarebbe tanto.

È un dato oggettivo e unanimemente riconosciuto – dall’“università della strada” fino ai sociologi di Harvard – che esiste una correlazione fra povertà, disagio sociale, insicurezza e la presenza di fenomeni di criminalità, organizzata e non. L’assenza di lavoro e diritti sociali, di garanzie, di prospettive crea ovunque il terreno fertile per la criminalità e la microcriminalità. Un dato che sembra ovvio eppure non lo è, visto che – per dirne una – c’è chi vorrebbe raccontare che la maggiore percentuale di reati commessi da immigrati deriva da fattori di carattere etnico e razziale, e non invece proprio da questa condizione materiale. Questa considerazione basta da sé a spiegare i maggiori tassi di criminalità nelle periferie delle grandi città rispetto alle zone agiate. Vale per i quartieri di Napoli così come per le periferie di tutte le città italiane; per gli (ex?) ghetti afroamericani negli Stati Uniti, le banlieue francesi, le favelas brasiliane, gli slums indiani e di Nairobi, e la lista potrebbe continuare.

Eppure proprio nel dibattito di questi giorni si dimentica troppo spesso che il contesto in cui un ragazzino di 15 anni finisce a fare rapine per strada è una realtà fatta di assenza di prospettive, che ai giovani già senza futuro lascia l’impossibilità di accedere allo sport, alla cultura, all’intrattenimento senza barriere di classe.

Il contesto spiega, ma non giustifica. Vero, e infatti a nessuno viene in mente di presentare questo dato come una giustificazione sul piano “morale” di chi fa le rapine in strada, o di chi finisce nella manovalanza delle organizzazioni criminali. Spesso l’obiezione di chi risponde “ma davvero vuoi giustificarlo?” viene accompagnata dalla seguente: esistono persone che provengono da quartieri malfamati che “si alzano presto per andare a lavorare” o emigrano in cerca di un’alternativa piuttosto che diventare criminali. Certamente, ma non è affatto una scoperta. Sta nella stessa definizione di “tasso di criminalità”, e in generale nel concetto matematico di “tasso”: una percentuale sul totale. Al di là di ogni considerazione ideale e moralista, esistono poi condizioni oggettive in cui questa percentuale è più alta. Vale per la criminalità così come per la dipendenza da droghe, l’alcoolismo, la ludopatia, lo sfruttamento della prostituzione etc.

La diversità dei comunisti dovrebbe essere proprio quella di mettere sempre al primo posto la comprensione di un fenomeno sociale. Oggi invece anche a sinistra, sempre più spesso, a questa necessità viene sostituita l’idea di dare un giudizio sul piano puramente morale se non direttamente legalitario, assimilando del tutto la concezione moralistica del mondo propria della destra reazionaria che si limita a giudicare il piccolo criminale sulla base del precetto morale che fare le rapine è sbagliato, senza la capacità di avere una visione d’insieme.

Il caso specifico di Napoli è complesso, e starà alle indagini e alle perizie fare chiarezza sulla dinamica dei fatti, nella speranza che non si finisca in casi di inquinamento delle prove o perizie balistiche alquanto opinabili. Certo se dovesse essere confermato che il carabiniere in borghese ha sparato il secondo colpo alla testa quando il 15enne se ne stava andando, già ferito dallo sparo precedente al torace, sarebbe molto difficile parlare ancora di legittima difesa e dare torto al PM che ha indagato il carabiniere per omicidio volontario. Ma più di questo sarebbe opportuno riflettere su ciò che produce la retorica di destra che in nome del “non esiste l’eccesso di legittima difesa” finisce di fatto per legittimare il far west.

Lo diciamo chiaro e senza giri di parole: se le indagini dimostreranno che il carabiniere ha sparato al ragazzo quando stava già fuggendo questa cosa si chiama omicidio volontario. La legittima difesa pone in relazione due beni equivalenti: la vita con la vita. È un ultimo residuo di autotutela che l’ordinamento concede giustamente a chi vede la propria vita o quella altrui minacciata, consentendo di esercitare un’estrema difesa per salvarla. Non una “giustizia privata”. L’eccesso di difesa si verifica quando, su questa base di legittimità della difesa personale, si eccede per quantità e modalità nella difesa.

Ritenere che sia giusto sparare per ripicca, o senza una minaccia attuale per la propria vita o incolumità, o per difendere semplicemente un orologio, o qualsiasi altro bene materiale significa ammettere che la un bene materiale ha un valore superiore o equivalente a quello della vita di un ragazzo. Chi agisce in questo modo uccide volontariamente; chi lo giustifica fa propria una logica reazionaria che mette la proprietà privata sopra tutto. Chi accetta questo modo di pensare come normale e naturale si abitua alla barbarie e al sopruso.

La riflessione infatti va oltre il singolo caso. Dobbiamo essere in grado di riconoscere la pervasività della retorica securitaria che viene propagandata a reti unificate ogni volta che accade un fatto di questo genere e che finisce per attecchire anche in quei settori popolari contro i quali è rivolta. Cosa succede quando nella società intera, e persino a sinistra, la comprensione di un fenomeno sociale e la contestualizzazione degli episodi di criminalità cedono il passo al giudizio moralistico secondo cui un quindicenne che cerca di rubare un orologio di lusso e finisce ucciso a colpi di pistola in fondo “se l’è cercata”? Succede che questo tipo di retorica prepara il terreno per l’accettazione di misure che incrementano la possibilità di repressione e la discrezionalità delle forze dell’ordine in nome della “sicurezza”. Proprio in merito alla discrezionalità, basti pensare che a Napoli il carabiniere aveva con sé una pistola nonostante non fosse in servizio, proprio grazie a una norma voluta da Minniti in nome della lotta al terrorismo. Di fronte alla forza di questa retorica, che si è fatta strada anche nel campo della sinistra e persino in area comunista, è necessario alzare l’allerta dal punto di vista della battaglia ideologica e sarebbe sbagliato pensare a priori che esistano settori immuni.

I comunisti, tra l’altro, dovrebbero conoscere bene dove porta la retorica che invoca sicurezza e repressione. L’emblema di questa politica, così come della “legittima difesa” spinta al limite della giustizia privata, è rappresentato a livello globale proprio dagli Stati Uniti, e i risultati sono evidenti agli occhi del mondo intero. Gli USA hanno meno del 5% della popolazione mondiale, eppure hanno il 25% della popolazione mondiale carceraria: un carcerato su 4 nel mondo è statunitense. In un paese in cui i diritti sociali dei lavoratori vengono calpestati, le scuole pubbliche sono ridotte a pollai fatiscenti destinati ai figli di chi non può pagare un istituto privato e la sanità pubblica è inesistente, il disagio sociale generato dalla barbarie del capitalismo viene gestito come un problema di ordine pubblico a suon di manganello e carcere. Per non parlare dell’ampia discrezionalità di cui godono i poliziotti e del “grilletto facile” quando il criminale è afroamericano.

Non bisogna dimenticare che quando in nome della sicurezza viene preparato il terreno per l’accettazione di misure che incrementano la discrezionalità delle forze dell’ordine e la repressione, a pagarne le spese sono anche e soprattutto i lavoratori che alzano la testa e lottano per i propri diritti.

In questo senso, il problema per i comunisti non può ridursi nel commentare gli episodi di cronaca. Chi agisce semplicemente sul piano del commento moralista finirà per contestare la sinistra assumendo le parole d’ordine della destra, e non l’ottica della lotta di classe. Se si vuole agire concretamente in quest’ultimo campo invece, l’avanzata di certe visioni all’interno della società è un elemento con cui bisogna fare i conti e al quale bisogna essere capaci di contrapporre la nostra visione del mondo, e non fare propria quella del campo nemico. Sotto qualsiasi colore si presenti.

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