Senza Tregua continua a raccogliere informazioni ed interviste provenienti dal mondo del lavoro giovanile. Abbiamo intervistato un giovane operaio, Antonio, che lavora alla galvanica, nel settore chimico-industriale, in una azienda che ha continuato la produzione ininterrotta fino al decreto che ha bloccato, almeno in teoria, le attività non essenziali.
Com’era la situazione prima dell’attuazione del DPCM dell’11 Marzo? Cosa è cambiato dopo?
Si è dovuto attendere l’attuazione del decreto per rendersi conto che in una situazione di emergenza sanitaria non era la cosa migliore tenere 210 persone stipate in dei capannoni. Poco è cambiato, tuttavia, anche dopo l’attuazione del decreto. Per ridurre l’assembramento nel capannone è stata chiusa la sala mensa e siamo stati divisi in due turnazioni; il risultato è che c’è metà dell’organico che deve mantenere il doppio del ritmo produttivo. Cala il numero di lavoratori ma non l’obiettivo di produzione. A questi ritmi è inevitabile che anche riducendo il numero di persone, chi rimane a lavoro si esponga comunque a dei rischi sanitari. Si capisce bene che la situazione in fabbrica diventa in questo modo insostenibile, costringendo le operaie e gli operai a stress psicologico e la sensazione costante di non essere tutelati.
L’azienda ha provveduto a fornirvi dei dispositivi di sicurezza?
Le mascherine che ci venivano distribuite erano mascherine giornaliere, con durata massima di 8-9 ore, ma la distribuzione non avveniva su base giornaliera, quindi le dovevamo tenere per almeno 3 giorni. Se questo è già di per sé un problema ad ogni livello produttivo, lo è ancora di più se pensiamo al fatto che ci sono vari settori all’interno dell’azienda, dal controllo qualità alla doratura degli oggetti prodotti, e che quindi vanno presi in considerazione anche quei settori in cui la vicinanza con altre persone è necessaria o dettata dalla mansione svolta.
L’azienda ha chiuso dopo l’ultimo decreto che blocca, almeno sulla carta, le attività non essenziali? Con quali modalità? Cosa dicono i sindacati?
Con l’ultimo decreto è calata la saracinesca anche sulla nostra fabbrica, anche se come ho detto prima già nel periodo antecedente l’attuazione alcune persone erano state mandate a casa, spesso e volentieri ricorrendo a ferie forzate. Fino all’ultimo hanno cercato di fare andare avanti la produzione, nonostante tutto e a prescindere da tutto e, come al solito, siamo noi a pagare il costo di tutto questo.
Per quanto riguarda i sindacati, anche prima della pandemia la regola sul luogo di lavoro era una: se sei iscritto a un sindacato sei fuori. Di conseguenza, le uniche forme di opposizione possibili sono ridotte a questioni individuali, con tutte le conseguenze lavorative e psicologiche del caso e questo è, in definitiva, la cosa più importante in tutta questa situazione: non ci interessa solo “tornare alla normalità”, non si tratta solo di sperare che “tutto vada bene”. La normalità, il prima era il problema fondamentale; la semplice situazione di emergenza fa solamente emergere con ancora più forza quelle contraddizioni che erano già presenti prima, tra turnazioni che raggiungevano quotidianamente le 10-11 ore di lavoro, il ricatto del licenziamento come arma anti-sindacale, la retorica opprimente dell’essere “tutti una famiglia”. Si parla spesso di come la classe operaia non esista più, ma come al solito senza di essa crolla tutto il castello di carte che questo sistema si è costruito.