di Paolo Spena (segreteria nazionale FGC)
Essere comunisti oggi significa, come lo significava già decenni fa, doversi confrontare con l’impatto che la figura di Stalin ha nell’opinione pubblica. È indubbiamente l’elemento più immediato, che nell’immaginario collettivo è legato all’intera impalcatura della narrazione anticomunista che oggi si impone come verità unica. L’intera narrazione ideologica sul “totalitarismo”, categoria dal discutibile valore scientifico e figlia della produzione accademica statunitense degli anni della Guerra Fredda, si fonda sul parallelismo tra la figura di Stalin e quella di Hitler, dispositivo necessario per raggiungere l’obiettivo ultimo delle classi dominanti: l’equiparazione tra il comunismo e il nazismo, che a suo volta rappresenta la base di ogni tentativo di criminalizzazione dei comunisti. Oggi non a caso questa narrazione da Guerra Fredda diviene dottrina ufficiale dell’Unione Europea, e finisce al contempo per fare da sponda alla persecuzione contro i comunisti nei paesi dell’Est Europa.
A questo si somma l’utilizzo che negli anni, a sinistra, è stato fatto di questa polemica da parte della socialdemocrazia e degli opportunisti, da quei settori che sostenendo la necessità di abbandonare il marxismo e con esso ogni parvenza di politica rivoluzionaria e di lotta di classe, facevano propria una battaglia contro lo “stalinismo” spesso indistinguibile da quella del campo avversario. Lo stesso smantellamento dei sistemi socialisti nell’Europa dell’Est è stato accompagnato proprio da parole d’ordine simili a queste. Durante la perestrojka fu Gorbaciov a riesumare la vecchia polemica kruscioviana contro lo “stalinismo”, che già negli anni ’60 aveva accompagnato le riforme economiche che reintroducevano elementi di capitalismo nell’economia sovietica.
Proprio per la rilevanza che questo tema ha sempre avuto resta fondamentale sviluppare una riflessione in merito e saper inquadrare correttamente la questione, anche e soprattutto sul piano del metodo.
Alcuni elementi sul dibattito nel movimento comunista
Negli ultimi anni una parte importante del movimento comunista a livello internazionale ha intrapreso un percorso di grande maturazione politica e ideologica, dopo gli anni seguiti alla crisi dell’89-91, che ha portato molti partiti ad adottare un programma politico apertamente rivoluzionario e a rompere con la stagione dell’opportunismo. Un prodotto di questo avanzamento, che è avvenuto anche sul terreno del bilancio critico della storia del socialismo e del movimento operaio, è stata la nascita dell’Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa (ICWPE), i cui partiti membri oggi portano avanti uno sforzo per rafforzare lo scambio, la discussione comune e il coordinamento dell’azione fra i comunisti di tutti i paesi. Sarebbe però sbagliato e riduttivo pensare che l’essenza di questo processo di maturazione, che avviene a livello internazionale tra i partiti che hanno fatto propria una linea rivoluzionaria e marxista-leninista, stia semplicemente nel “recupero” della figura di Stalin. Questa è al contrario proprio la ricostruzione caricaturale che vorrebbero fare i peggiori settori dell’opportunismo. Quello che sta avvenendo è piuttosto un processo di riaffermazione della matrice marxista-leninista nel movimento comunista, che oggi si pone il problema di come costruire una nuova avanzata del movimento operaio nel XXI secolo, e che nel fare questo si interroga sulla strada da percorrere, sui nuovi problemi che il mondo di oggi ci mette dinanzi, e al contempo si pone seriamente la questione di un bilancio della storia del movimento comunista, del socialismo in Urss e nei paesi dell’Est, delle ragioni della controrivoluzione e della degenerazione riformistica di numerosi partiti nati dalla Terza Internazionale. Oggetto delle riflessioni in atto nei settori più avanzati del movimento comunista internazionale sono, ad esempio, l’analisi dell’imperialismo e l’attualità dell’analisi leninista contro l’affermarsi di tendenze che di fatto finiscono per negarla; un giudizio critico sulle “vie nazionali al socialismo” e sull’idea delle “tappe” intermedie nella lotta per il socialismo, un bilancio dell’esperienza dei fronti popolari e della svolta impressa ai partiti operai con quella strategia, etc.
Il giudizio su Stalin e sull’esperienza del socialismo reale, che spesso ha fatto da spartiacque tra i comunisti e l’opportunismo, è parte integrante di questa maturazione, sebbene come detto non la esaurisca. Non si tratta tanto di chiedersi se Stalin faccia parte o no dei “grandi maestri”. La questione è ben altra rispetto al simbolismo e al culto para-religioso di immagini e citazioni, perché questo è un modo idealistico e dogmatico di intendere la questione che sta all’esatto opposto del marxismo e della dialettica. Alla nuova generazione di comunisti non deve interessare il feticcio di Stalin, bisogna piuttosto trarre lezione dal suo pensiero. Tutto il lavoro teorico-organizzativo di Stalin è prezioso proprio perché offre lucidissime analisi di queste stesse deviazioni idealistiche e borghesi che intendono adorare la figura del dirigente spogliandolo dal suo significato politico e rivoluzionario. Il nostro compito deve fondarsi quindi sulla riconquista della capacità dei comunisti di analizzare e tracciare un bilancio critico della propria storia e delle sue contraddizioni, sgombrando il campo dall’influenza dell’ideologia borghese.
A chiusura di queste considerazioni vale la pena riportare per intero un passaggio dall’intervento di Kemal Okuyan, segretario del Partito Comunista di Turchia (TKP), all’ultimo European Communist Meeting del dicembre 2019, che inquadra correttamente l’approccio che i comunisti dovrebbero avere: «Dobbiamo stare attenti ed evitare, dal nostro lato, gli atteggiamenti che faciliterebbero i tentativi di demonizzare il movimento comunista. Cosa intendo? Che il movimento comunista dovrebbe evitare di dare di sé un’immagine maldestra, nostalgica e obsoleta. Dovremmo lavorare sugli elementi che sono utilizzati dagli anticomunisti per caricaturizzare le organizzazioni comuniste, e dirci che siamo irrilevanti. Questo non deve necessariamente significare diventare sleali ai nostri principi e alle nostre tradizioni. Al contrario, il movimento comunista può essere moderno, contemporaneo e fermamente rivoluzionario allo stesso tempo. E in realtà, se i nostri partiti non riescono a raggiungere questo, non saremo capaci di discutere con la classe operaia di oggi e a trasformarla in senso radicale. Compagni, la “trappola Stalin” dovrebbe essere studiata con cautela. Condannare Stalin, per qualsiasi ragione, è anticomunismo. Stalin non era una figura infallibile, ma indietreggiare nel rispondere alle critiche contro Stalin rafforza l’anticomunismo. Nelle discussioni su Stalin non dovremmo mai arrenderci, e tuttavia, dovremmo essere coscienti che un “feticcio di Stalin” fa il più grande danno all’eredità di questo geniale rivoluzionario stesso. La dialettica della lotta attorno al compagno Stalin dovrebbe essere ben calcolata». Considerazioni che condividiamo, frutto dell’elaborazione di uno dei partiti più ideologicamente maturi del continente.
La demonizzazione e la funzione storica del “mito negativo”
L’impatto del mito negativo costruito su Stalin, tanto sulla società e sulla classe operaia in generale quanto su coloro che dovrebbero esserne gli elementi più avanzati, è stato ben descritto da Cristiano Armati nella postfazione a quella che – non vorremmo sbagliarci – è la più recente raccolta di scritti di Stalin pubblicata in lingua italiana, col titolo di “Il libro rosso di Stalin” (Red Star Press, 2014). Un compagno che chiarisce subito di non venire dal marxismo-leninismo, e forse anche per questo è degna di nota la sua critica a quello che definisce «il diffuso atteggiamento di moltissimi che, pur collocandosi in un campo genericamente di sinistra, scuotono perennemente la testa in tutte le occasioni in cui […] un movimento sembra indicare possibili strade al cambiamento dell’esistente. Che fare? Questo particolare genere di “sinistri” lo sa benissimo. Se soffia il vento di rivolta, il loro compito è quello di scuotere la testa. Dotti come sono, citano il “complesso di Saturno” e, ricorrendo all’immagine mitologica del padre che divora i figli, teorizzano come inevitabile il destino di ogni rivoluzione: quello di essere tradita dall’istituzionalizzazione della stessa avanguardia rivoluzionaria senz’altro, “come Stalin”, sempre, irrimediabilmente pronta a varare grandi purghe contro potenziali rivali nella corsa al potere e, per scrupolo, anche a imporre al popolo misure degne del peggior stato di polizia. Risultato di questo diffuso modo di ragionare? Meglio non fare mai nulla».
Il punto di arrivo del mito negativo su Stalin e sul socialismo, il suo impatto sulle nuove generazioni così come sulle vecchie, è proprio l’idea che ogni tentativo di trasformazione rivoluzionaria della società sia destinato a finire con una sconfitta, o per costruire una società peggiore di quella contro cui si combatteva. È un messaggio oggi onnipresente, che permea persino opere letterarie e cinematografiche. Per citare un esempio recente e familiare a molti, l’intera trama della trilogia distopica per ragazzi degli Hunger Games, di Suzanne Collins, da cui sono stati tratti quattro film, si basa sull’idea che anche i rivoluzionari finiscono per tradire il popolo dopo aver preso il potere.
Perché questa operazione ideologica, che di per sé ha come bersaglio tutto il movimento operaio e rivoluzionario, si è focalizzata sulla figura di Stalin? Le ragioni sono essenzialmente storiche e risalgono ai tempi in cui questo attacco è avvenuto e al prestigio unanimemente riconosciuto di cui godeva prima del 1956, tanto nel mondo operaio e socialista quanto più in generale da parte dell’intera politica mondiale dopo il 1945. All’URSS di Stalin guardavano i lavoratori di tutto il mondo come a un faro di speranza, la possibilità concreta che conquistare il potere e liberarsi dei padroni era possibile. I popoli oppressi vedevano nell’URSS un prezioso alleato nella lotta anticoloniale. In Italia le numerose pubblicazioni clandestine del PCI, da “l’Unità” a “Stato Operaio”, contenevano articoli e report sulle conquiste dei lavoratori nell’URSS. Nell’Italia occupata dai nazisti, una delle prime azioni della resistenza partigiana nella capitale fu tappezzare i muri di scritte e manifesti “Viva l’Urss”, “viva Stalin”. Ancora, un aneddoto diffuso vuole che i partigiani delle Brigate Garibaldi catturati dai fascisti e messi alla forca, saltassero per primi dallo sgabello urlando proprio “viva Stalin”. Un prestigio accresciutosi enormemente nel dopoguerra, quando anche i non comunisti si trovarono ad omaggiare una figura che veniva riconosciuta come l’artefice principale della sconfitta del nazismo, e che ebbe un ruolo non secondario nell’adesione di decine di migliaia di lavoratori al comunismo negli anni ’40-50.
In un momento storico in cui l’avanzata del movimento comunista e del campo socialista minacciava concretamente e in misura sempre maggiore gli interessi del capitale, ogni attacco politico e ideologico al comunismo non poteva non fare i conti con la figura di Stalin e adottarla come bersaglio. E questo è quello che avvenne, anche all’interno dell’Urss. Ma come molti già allora denunciarono, si attaccava Stalin per attaccare Lenin, e con loro tutto il sistema socialista e la legittimità di quelle esperienze rivoluzionarie. Quando questo divenne chiaro, era ormai tardi. L’operazione ideologica è proseguita, e a distanza di decenni una figura che nell’immaginario collettivo veniva considerata il simbolo della sconfitta di Hitler oggi è considerata addirittura peggio di quest’ultimo. L’impatto che questa distorsione ha sulle classi popolari, in termini di rassegnazione dinanzi all’esistenza e all’idea che nessun cambiamento reale sia possibile, è un elemento con cui quotidianamente dobbiamo fare i conti.
Come combattere la falsificazione, alcune questioni di metodo
Il dato ormai incontrovertibile che vede coincidere l’attacco alla figura di Stalin con l’attacco al socialismo nel suo complesso ci aiuta però a comprendere qual è il punto fondamentale da affrontare e in che direzione deve andare chi voglia contestare la faziosità di questa narrazione. Ogni “difesa di Stalin” che venga posta in questi termini, nella forma della “controstoria” e della battaglia a colpi di numeri e fonti, è certo utile ma lascia il tempo che trova se non si procede innanzitutto a un inquadramento generale della vicenda storica in questione.
Per capire cosa intendiamo basti pensare a come oggi si studia la storia della Rivoluzione francese. Una vicenda storica di enorme violenza, con 2,5 milioni di morti in un’Europa che aveva 200 milioni di abitanti, che dal 1789 alla sconfitta di Napoleone nel 1815 sconvolge il volto della Francia e dell’Europa intera. Eppure non ci si fa problemi a riconoscere pacificamente che i rivoluzionari di Francia erano in quel momento dalla parte giusta della storia. Non esiste, o quantomeno non esiste oggi, un mito negativo su Robespierre o su chicchessia che sia paragonabile a quello di Stalin, né sulle vittime che vi furono durante quegli avvenimenti storici. Tutto questo invece esiste per la Rivoluzione d’Ottobre e l’Urss, ed esiste esattamente perché quella rivoluzione e le sue idee minacciarono concretamente il potere del capitale, cioè il potere che tutt’oggi caratterizza la nostra epoca.
Un’osservazione del genere è utile a comprendere che, innanzitutto, bisogna sgombrare il campo dall’idea che possa esistere una lettura storica univoca e oggettiva. O meglio, e questa distinzione è centrale, esiste e deve esistere una sola verità nel momento in cui ci si riferisce ai fatti storici. Il numero stimato di vittime in una guerra civile può essere attendibile entro una certa forbice o viceversa totalmente inattendibile, e sulla definizione dei fatti è bene che avvenga il dibattito tra gli storici e che si basi sulle fonti. Su questo terreno deve avvenire la battaglia contro il revisionismo storico e il tentativo di distorcere la storia a uso e consumo di una certa narrazione dominante. Detto ciò è bene avere chiaro da subito che sulla lettura di determinati fatti è difficile pretendere che possa esistere una visione univoca. Del resto, è difficile credere che i nobili che all’inizio del 1800 avevano fretta di rimettersi le parrucche in testa potessero condividere con i sanculotti un giudizio sulle violenze della rivoluzione francese.
Per quel che riguarda la Rivoluzione d’Ottobre e la storia dell’URSS nei decenni immediatamente successivi ad essa, i comunisti partono proprio da questo principio, dall’inquadrare la vicenda storica dal punto di vista della lotta del proletariato. Ecco allora che bisogna avere chiaro che la questione di Stalin per i comunisti non si esaurisce nel contrastare la falsificazione storica che oggi viene costruita sull’Holodomor, sugli esiti della collettivizzazione, sullo scontro che avviene nel partito bolscevico, ecc. Tutto questo va inserito nel quadro di una lettura complessiva di cosa è stata la costruzione del socialismo e di cosa è avvenuto nel contesto di quel processo. Quello che manca anche negli studi storici, ad esempio, è una lettura che inquadri la vicenda della collettivizzazione e dello scontro con i kulaki (che poi la propaganda di guerra nazista durante l’occupazione militare del ’41 ha abilmente trasformato nel mito dell’Holodomor oggi ripreso per intero dalla storiografia borghese) come la conferma della tesi della continuazione della lotta di classe nel socialismo. Nel famoso libro “Stalin. Storia e critica di una leggenda nera”, sebbene scritto con altra impostazione e intenti rispetto a quelli che enunciamo qui, Losurdo sembra in parte avvicinarsi a questo principio e pone la questione in questi termini: nella Russia rivoluzionaria e in Urss c’è stata non una, ma tre guerre civili. La prima è quella che segue alla presa del potere e vede l’Armata Rossa difendere il paese dall’invasione degli eserciti capitalisti e far avanzare la rivoluzione in tutto il paese; la seconda è lo scontro con i proprietari kulaki nelle campagne durante il periodo del primo piano quinquennale, la terza è quella che logora all’interno il gruppo dirigente bolscevico nel periodo delle purghe.
Indipendentemente dal giudizio sulla giustezza di questa impostazione, è già evidente che parlare di uno scontro interno al paese è molto diverso rispetto al “genocidio ucraino ordinato da Stalin” di cui si parla su certi testi. O ancora la questione delle purghe, citata prima, non si può comprendere se non la si legge assieme a ciò che avviene contemporaneamente in Germania con l’ascesa del nazismo, che dall’inizio ebbe l’obiettivo proclamato di distruggere l’Urss, e dunque con il lavoro di infiltrazione svolto dai servizi segreti tedeschi che – oggi è noto – costruirono quinte colonne praticamente in ogni paese europeo in preparazione dell’invasione. Ludo Martens ad esempio insiste molto su questo aspetto e sul dimostrare i legami con questa operazione di chi fu sottoposto a processo; Anna Strong al contrario sembra suggerire che molti degli errori di quel periodo, di cui finirono vittima anche dirigenti validi, furono proprio il frutto di un lavoro di apparati di infiltrazione della Germania nazista.
Abbiamo citato rapidamente e a titolo di esempio alcune singole questioni, che evidentemente non possono essere affrontate qui in forma estesa ma che rendono idea della complessità rispetto ad alcune vicende. Ma quello che ci preme di più sottolineare è una questione di fondo. Il periodo della dirigenza di Stalin nell’Urss rivoluzionaria è il periodo del consolidamento del potere politico dei bolscevichi e della costruzione del socialismo nel campo economico, processi che incontrano resistenze, danno luogo a conflitti e anche ad eccessi tipici di una situazione di conflitto e di scontro, che si inquadrano nel contesto della continuazione della lotta di classe nel socialismo. Questa è la principale chiave di lettura da comprendere per procedere verso un giudizio complessivo su quelle vicende storiche.
La “riscoperta” strumentale di Stalin da parte della borghesia russa e di alcuni settori nazionalisti.
Vale la pena in ultimo spendere qualche parola su un fenomeno nuovo, che ha interessato progressivamente la Russia capitalista dopo la controrivoluzione e oggi fa breccia anche in alcuni settori del movimento comunista. È evidente da anni un recupero da parte del governo russo di elementi identitari ed estetici della storia sovietica, costantemente svuotati del loro contenuto rivoluzionario e tuttavia utili per la propaganda di un progetto politico che oggi punta alla riaffermazione del peso della Federazione Russa nella politica internazionale. È chiaro che 70 anni di socialismo, un periodo che ha abbracciato intere generazioni e in cui un paese medioevale ha conosciuto uno sviluppo a ritmi fino ad allora mai visti, non possono essere rimossi facilmente dalla memoria di un popolo, né è possibile riproporre la stessa demonizzazione di quel periodo così come la conosciamo noi e pretendere che le persone la facciano propria pur conoscendone la falsità.
La borghesia russa lo sa bene, e oggi preferisce utilizzare strumentalmente la storia dell’Unione Sovietica, torcendone il significato in chiave unicamente patriottica e nazionalista rendendola a proprio uso e consumo. Questo processo, già visto da tempo per quanto riguarda la “grande guerra patriottica” (così in Russia ci si riferisce da sempre alla seconda guerra mondiale) che oggi viene descritta come una vittoria della nazione russa e non del sistema socialista, non risparmia neanche la figura di Stalin e si spinge all’esaltazione dell’Urss nei termini dell’“impero” sovietico, come glorificazione del periodo in cui la Russia è stata una grande potenza mondiale. La stessa figura di Stalin, che oggi in Russia gode di grande popolarità, viene trasformata nell’incarnazione della politica da grande potenza. A questa operazione, che con lo stesso intento recupera anche il pensiero “geopolitico” del primo ‘900 sull’Eurasia (Mackinder, etc…) si sono prestati purtroppo anche i settori del movimento comunista russo maggiormente legati alla gestione politica della nuova Russia capitalista, e questa impostazione oggi esercita un’influenza anche all’esterno, venendo recepita persino da quel settori nazionalisti che oggi cercano di esercitare un’influenza sul movimento comunista.
Dinanzi a un’operazione del genere, dalla quale già Lenin metteva in guarda nella celebre introduzione al suo “Stato e Rivoluzione”, bisogna avere la capacità di ribadire che la questione centrale dell’importanza storica di Stalin sta proprio nel fatto di essere stato un dirigente rivoluzionario e comunista, un dirigente della classe operaia nel periodo storico della costruzione dei rapporti di produzione socialisti. Ogni apologia che sottolinei esclusivamente il ruolo avuto nella sconfitta del nazismo e i risultati militari dell’Urss (la bomba atomica, ecc), dimenticando invece l’elemento fondamentale, rischia di essere un enorme regalo a settori del campo borghese piuttosto che una difesa di principio di un dirigente rivoluzionario della classe operaia.