A qualche giorno dalle dichiarazioni di Conte, che sbandierava la chiusura immediata delle attività non necessarie ad eccezione di alcune non precisate “produzioni rilevanti per l’economia nazionale”, e a seguito della lettera inviata al Governo da Confindustria, abbiamo avuto la conferma che il profitto rimane la priorità indiscutibile anche in casi di emergenza come questo. Infatti, leggendo con più attenzione il DPCM del 22 marzo, emergono tante scappatoie che di fatto lasciano piena discrezionalità ai padroni nel decidere se proseguire o stoppare la produzione. Abbiamo ricevuto la testimonianza di Giovanni (nome fittizio), operaio di una nota multinazionale che opera nell’area industriale di Catania, il quale ha confermato i sospetti, denunciando il basso livello di precauzioni che l’azienda ha adottato per salvaguardare la salute dei lavoratori.
“Nonostante i primi casi di colleghi positivi e di alcuni messi in quarantena, i vertici aziendali ci hanno comunicato che non hanno intenzione di chiudere, appellandosi a un punto del decreto che lascia loro la libertà di decidere se chiudere o meno, nonostante la nostra azienda non produca beni essenziali! Nelle ultime settimane è partita quasi una caccia all’untore nei confronti di singoli individui beccati a correre o a portare fuori il cane ma allo stesso tempo i luoghi di lavoro come il nostro ad alta concentrazione, che costituiscono delle vere bombe di diffusione di massa del contagio, come è stato ampiamente dimostrato nel Nord Italia, rimangono aperti: ancora una volta i profitti delle imprese vengono anteposti alla salute dei lavoratori”.
Tra i lavoratori si respira comprensibilmente un’aria di preoccupazione che sta portando parte di loro ad usufruire del monte ore di ferie accumulato, altri ad aderire agli scioperi lanciati dai sindacati metalmeccanici per manifestare il dissenso verso questa scelta scellerata, giustificata dal management con una comunicazione di circostanza in cui viene detto che “stanno adottando i migliori standard di igiene e sicurezza”; ciò non corrisponde chiaramente alla realtà durante i turni di lavoro.
“Sono state adottate alcune misure preventive (mascherine, amuchina, timbratura del cartellino a scaglioni), ma operiamo sempre a stretto contatto; inoltre durante le pause quando togliamo gli indumenti da lavoro il rischio di contagio è elevato, così come quando timbriamo l’ingresso in entrata e in uscita: è difficile che non si creino assembramenti perché banalmente siamo troppi per rispettare la distanza di un metro. Stanno giocando con la nostra salute per riempire il magazzino e non fermare i guadagni, sfruttando il fatto che, giustamente, molte altre aziende del nostro settore hanno chiuso dopo l’emanazione dell’ultimo decreto. Inoltre, molti miei colleghi raggiungono lo stabilimento con i mezzi, esponendosi ulteriormente al rischio di essere contagiati”.
E se da un lato i padroni continuano a fare cassa sulla pelle dei lavoratori, dall’altro non viene garantita nemmeno una regolare autocertificazione per recarsi al lavoro, fatto ancora più grave se consideriamo le dimensioni dell’azienda nella quale molti operai sono pendolari che raggiungono il posto di lavoro, in alcuni casi con i mezzi pubblici, anche da città distanti 30-40 km dalla fabbrica.
“Nei primi giorni in cui è stata resa obbligatoria ci è stata fornita un’autocertificazione che per essere valida deve essere firmata da un dirigente, ma durante il mio turno tale dirigente non è mai stato presente, quindi di fatto ho ricevuto un pezzo di carta che non attesta nulla; ogni giorno però mi devo regolarmente recare a lavoro a mio rischio e pericolo”.