Sono passati ormai diversi giorni dall’adozione delle misure restrittive su tutto il territorio nazionale per limitare la diffusione del Covid-19 tra la popolazione. Eppure mentre sono state chiuse scuole, università, musei, ristoranti, bar e altre attività, molto più complessa è la situazione sui posti di lavoro. Tra lavoratori e Confindustria infatti è iniziato un vero e proprio braccio di ferro: le imprese premono per proseguire la produzione, i lavoratori chiedono tutele e assicurazioni sulle condizioni di lavoro, che quasi mai vengono rispettate.
La questione diventa di particolare rilievo soprattutto negli impianti produttivi, e in generale in tutti i luoghi di lavoro ad alta concentrazione di lavoratori, come le grandi fabbriche, gli snodi della logistica, i call center, e anche per le forme di lavoro particolarmente esposte al pubblico. Gli interessi in gioco sono vari, alcuni meritevoli di attenzione altri un po’ meno. Da una parte la necessità di garantire alcuni servizi essenziali su cui non ci può essere dubbio: a partire ovviamente dagli ospedali, ma anche per tutto ciò che riguarda l’approvvigionamento di cibo e beni primari, fino ai settori produttivi farmaceutici o di materiale connesso alle necessità dirette e indirette per vincere questa battaglia. Dall’altra esistono senza dubbio settori non essenziali in questa situazione di emergenza, in cui la logica che ispira il mantenimento del loro funzionamento non trova una giustificazione immediata in questa situazione se non quella della difesa degli interessi economici privati delle aziende, a fronte dell’esigenza primaria di mettere in sicurezza l’intera popolazione, compresi i lavoratori e di assicurargli attraverso un sostegno statale forme di reddito o ammortizzatori sociali in questo periodo.
Tra questi settori c’è quello dei call center alcuni dei quali lavorando per grandi società internazionali. Quello di cui vi parliamo oggi, di cui non diremo il nome della società per tutela dei lavoratori che hanno come obbligo contrattuale un patto di riservatezza, gestisce tra l’altro l’appalto per la Apple. Proprio ieri la società di Cupertino ha dichiarato che avrebbe chiuso tutti i suoi punti vendita per contribuire a ridurre la propagazione del contagio. Come sempre accade le grandi multinazionali si fanno belle nei comunicati, ma poi scaricano attraverso gli appalti la maggior parte del lavoro sporco, facendone ricadere gli effetti sui lavoratori senza rovinare la loro immagine pubblicitaria.
La denuncia dei lavoratori non lascia scampo a dubbi e descrive un quadro impietoso di mancanza di condizione minime di sicurezza. «Noi lavoriamo da postazioni condivise e condivisa è anche la strumentazione: mouse, cuffie, tastiere, che vengono scambiate a fine turno senza alcuna operazione di sanificazione. Passiamo tutto il giorno davanti a uno schermo a parlare in cuffia e microfono, che non sono personali e non sappiamo a quale lavoratore andranno la prossima volta. Non ci vuole molto a capire che questa condizione è di grave rischio. L’azienda si è limitata a darci rassicurazioni sul fatto che provvederà in tempi brevi. Ma ormai sono passate settimane dall’inizio dell’emergenza e la situazione è questa, non ci sono stati forniti neppure guanti e mascherine». Una testimonianza inequivoca quindi sull’assenza delle più elementari misure di sicurezza, in un call center che conta qualche centinaia di lavoratori, e che per di più lavora per appalti di una grande multinazionale che proprio ieri si vantava di voler far tutto per ridurre i contagi del virus. La Apple ha precisato che avrebbe mantenuto attivi i servizi di assistenza, ma la condizione di sicurezza in Italia lascia molto a desiderare e quindi il messaggio di voler fermare il contagio resta, almeno in parte, lettera morta.
«Molti lavoratori – ci dice la nostra fonte – stanno utilizzando ogni mezzo previsto per assentarsi dal posto di lavoro, facendo ricorso alla malattia o mettendosi spontaneamente in ferie. Ma è chiaro che una soluzione del genere non è accettabile». Non solo. «Le rivendicazioni dei sindacati confederali si sono limitate a chiedere l’utilizzo di postazioni alternate per il rispetto della distanza di sicurezza di un metro, che ormai sappiamo dagli studi scientifici, non sufficiente specialmente in un ambiente chiuso e in cui il nostro lavoro è parlare con centinaia di conversazioni al giorno. L’azienda ha ottenuto di ridurre i lavoratori impiegati solo per scelte volontarie dei singoli, che però si sono ulteriormente ripercosse su chi è rimasto sul posto di lavoro. Per mantenere inalterati i ritmi produttivi infatti, l’azienda ci obbliga a lavorare su tre chat contemporaneamente, più di quanto prevedono i nostri contratti, riducendo così l’impatto negativo sulle prestazioni, ma comprimendo ulteriormente la nostra qualità di lavoro». Alla fine dei conti quindi i lavoratori non sono messi in sicurezza, la riduzione del numero temporaneo di impiegati non importa un costo per l’azienda, che riesce a ridurre le perdite spremendo di più i lavoratori che restano.
In questo caso tra l’altro i lavoratori giustamente rivendicano il diritto ad eseguire il proprio lavoro attraverso lavoro da casa, anche per evitare al minimo gli spostamenti di pendolari. Si tratta infatti di lavoro eseguito attraverso computer e accesso a piattaforme interne mediante proprie credenziali. Ma ovviamente diventerebbe più complesso continuare a richiedere ritmi di lavoro insostenibili, ai lavoratori senza un controllo aziendale diretto. A queste condizioni i lavoratori hanno iniziato ad organizzarsi e i sindacati di base hanno proclamato lo sciopero a livello aziendale.
Anche tra i call center infatti esistono delle differenze. Da una parte quelli promozionali – per capirci quelli che contattano per farci offerte su compagnie telefoniche ecc – che non hanno alcuna ragione di restare in funzione in questo momento, più complessa è la vicenda dei call center di assistenza, perché problemi sui mezzi informatici potrebbero comunque provocare difficoltà in questo periodo in cui assicurano quel minimo di comunicazione essenziale tanto più in un contesto di contatti sociali ridotti. Ma questo non può comunque andare a discapito della sicurezza dei lavoratori.
Insomma, come avevamo preannunciato esiste un’emergenza nell’emergenza: quella della difesa dei diritti dei lavoratori. Il conflitto capitale-lavoro purtroppo non va in quarantena, e anzi è chiaro che molte grandi società intendono scaricare in un modo o nell’altro i costi sociali ed economici della crisi causata dall’epidemia proprio sui lavoratori. È chiaro che situazioni del genere che si sono prolungate per settimane, aumentano esponenzialmente l’esposizione al contagio, anteponendo i profitti delle aziende alla condizione di salute dei lavoratori e in generale di tutta la popolazione.