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La sanità pubblica nell’evoluzione recente del capitalismo italiano

*di Alessio Angelucci e Davide Marini

In questi giorni a seguito dell’emergenza Coronavirus il nostro servizio sanitario nazionale, nonostante lo sforzo impagabile di migliaia di medici e infermieri che sono allo stremo, è sull’orlo del collasso. Le responsabilità si possono individuare nella gestione del sistema sanitario nazionale tenuta dai governi, di ogni colore. Questa gestione, che si inquadra nella tendenza più generale di taglio alla spesa sociale e di creazione di nuovi mercati, risponde alle necessità dei settori dominanti della borghesia ed è stata attuata negli ultimi decenni tramite precise scelte dei governi nazionali e dell’Unione Europea. Alla base di tali scelte c’è il taglio di tutta quella parte di spesa pubblica che non genera immediata profittabilità privata e allo stesso tempo la riorganizzazione di settori essenziali, tradizionalmente appartenenti alla sfera pubblica, nella sfera privata (salute, istruzione, previdenza sociale…).

Ma cerchiamo di procedere passo per passo e capire come siamo arrivati a questo punto, cosa ci ha portato fino a qui e contro chi dobbiamo puntare il dito.

Crisi, attacco ai diritti sociali e Unione Europea

Fino alla fine degli anni ’80 l’indirizzo delle politiche economiche dei governi italiani era maggiormente orientato a politiche espansive, con un ampio uso della spesa pubblica, una parte della quale era utilizzata per sostenere quello che viene chiamato stato sociale o welfare. Questa condizione era figlia di una concomitanza di fattori. In primo luogo il movimento operaio riuscì a imporre delle conquiste, seppur parziali, che costituirono lo stato sociale. C’è da dire che l’introduzione di alcune concessioni sociali rientrava comunque nell’interesse delle classi dominanti di non innalzare eccessivamente il livello di conflittualità sociale in un contesto di forte instabilità. Inoltre, le politiche espansive della spesa pubblica rispondevano a delle specifiche esigenze di sostegno alle imprese e di concentrazione del capitale, drenando ricchezza dalla tassazione ordinaria e quindi dalle tasche dei lavoratori, in alcuni settori strategici, come quelli su cui operava l’IRI, che con la stagione delle privatizzazioni degli anni ’90 sono poi passati direttamente sotto il controllo dei principali imprenditori italiani.

In questo contesto, i rapporti di forza espressi nel secondo dopoguerra dal movimento operaio avevano consentito l’affermazione di alcuni avanzamenti, costringendo le classi dominanti a concedere miglioramenti nella fruizione e accessibilità di diritti alle classi popolari come l’istruzione pubblica, la nascita del Sistema Sanitario Nazionale, l’introduzione di maggiori garanzie per i lavoratori. Bisogna fare attenzione, però, a non confondere i risultati del rapporto dialettico tra la forza e le pressioni del movimento operaio da una parte e la disposizione a politiche economiche espansive di Stato da parte della borghesia italiana dall’altra, con l’idea che il cosiddetto “stato sociale” sia una caratteristica “naturale” dello Stato borghese. L’affermazione di alcuni diritti si è dimostrata una concessione temporanea nel capitalismo, e sarebbe anche fuorviante descrivere in maniera idilliaca la condizione delle classi popolari in Italia prima del ‘91, dal momento che nessun avanzamento parziale è stato in grado di fare altro che limitare temporaneamente il fardello sulle spalle della classe operaia.

Le crisi del ‘73 e del ’79, la recessione degli anni ‘80-’84 portarono ad un primo mutamento nella direzione di ridurre le concessioni ai lavoratori, basti pensare al referendum sulla scala mobile (’85), e di cambiamento dell’indirizzo per quanto riguarda le politiche monetarie. Questi elementi erano necessari alle imprese per affrontare la crisi di sovrapproduzione e la stagflazione in cui si era entrati. Allo stesso tempo si andava verso la vittoria della controrivoluzione in URSS, l’indebolimento del movimento operaio in Italia e il completamento della mutazione socialdemocratica del PCI: cambiano i rapporti di forza tra le classi e cedono dunque alcuni argini che impedivano l’erosione delle conquiste parziali che c’erano state.

Uno degli strumenti che ha consentito questa accelerazione è stato il processo di integrazione europea. Questo sancisce il passaggio da una visione economica post-Keynesiana, in cui l’intervento dello stato nell’economia è visto favorevolmente al fine di creare occupazione e di creare quello che viene chiamato welfare state, ad un’economia di tipo monetarista, in cui gli interventi dello stato sono visti in maniera molto negativa, poiché esso si deve fare da parte per far spazio agli investimenti privati ed il mercato, come tutto l’impianto economico, deve essere organizzato per favorirli il più possibile. Si torna perciò ad una visione molto simile a quella degli Stati liberali ottocenteschi, che non a caso si svilupparono in un periodo di forte disorganizzazione del movimento di classe.

La formazione dell’Unione Europea rispondeva in quel momento alle necessità delle classi dominanti di tutti i paesi europei. A testimonianza di questa uniformità di vedute tra le borghesie europee e del protagonismo dei capitalisti italiani, c’è il fatto che tra i principali sostenitori di questo passo figura l’ERT (European Round Table of Industrialists), il cui Vice Presidente alla nascita dell’UE era Umberto Agnelli (Fiat) e che oggi conta diversi rappresentanti italiani come Claudio Descalzi (ENI), Guido Barilla (Barilla Group), Alessandro Profumo (Leonardo).

La firma del Trattato di Maastricht (’92), la creazione della BCE (’98) e l’introduzione dei vincoli di bilancio con il Patto di Stabilità e Crescita (’97) poi trasformato, dopo la crisi economica, in Patto di Bilancio Europeo o Fiscal Compact (2012) inseriscono i paesi europei in un’impalcatura economica in cui non c’è spazio per la spesa sociale. Infatti:

  • La politica monetaria è affidata alla BCE, che ha come unico scopo la stabilità dei prezzi. Ciò per favorire i commerci e tutelare i grandi istituti di credito detentori dei debiti pubblici di fronte a possibili svalutazioni;
  • La possibilità di finanziarsi attraverso il debito pubblico viene limitata con un rapporto debito/PIL che deve essere minore del 60% e un rapporto decifit/PIL ad un massimo del 3%;
  • Introduzione del pareggio di bilancio, con la legge costituzionale 1/2012, inserito nell’ordinamento italiano agli articoli 81, 117 e 119 della Costituzione.

Questi dati, che potrebbero sembrare dei meri tecnicismi in realtà racchiudono quei parametri economici per il cui adeguamento si rende necessaria una diminuzione della spesa pubblica – e quindi anche della spesa sociale, che intendiamo come sottoinsieme della spesa pubblica – oltre che massicce privatizzazioni. Infatti, il rispetto di questi parametri rende di fatto impossibili anche quelle parziali e insufficienti misure in sostegno del così detto welfare, che hanno trovato spazio nel nostro paese nel secolo scorso ed hanno rappresentato delle concessioni alle lotte ottenute dal movimento di classe.

Chiaramente tutto ciò è stato accelerato dall’introduzione della moneta unica e dallo scenario economico figlio della crisi del 2008, ma nei suoi principi cardine era già presente nelle previsioni dei trattati fondativi dell’UE e in alcune scelte dei governi nazionali ben prima del ‘92.

Nello specifico, con lo scoppio della crisi l’UE ha tenuto una linea ben precisa: contenere le spese il più possibile, non alzare il tasso d’inflazione così da incentivare e far ripartire gli investimenti dei privati. Le conseguenze di questa crisi chiaramente le hanno pagate i lavoratori, infatti mentre la disoccupazione è cresciuta a livelli inimmaginabili, i profitti dei grandi monopoli sono andati ad impennarsi. La politica di austerity ha avuto conseguenze che si sono propagate ben oltre il periodo più intenso della crisi. Infatti, ha creato i cosiddetti fenomeni di isteresi, ovvero gli alti livelli di disoccupazione e i bassi livelli di produzione perdurati nel tempo che hanno inciso sui livelli medi di disoccupazione e produzione, andando a colpire come al solito i lavoratori. A seguito della crisi, con un PIL ed un’economia che fatica a crescere ed una politica a livello europeo che impedisce un aumento della spesa pubblica oltre determinati livelli ( c’è da osservare che anche da recenti analisi e studi empirici risulta che, soprattutto per un paese ad alto livello di disoccupazione, un aumento della spesa pubblica in deficit provoca un aumento del PIL più che proporzionale, ed una diminuzione della spesa pubblica comporta una contrazione del PIL più che proporzionale), la sanità, l’istruzione, la previdenza sociale e le spese sociali sono stati visti come settori su cui tagliare e privatizzare, garantendo anche nuovi spazi di investimento per il grande capitale. Unici elementi di discontinuità sono stati chiaramente il sostegno ai grandi istituti di credito e alle imprese in concomitanza della crisi e le spese militari.

Nel grafico sottostante, prodotto dal Ministero dell’Economia, possiamo vedere la tendenza alla riduzione del peso della spesa pubblica in rapporto al PIL iniziata da Maastricht in poi.

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Il caso della sanità

Venendo alla sanità, questa chiaramente non può che essere interessata dalle tendenze generali allo smantellamento dello stato sociale.

Il Sistema Sanitario Nazionale nasce con la legge 833/1978 in seguito ad una grande stagione di lotte con la quale i lavoratori riuscirono a strappare, non senza polemiche, un sistema i cui principi cardine erano l’universalità della tutela sanitaria gratuita e garantita a tutti, l’unicità del soggetto istituzionale referente e garante delle prestazioni sanitarie, l’uguaglianza dei destinatari delle prestazioni e la strutturazione di un sistema di prevenzione e controllo.

Il carattere di queste conquiste parziali fu però temporaneo, tanto che, complici i mutamenti politici, sociali ed economici già descritti, il SSN gradualmente andrà a perdere molti di quegli aspetti più avanzati presenti nella sua impostazione originaria.

Già nel 1989 il Governo De Mita introduce i ticket sanitari, andando a vincolare visite ed esami al pagamento di una tariffa, nei fatti facendo pagare due volte il SSN ai lavoratori: attraverso la fiscalità generale e con il ticket all’occorrenza.

A partire dal ’92 si è proceduto con l’aziendalizzazione delle strutture organizzative del sistema sanitario. Inizialmente il SSN era articolato in Unità Sanitarie Locali (USL) che, in stretta dipendenza con un Piano Sanitario Nazionale, avevano il compito di declinare sui territori in maniera omogenea i servizi sanitari necessari. Con il d.lgs 502/92, approvato dal Governo Amato, si passa invece alle Aziende Sanitarie Locali (ASL) e alle Aziende Ospedaliere (AO). Queste, secondo la previsione legislativa, assumono un alto grado di autonomia e, pur rimanendo di natura pubblica, assumono autonomia organizzativa, gestionale, tecnica, amministrativa, patrimoniale e contabile. Viene da sé che questa previsione, oltre a improntare la gestione della salute pubblica su un modello privatistico, apre la strada a uno sviluppo disomogeneo a livello territoriale proprio in virtù della loro autonomia. Questo processo di aziendalizzazione poi vedrà il riconoscimento dell’autonomia imprenditoriale (1999) configurandole ulteriormente come aziende. Sempre con la stessa legge, si introducono i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), che indicano le prestazioni essenziali che teoricamente devono essere garantite. Teoricamente, perché la maggior parte delle regioni non adempiono pienamente a questi parametri. Infatti, i LEA vengono erogati e determinati, “compatibilmente con le esigenze della finanza pubblica”. Ciò significa che, in un contesto in cui la finanza pubblica è orientata alla riduzione della spesa sociale, quale quello italiano post Maastricht (’92), anche i LEA dovranno uniformarsi a tali regole.

Con la riforma del Titolo V (2001), approvata dal governo dal Governo Amato, si compie un processo di decentramento della salute già iniziato con la Legge Bassanini (’97) voluta dal Governo Prodi. Le competenze sulla tutela della Salute vengono attribuite a livello regionale, le Regioni si occupano del finanziamento delle ASL e delle AO oltre che della loro organizzazione e regolamentazione. Questo passaggio è molto importante poiché accentua fortemente lo sviluppo ineguale del SSN. Infatti, sebbene il governo centrale si occupi dell’individuazione dei LEA (fortemente ridimensionati per esigenze di bilancio), sono le Regioni che con logica aziendale determinano l’evoluzione del SSN. Di conseguenza regioni più ricche possono dotarsi di una sanità, in linea teorica, più efficiente. Allo stesso tempo anche gli investimenti nelle strutture non sono orientati sui reali bisogni della popolazione ma su parametri economici e necessità di bilancio della finanza regionale.

Anche l’aspetto del finanziamento è molto importante. La spesa sanitaria per sua natura presenta delle particolarità. Infatti, questa tende naturalmente a crescere in virtù di alcuni fattori come l’invecchiamento della popolazione e il progresso tecnologico sui macchinari e sui farmaci. Quello che vediamo è che nel nostro paese, eccetto il periodo di adeguamento organizzativo necessario per il passaggio delle competenze a livello regionale, la crescita è stata ridotta se non negativa, specialmente se valutata in rapporto al PIL. L’aumento medio del finanziamento per il SSN per la prima fase della sua formazione – dal 1978 fino a fine anni ‘80 – era circa del 6% annuo, dagli anni ’90 in poi si registra invece una diminuzione media che lo porta ad attestarsi poco sotto l’1%. Secondo il GIMBE, think tank di politica sanitaria, soltanto negli ultimi 10 anni sono stati sottratti al finanziamento pubblico della sanità oltre 37 miliardi di euro[1]. È interessante anche notare la ripartizione di questo finanziamento: nel ’90 il 47% del finanziamento del SSN gravava esclusivamente sulle imprese e il 13,1% esclusivamente sulle famiglie, nel 2017 invece ben il 64,9% è a carico esclusivo delle famiglie e soltanto il 17,3% alle imprese. In aggiunta dal 2010 la principale fonte di risorse è l’IVA, una tassa profondamente iniqua che non tiene conto in alcun modo delle differenze di reddito tra i contribuenti.

Infine è importante soffermarci sulla progressiva affermazione della sanità privata. Ad oggi i soggetti privati che erogano servizi sanitari sono totalmente integrati nel SSN ed in concorrenza con le strutture pubbliche in quello che ormai è il mercato dei servizi sanitari.

L’effetto di queste scelte è stato generare quello che si può definire come un vero e proprio smantellamento del SSN.

La mancanza di risorse ha portato ad una condizione di carenza endemica di personale medico e sanitario. L’ordine degli infermieri stima infatti che per il normale funzionamento dei servizi manchino attualmente circa 50.000 infermieri, senza considerare i prossimi pensionamenti. Allo stesso tempo la mancanza di medici si stima in circa 56.000 unità.

Se questo era l’aspetto legato all’organico, anche dal punto di vista strutturale la condizione è tragica.
Il confronto tra le tabelle riportate di seguito (fonte: Rapporto Sanità 2018 del Centro Studi Nebo, a questo link) mostra come si sia passati da 695 USL sul territorio nazionale (1983), con una media di una ogni 81.386 abitanti, a 101 ASL (2018), con una media di una ogni 598.851 abitanti.

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Allo stesso tempo, secondo dati del Ministero della Salute, nel 1981 il numero di posti letto (pubblici e privati) era di quasi 530.000, che sono passati a circa 365.000 nel 1992, per scendere a 245.000 nel 2010 e arrivare a 215.000 nel 2016. Ad oggi sono circa 191.000. Questo calo drammatico interessa esclusivamente il settore pubblico, infatti i numeri di posti letto della sanità privata in praticamente tutte le regioni sono rimasti stabili o aumentati. Ciò ha fatto aumentare l’incidenza del numero di posti letto privati sul totale che è passata dal 14,7% (1981) al 20,4% (2016).

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Questa tendenza all’aumento del peso della sanità privata a svantaggio di quella pubblica è stata confermata anche da un report dell’Ufficio Parlamentare di bilancio secondo cui «La contrazione delle risorse ha favorito solo in parte miglioramenti dell’efficienza e una efficace riorganizzazione dell’offerta. Ne sono derivate conseguenze sull’accesso fisico ed economico, soprattutto nel periodo della crisi, e uno spostamento di domanda verso il mercato privato».

In molti settori la sanità privata è diventata quindi attore maggioritario, ad esempio nel settore degli Istituti di riabilitazione più del 70% delle strutture sono private. Il business che le ruota intorno vale oltre 40 miliardi (circa ¼ della spesa sanitaria nazionale totale) e presenta degli attori di primo piano che fanno profitti milionari. È emblematico il caso della Lombardia in cui soltanto con ricoveri ordinari e day hospital si è avuta una valorizzazione di oltre 2.152 milioni di euro.

Tra i principali gruppi privati per fatturato possiamo segnalare Gruppo San Donato, seguono Humanitas, GVM, KOS, IEO, Servisan, Multimedica, Giomi-Fingemi, Eurosanità, Raffaele Garofalo & Co. Ma si può notare anche come una parte considerevole degli erogatori di servizi sanitari siano di piccola e media dimensione.

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Non c’è da meravigliarsi se in questo scenario 20 milioni di italiani siano in difficoltà a gestire le spese per la salute e 12 milioni dichiarino apertamente di aver rinunciato a curarsi.

 

Conclusioni

Da questo quadro emerge come tutti i limiti che il nostro SSN sta evidenziando in questo periodo, nonostante lo sforzo encomiabile e necessario del personale sanitario, siano figli di precise scelte politiche attuate dai governi nazionali e dall’Unione Europea.

Anche il sistema sanitario nazionale è stato coinvolto in quel processo di attacco ai diritti sociali necessario per rispondere alle crisi del capitalismo salvaguardando gli interessi delle imprese. Le ultime tappe del processo di integrazione europea hanno rappresentato un passaggio fondamentale in questo percorso di smantellamento di quelle parziali conquiste strappate dal movimento dei lavoratori negli anni ’70 e l’aziendalizzazione e la privatizzazione della sanità nel nostro paese sono un esempio lampante di ciò. In tutte le scelte operate sul nostro sistema sanitario nazionale sono infatti presenti dei marcati connotati di classe.

Le imprese sono state gradualmente dispensate dal finanziamento al SSN, allo stesso tempo si è sviluppato definitivamente il mercato della sanità privata che ha consentito di fare profitti d’oro alla classe imprenditoriale italiana in un momento in cui c’era necessità di investire in nuovi settori. Anche l’aziendalizzazione della sanità, ancora formalmente pubblica, va nella direzione di improntare le attività del nostro sistema sanitario nell’ottica della profittabilità. Ciò dimostra come nel sistema capitalistico anche l’erogazione di alcuni servizi da parte dello stato, invece che dei privati, non sia esclusa da una natura di classe. È evidente nella sanità “pubblica” così come lo è nel sistema d’istruzione.

Allo stesso tempo la progressiva diminuzione dell’estensione del sistema sanitario, oltre che un suo ridotto sviluppo dal punto di vista qualitativo, che è sotto gli occhi di tutti, ha portato quella parte di popolazione che ne aveva le possibilità economiche a rivolgersi alla sanità privata ed ha costretto invece i ceti meno abbienti a rinunciare alle cure in alcuni casi o a doversi sobbarcare ticket sanitari, tempi d’attesa interminabili e in alcuni casi cure non ottimali.

Diminuzione progressiva che è stata portata avanti, come abbiamo visto, direttamente attraverso tagli lineari, attraverso il sostegno palese all’estensione della sanità privata e dei suoi spazi di profitto, ma anche indirettamente attraverso i tagli all’istruzione che sono andati a giustificare l’introduzione del numero chiuso nelle facoltà che formano medici e personale sanitario. Il numero chiuso a medicina e per le professioni sanitaria ha ridotto il numero di nuovo personale sanitario in uscita dalle università, intaccandone seriamente il numero, visto lo squilibrio negativo evidente rispetto al numero dei pensionamenti nel settore. Momenti come quello che viviamo mettono in luce diversa le lotte portate avanti negli anni.

La crisi che stiamo vivendo in questo momento e l’analisi di questi processi rendono necessaria una forte presa di consapevolezza sul diritto alla salute. Per le esigenze di profitto dei capitalisti anche un diritto fondamentale come quello alla salute viene modellato su logiche aziendali, diventando un vero e proprio mercato in cui le prestazioni sanitarie vengono trattate come merci concepite soltanto in funzione dell’arricchimento degli imprenditori.

In questi momenti di difficoltà l’esempio di Cuba assume ancora più valore. Un’isola piccola come Haiti e con un PIL inferiore a quello della Puglia può vantare uno dei migliori sistemi sanitari al mondo e riesce ad aiutare con i suoi medici i lavoratori che vivono in paesi a capitalismo avanzato come il nostro.

Nell’Unione Europea, nel sistema economico capitalistico non potrà mai esserci un sistema sanitario realmente gratuito, di qualità, modellato sui bisogni collettivi e non sulla logica del profitto. Questo è uno dei molti insegnamenti da trarre da questa fase difficile per rilanciare con più forza, coscienza e organizzazione le lotte per una sanità migliore come quelle per una società diversa.

L’emergenza Coronavirus sta facendo emergere tutte le contraddizioni di un sistema insostenibile come il capitalismo, in cui le necessità del capitale si dimostrano sempre più incompatibili con la vita stessa della classe lavoratrice.

[1] Negli ultimi 7 anni si è assistito a un definanziamento di 37 miliardi nei confronti del SSN. Sostanzialmente, a partire da aspettative infondate rispetto alla crescita annua del PIL, nel corso degli anni si è ridotta la percentuale di risorse pubbliche impegnate in spesa sanitaria. Il tutto è stato giustificato affermando che, nonostante una riduzione in termini percentuali, a fronte della crescita del PIL (che puntualmente non ha rispettato le previsioni sulla cui base si è determinata l’assegnazione delle risorse) la spesa in termini assoluti per la sanità sarebbe rimasta costante o addirittura in crescita rispetto agli anni precedenti. In ogni caso basti pensare che, anche qualora si fossero azzeccate le previsioni, la crescita in termini assoluti sarebbe stata comunque inferiore alla crescita dell’inflazione.
La mancata concretizzazione delle previsioni ha portato negli anni il sistema sanitario ad essere privato di ulteriori 37 miliardi. È da sottolineare come il DEF del 2019, seguendo lo stesso principio, abbia certificato un’ulteriore riduzione del rapporto spesa sanitaria/PIL, che entro il 2022 passerà dal 6,6% al 6,4%. Questa riduzione percentuale assume proporzioni devastanti alla luce del fatto che il PIL subirà un netto crollo invece di una crescita, come era stato fin troppo ottimisticamente preventivato, a causa della crisi economica che si svilupperà per l’emergenza sanitaria. https://www.gimbe.org/osservatorio/Report_Osservatorio_GIMBE_2019.07_Definanziamento_SSN.pdf

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