di Lorenzo Soli
Che cosa voleva dire essere un partigiano nella guerra di Liberazione? E in particolare un membro dei Gap, la cui fama per un anno e mezzo terrorizzò le armate nazi-fasciste e divenne sinonimo di “giustizieri del popolo”? Fra le tante formazioni partigiane, di montagna, di città e di pianura, che maggiormente hanno solleticato l’immaginario collettivo sulla Resistenza, i Gruppi di Azione Patriottica, formatisi insieme alle Brigate Garibaldi a seguito dell’8 settembre 1943 per iniziativa del Partito comunista, certamente ricoprono una posizione di primo piano. I gappisti sono coloro che portarono a termine l’azione di via Rasella; coloro che, sotto il comando di Giovanni Pesce, fecero alcune delle imprese più straordinarie della guerra; coloro che diedero all’Italia e al mondo fulgidi esempi di dedizione alla causa della libertà, morti senza batter ciglio se non con il proposito di abbattere quanti più nazisti e fascisti possibile, come Dante di Nanni.
Se guardiamo al caso di Bologna, a maggior ragione, ci ritroviamo dinnanzi ad una delle esperienze più note e significative in assoluto: quella della 7a Brigata Gap, la formazione che fu responsabile della Battaglia di Porta Lame e della Bolognina. Eppure, come possiamo notare in occasione delle commemorazioni istituzionali, il suo ricordo viene strumentalizzato in nome di un generico antifascismo di facciata, da parte di formazioni politiche che nulla hanno in comune con lo spirito che informò le azioni dei gappisti e dei partigiani in generale. La maggioranza della popolazione – dei giovani in particolare – non conosce realmente la storia di questo glorioso gruppo di combattimento, così come dei componenti che servirono al suo interno, di cui 200 persero la vita nel compimento del loro dovere.
Il seguito di questo scritto vuole essere quindi un omaggio e un brevissimo resoconto della 7a, affinché si comprenda maggiormente il motivo per cui per i comunisti di oggi – in particolare per i comunisti bolognesi – vi è tanto da imparare dalla lotta d’avanguardia gappista. Le informazioni sono ricavate dal libro “7a Gap” di Mario de Micheli, se si esclude qualche considerazione particolare. L’esposizione non si preoccuperà dunque di fare note esplicative e di riferimento, dato che si presenta come un lavoro didascalico. Per approfondimenti ulteriori si rimanda all’opera stessa.
Premesse
Se è vero che il fenomeno dei Gap va ricercato nel contesto dell’intera Italia occupata dalle truppe nazi-fasciste, il caso di Bologna non può essere dissociato dalle lunghe tradizioni di lotta che la classe operaia e i contadini bolognesi dovettero affrontare contro gli abusi e lo sfruttamento della classe padronale. Lotte dure, popolari, che risalgono agli albori del primo movimento socialista nelle campagne del bracciantato e che portarono alla costituzione delle prime leghe contadine e dei sindacati operai nei centri cittadini. Il tessuto sociale del bolognese, frutto dell’azione svolta dalle organizzazioni di massa e dalle organizzazioni politiche della classe operaia, dal Psi prima e dal Pci poi, si è sempre caratterizzato, dalla fine del secolo XIX all’inizio del secolo XX, per il suo indomito spirito solidaristico e di classe.
Non è un caso se, a seguito della Grande guerra, fu proprio in Emilia che sorsero le prime squadre fasciste al soldo degli agrari, impegnate in una dura battaglia contro le organizzazioni dei lavoratori per tutto il periodo 1920-1922. Da qui in poi la Resistenza, nel senso più pieno del termine, venne portata avanti senza soluzione di continuità per tutta la durata del Ventennio fascista. Le forze d’avanguardia della classe operaia mantennero nella clandestinità i contatti col popolo, preparando il terreno per la ripresa generalizzata dell’azione di classe ed antifascista nel contesto della Seconda guerra mondiale. Non fu un’opera facile: si contano a 703 i comunisti bolognesi condannati dai tribunali del fascismo, per un totale di 1.467 anni di pena scontati. Il ruolo dei comunisti lo si può ricercare anche nei volontari che partirono per la guerra di Spagna: dei 113 antifascisti bolognesi che raggiunsero il Paese iberico, 86 erano comunisti. Molti di questi combattenti internazionalisti appresero l’arte della guerra e della guerriglia, dimostrandosi poi elementi fondamentali nel momento in cui si presentò la necessità di organizzare la guerra resistenziale in Italia.
Perciò, le avanguardie operaie e contadine, mantenendo attiva la propria presenza sul territorio e nei luoghi di lavoro, portarono – nel momento decisivo dei rovesci militari provocati dalla distruttiva politica dell’imperialismo fascista – tutto il loro contributo per risolvere i grandi problemi che il Paese avrebbe dovuto affrontare per costruire una nuova società e abbattere le vecchie oligarchie. Anche a Bologna, infatti, si scioperò contro il regime nel marzo del ’43, come nel resto del Nord Italia, specialmente a Torino, Milano, Genova.
A seguito dei fatti che portarono al colpo di Stato del 25 luglio e all’insediamento del generale Badoglio come capo del governo, le classi dirigenti italiane non cambiarono veramente atteggiamento nei confronti delle masse popolari e della guerra. Il governo monarchico badogliano represse molti moti popolari, portando avanti, allo stesso tempo, solo una timida politica di apertura – gravemente ritardata – nei confronti delle opposizioni e dei prigionieri politici.
Quando poi arrivò l’armistizio con gli Alleati, il tradimento delle classi dirigenti del Paese si manifestò in tutta la sua evidenza: pur di non far intervenire le masse popolari in unione con l’esercito per scacciare gli occupanti nazisti dal territorio nazionale, preferendo piuttosto salvare le sorti della monarchia sotto la tutela dei governi della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, il governo si rese diretto responsabile delle successive tragedie in cui incorse tutto il popolo italiano. Dopo l’8 settembre interi reparti dell’esercito regio, anche a Bologna, vennero catturati senza sparare un colpo, confusi e lasciati senza ordini alla mercè delle truppe di occupazione del Reich. Molti dei soldati catturati vennero per questo spediti nei campi di concentramento.
Il grave momento, ancor più grave per colpa dell’attesismo di molte delle forze politiche borghesi che solo a parole si opponevano al fascismo, mise il Partito comunista nella posizione di dover prendere in mano le cose con un proposito ben chiaro: lotta serrata contro il fascismo, contro l’occupazione tedesca, armamento del popolo fino al conseguimento della pace. Nessuna resistenza passiva era contemplabile: era giunto il tempo dell’azione.
A fronte degli sforzi senza successo per trovare una intesa con le altre forze politiche, il Pci di Bologna, riunitosi nel suo Comitato federale il 9 settembre, prese delle decisioni gravi ed impellenti alla presenza di Arturo Colombi, il quale assunse la carica di responsabile locale dopo essere da poco arrivato in città. Colombi disse, esprimendo la volontà e le decisioni del Partito a livello nazionale: «Prima di tutto dobbiamo sforzarci di attuare lo sciopero generale, fermare il lavoro nelle fabbriche e nei servizi pubblici. Dobbiamo mobilitare quanti compagni è possibile, raccoglierli e mandarli davanti alle officine, alle ferrovie e ai depositi dei tram. Non lasciarsi arrestare: resistere, anche con le armi in pugno quando è il caso. Altri compagni devono occuparsi dei soldati e degli ufficiali, aiutarli a nascondersi, scegliere tra di essi i più combattivi, quelli che sentono di più il dovere patriottico e cercare di avviarli verso le montagne accompagnati da elementi politicamente preparati. Bisogna cercare d’impadronirsi delle armi abbandonate nelle caserme, e fare presto, approfittare della confusione che non durerà molto: dovremo fare la guerra al tedesco e la guerra non si fa senz’armi. È necessario avvicinare gli ufficiali, persuaderli. Essi potranno essere preziosi in una guerra patriottica. Tutto ciò ci servirà a creare le premesse per organizzare la lotta partigiana. Questo è quello che dobbiamo fare per la salvezza del nostro paese e in questa opera i comunisti devono essere i primi, sempre e dappertutto, a qualsiasi costo».
Al tempo la federazione bolognese contava 1.500 iscritti in totale, che nel giro di poco tempo ripiombarono nella clandestinità più nera, dopo il breve intermezzo badogliano. Le risorse erano minime e infiniti i pericoli di insuccesso. Lo sciopero nelle fabbriche riuscì ad essere completo e totale, generando una prospettiva positiva di lotta e di ricerca di nuova quadri dirigenti, militanti e combattenti per la guerra partigiana. In quella situazione si costituì anche un Comitato militare del Partito con giurisdizione su Bologna, Modena, Ferrara, composto da dirigenti di lunga data e da ex-garibaldini della guerra di Spagna. Occorreva però, come Colombi ricordava, recuperare le armi, salvare gli sbandati e dirigerli verso la montagna. Occorreva, inoltre, compiere i prmi sabotaggi, per rompere la cappa dell’apatia, dell’indifferenza e della confusione che in quei giorni imperavano.
Questi primi compiti vennero realizzati solo in parte. Ad esempio, tra l’ottobre e il novembre del 1943 vi furono ben tre tentativi per cercare di costituire nuclei partigiani sull’Appennino della provincia, ma fallirono per una serie di problematiche organizzative e logistiche, per l’inesperienza ancora dilagante e per le azioni di rappresaglia del nemico. Solo quella formazione che poi sarà nota come “Brigata Stella Rossa”, al comando di “Lupo”, riuscì a insediarsi con successo nei primi mesi della guerra di Liberazione.
Tuttavia la situazione era gravida di importanti sviluppi: con la chiamata alle armi delle classi 1923-24-25 da parte della RSI sempre più giovani presero la via della clandestinità, avviandosi anche sulle montagne. Nel frattempo, Alberganti prese il posto di Colombi, il quale si recò invece in Piemonte. In ottobre, giunse a Bologna anche Ilio Barontini, con il compito di raccogliere sotto un unico comando tutte le forze in costituzione. Barontini diede un importante contributo nell’indirizzare ed organizzare le prime azioni partigiane e divenne successivamente comandante del C.U.M.E.R. (Comando unificato militare Emilia Romagna).
Passare all’attacco: dalla formazione dei Gap agli scioperi del marzo ’44
Nonostante tutte le difficoltà del caso, era evidente che più tempo si aspettava, più il nemico si sarebbe rafforzato e si sarebbe sentito in diritto di utilizzare le proprie forze contro la popolazione civile, distruggendo allo stesso tempo le formazioni politiche antifasciste e mobilitando tutte le risorse per lo sforzo bellico. Il passaggio dalla lotta politica alla lotta armata, necessario ed inderogabile, non era dei più semplici. Non vi erano soltanto riserve di natura organizzativa, bensì anche morale. Vi era inoltre la preoccupazione di rappresaglie contro civili inermi: al tempo non era ancora chiaro a tutti che l’unico modo per dissuadere il nemico dall’operare distruzioni e massacri era quello di non dare alcuna tregua alle azioni, quello di far capire ai fascisti e ai tedeschi che se avessero tolto anche un solo capello ad un contadino, ad un operaio, ad un militante antifascista, ci sarebbe stata una pronta risposta vendicativa.
In questa situazione si crearono quindi i Gap. La loro funzione, come formazioni all’inizio solo cittadine, doveva essere quello di colpire il nemico nelle retrovie quando meno se lo aspettava, generando demoralizzazione e nel migliore dei casi vero e proprio terrore. Nessun fascista doveva più sentirsi al sicuro nell’opprimere la popolazione ed ogni spia avrebbe dovuto sapere che la fine che gli sarebbe spettata era una e una soltanto: la morte. Bisognava portare la guerra dappertutto con sabotaggi di linee di comunicazione e di materiale bellico, distruzione di comandi militari, uccisione di soldati e di comandanti delle forze di polizia e militari nazi-fasciste. Nell’unire il terrorismo alla lotta armata generale e alla lotta politica delle masse organizzate sui luoghi di lavoro, i Gap dovevano essere una avanguardia combattente senza pari.
A dicembre erano presenti solo 10 gappisti a Bologna, divisi in due squadre. Per preparare il terreno a più ardite e significative azioni, si procedette innanzitutto con azioni di carattere indiretto, ovvero con bombe a scoppio ritardato presso abitazioni, linee ferroviarie e locali di ritrovo. Ma tali azioni si rivelarono spesso imprecise e pochi erano i morti dei nemici, spesso nessuno.
È solo a partire dal gennaio del 1944 che si può rilevare la prima azione significativa: l’uccisione del federale del fascio bolognese Eugenio Facchini in via Zamboni. A seguito di tale azione, i fascisti ritennero di prelevare dalle carceri nove antifascisti condannati, portarli al Poligono di tiro e fucilarli, generando con ciò un generale sdegno tra la popolazione bolognese. I Gap decisero quindi di individuare i membri del plotone di esecuzione e di giustiziarli: così avvenne per due di loro, freddati a colpi di rivoltella.
Nei mesi successivi il movimento resistenziale si ampliò e coinvolse la massa generale della popolazione lavoratrice. Già dal febbraio del 1944 le azioni dei Gap a Bologna si moltiplicarono: sempre più personalità del fascismo vennero colpite con assalti rapidi e precisi; sempre più carichi di munizioni in transito per la città furono assaltati e fatti esplodere, sia di notte che in pieno giorno; non mancarono, infine, attacchi contro alcune caserme.
Tuttavia fu soltanto con lo sciopero generale nazionale chiamato per la prima settimana di marzo che la lotta ebbe un portentoso salto di
qualità. Fu in occasione dello sciopero, il primo di così vaste proporzioni nell’Europa occupata dai nazisti, che si venne a creare un collegamento organico superiore tra le organizzazioni dei lavoratori e le organizzazioni di massa da un lato, e le formazioni di combattimento dall’altro, queste ultime composte in larga parte da operai e contadini che cominciarono ad essere distaccati per dedicarsi interamente alla guerriglia. È proprio a seguito degli scioperi, infatti, che ebbero modo di svilupparsi compiutamente la 36a Brigata Garibaldi, la 62a, la 63a, la 66a e la S.Justa, sotto la direzione del C.U.M.E.R. Venne risolto quindi il problema della costituzione di formazioni partigiane sull’Appennino.
Per gli scioperi i Gap sostennero i lavoratori portando a termine svariati sabotaggi di linee di trasporto e dei cavi elettrici. Di fronte ai cancelli delle fabbriche, inoltre, mescolandosi tra gli operai stessi, li incitarono a non lavorare per i tedeschi. I lavoratori li appoggiarono e incominciarono da lì in poi ad apprezzare con grande vigore il contributo dato dai gappisti nella generale lotta per il miglioramento delle condizioni di vita e per la distruzione dello sforzo bellico nazi-fascista. Alle opere di sabotaggio dei Gap, infatti, si aggiunsero anche quelle degli stessi operai che sempre più spesso logorarono la capacità produttiva delle fabbriche, assicurandosi allo stesso tempo che i macchinari non venissero trasferiti in Germania o in altre località. Gli operai sapevano di poter contare sulla copertura dei gappisti se ve ne fosse stato bisogno.
Lo sciopero fu essenziale anche per lo sviluppo dei Gap nelle campagne circostanti Bologna. Anche i contadini e i braccianti si unirono alla mobilitazione, portando avanti una serie di rivendicazioni e di proteste di piazza sotto le sedi dei municipi contro la mancanza dei generi di prima necessità, contro gli ammassi fascisti e le requisizioni delle truppe di occupazione, contro le liste di leva etc. Su queste basi, i contadini stessi si organizzarono, formando quelli che poi sarebbero diventati i quattro distaccamenti principali dei Gap in pianura presso Castelmaggiore, Anzola, Medicina, Castenaso. Più tardi si formarono altri distaccamenti minori a Castel S. Pietro Terme e ad Imola.
Insomma, la dimensione territoriale e numerica del Gap bolognesi subì un accrescimento notevole, così come il numero delle azioni: entro la prima metà del ’44 vi erano gappisti che facevano anche due o tre azioni al giorno. Distruzione dei cambi ferroviari; tagli delle linee elettriche; distruzione delle cabine di trasformazione ed alimentazione elettrica delle officine e delle fabbriche; distruzione di convogli militari; agguati contro caserme e singoli individui: tutte queste azioni minarono le capacità nazi-fasciste e indirizzarono sempre di più i lavoratori verso l’insurrezione nazionale. Consistenti forze fasciste e tedesche vennero impiegate per tenere a bada le retrovie cittadine e di pianura, distogliendole dal fronte di guerra più a Sud.
Nel marzo si costituì ufficialmente la 7a Brigata dei Gruppi di Azione Patriottica, il cui comando venne assunto due mesi più tardi da Alcide Leonardi (nome di battaglia “Luigi”), ex garibaldino di Spagna e membro del Pci di lunga data.
Alcuni aspetti della vita e dell’organizzazione dei gappisti in città
Tutto quello che si è detto serve per capire il contesto sociale e politico del tempo, le forze in campo e la posta in gioco. Ma, nel concreto, come si sviluppava la lotta sul territorio? Quale era la vita del gappista in una città come Bologna?
In parole povere, essere un gappista urbano voleva dire vivere in completa clandestinità, in una situazione fatta di pericoli e di privazioni senza fine. I gappisti non potevano uscire normalmente dai propri rifugi collettivi se non per casi di estrema necessità. I rifornimenti venivano assicurati soltanto dalle indomite staffette e non c’era quindi modo di entrare in diretto contatto con i membri di un’altra squadra, anche magari a pochi isolati di distanza, se non su diretta autorizzazione dei comandanti. Le norme cospirative erano tenute al massimo livello. Se un gappista di ritorno alla “base” da una missione aveva la sensazione di essere seguito, faceva di tutto per fare strade alternative e per seminare i possibili inseguitori. In città, le prime “basi” da cui partivano gli attacchi erano quelle localizzate in zona Corticella, in via Crocetta, in via Pratello e in via Mascarella. Col tempo continuarono a crescere fino ad essere decine e decine in tutto il centro città e nella periferia, presso ogni sorta di casa, appartamento, magazzino, sotterraneo, soffitta etc. Lì i gappisti pianificavano le azioni, fabbricavano bombe, si risposavano, tenevano i depositi di armi, munizioni, esplosivi, vestiti (anche abiti eleganti e divise di fascisti e soldati tedeschi morti prese a seguito di azioni), documenti falsi, mezzi di locomozione quali biciclette e automobili (anche queste rubate al nemico). Dentro questi rifugi si osservava il silenzio: se si doveva parlare, lo si doveva fare riflettendo sulle cose fatte bene e male nelle precedenti azioni, si parlava delle azioni future; ci si scambiava suggerimenti ed esperienze. Se veniva a fare visita il commisario politico si facevano discussioni sulla situazione militare e politica, sugli sviluppi della guerra in Europa; si apprendeva del glorioso sforzo dei popoli sovietici contro la belva fascista.
Vi sono stati casi in cui le “basi” venivano scoperte, non per colpa di gappisti catturati sottoposti a tortura, bensì per colpa di delatori e spie: in tal caso i Gap erano costretti fino all’ultimo per difendere le proprie postazioni e cercare di mettersi in salvo. Ciò poteva avvenire anche in caso di rastrellamenti improvvisi, il che accadeva abbastanza di frequente. Insomma, il gappista di città non aveva mai un minuto di tregua: questa è anche una delle caratteristiche che lo distinguevano da tutti gli altri combattenti partigiani, specie quelli della montagna, i quali tra una battaglia e l’altra avevano anche molti giorni, se non settimane, in cui non si scontravano con alcuna formazione nemica. Il gappista aveva il pericolo tutto attorno, vivendo con i fascisti e i nazisti a pochi metri di distanza: doveva accettare questa situazione perché non vi era modo di evitarla. Solo una disciplina di ferro e una salda coscienza politica poteva tenere in piedi una lotta condotta in tale precarietà esistenziale.
I Gap agivano in formazioni ristrette – in squadre di non più di 6/7 membri ciascuna – e con un alto grado di mobilità e autonomia. Inizialmente il loro strumento prediletto per gli spostamenti era la bicicletta, tanto che le autorità fasciste fecero tutta una serie di provvedimenti per limitarne la circolazione in alcune aree della città e soltanto con una speciale autorizzazione si potevano utilizzare. Con le bici i gappisti potevano arrivare in un posto e fuggire con estrema agilità, tra le strade strette e i portici del centro cittadino bolognese. I posti di blocco, anche momentanei, erano dappertutto: non si contano i casi in cui i gappisti per attraversarli, in mancanza dei documenti adatti, dovettero farsi strada sparando con la rivoltella o con lo sten nascosto sotto i vestiti. Se venivano catturati venivano tradotti nelle caserme nazi-fasciste o nelle carceri di San Giovanni in Monte (dove oggi c’è il Dipartimento di Storia culture civilità dell’Università) e qui venivano torturati e seviziati fin quasi alla morte. Se i fascisti non riuscivano ad avere informazioni di sorta (il che era la norma: non abbiamo notizie di gappisti bolognesi che parlarono sotto tortura mettendo a rischio la vita dei propri compagni) vi era la possibilità di venire passati per le armi alla periferia della città, senza troppi riguardi. Per questo i gappisti, quando si dovevano fermare ai posti di blocco, erano sempre in uno stato di assoluta allerta. Spesso queste vicende portarono anche a fughe e a relativi inseguimenti che farebbero invidiare qualsiasi film d’azione moderno per quanto assurde e incredibili.
Una delle condizioni principali affinché potesse avere successo una qualsiasi azione, oppure per districarsi da una situazione imprevista e pericolosa, era il corretto funzionamento delle armi da fuoco. I gappisti curavano le loro armi – perlopiù rubate al nemico, in pieno stile guerrigliero – in maniera maniacale, in modo tale che al momento giusto non si inceppassero, il che avrebbe messo a repentaglio la vita non soltanto del possessore dell’arma ma anche quella dei suoi compagni. Quando vi era una missione da compiere i gappisti si ponevano infatti in formazioni specifiche a seconda del loro numero e della modalità in cui si sarebbero approcciati all’obiettivo (cioè a piedi, in bicicletta oppure in automobile). In queste formazioni le avanguardie, le retroguadie e quelli che rimanevano nel mezzo avevano delle norme specifiche di comportamento per coprire determinati settori e per indirizzare il fuoco contro specifici nemici: gli errori non erano permessi. L’arma era quindi per il gappista una estensione della sua persona. Inizialmente erano le ragazze, le staffette a fornire le armi ai gappisti in azione, nascondendole nei cesti della spesa e porgendole al momento opportuno per sparare su un determinato obiettivo. Con la stessa velocità, poi, le riprendevano e si dileguavano come neve al sole. Per capire questa pratica e molte altre modalità di azione dei gappisti basterebbe vedere il film La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo per farsi una idea: le tattiche utilizzate dai Gap non sono poi così diverse da quelle utilizzate dal Fronte di Liberazione Nazionale nella guerra d’Algeria.
Le tecniche di combattimento migliorarono costantemente e le esperienze acquisite da una determinata squadra si aveva cura che venissero trasmesse anche alle altre, onde migliorare l’azione complessiva dell’intero distaccamento cittadino.
Azioni principali dei Gap a Bologna
È impossibile rendicontare tutte le azioni fatte dai gappisti bolognesi nell’arco della guerra di Liberazione. Tuttavia alcune sono degne di menzione per la loro importanza e l’audacia con cui vennero portate a compimento. Ne ricordiamo due.
La prima è la liberazione dei detenuti presso le carceri di San Giovanni in Monte nell’agosto del ’44. Come si è detto, qui venivano rinchiusi molti detenuti, sottoposti a sevizie e poi molto spesso fucilati. Per impedire che quello scempio proseguisse si organizzò un piano di attacco che coinvolse solo 12 uomini. Se qualcuno ha modo di vedere il palazzo di San Giovanni in Monte, ancora oggi noterà che è localizzato su una piccola collinetta antistante Piazza Santo Stefano, dall’altra parte di via Farini. Vi si accede frontalmente per una strada ripida e stretta, così come ripide e strette sono le altre strade di accesso al plesso. I gappisti non potevano sperare di condurre un attacco diretto e quindi si rivolsero al travestimento e all’inganno, come era solito fare in altre circostanze. Una parte dei 12 si vestì da fascista e da soldato tedesco (due dovevano saperlo anche parlare il tedesco: per questo si chiamarono all’occorrenza dei combattenti da Castelmaggiore), un’altra da partigiani catturati. L’approccio al complesso avvenne di notte con un paio di macchine e una volta arrivati i gappisti scesero dai mezzi ed entrarono nei loro ruoli. Alla visione di loro presunti “camerati” con dei partigiani catturati le sentinelle dell’ingresso non esitarono ad aprire i cancelli. Una parte dei gappisti rimase fuori per occuparsi di loro e ucciderle al momento opportuno, il resto si fece strada grazie alle armi fatte passare sotto i giubbotti e aprirono tutte le celle che capitavano a tiro. Furono liberati anche i detenuti comuni, in modo tale che con la loro fuga i partigiani avessero maggiori possibilità di non essere riconosciuti e catturati. I partigiani liberati seguirono i gappisti in diverse “basi” e località, gli altri si dispersero nell’oscurità. In tutto più di 400 detenuti scapparono, salvati molto spesso dalla fucilazione. L’operazione non durò più di 15 minuti.
La seconda azione è quella all’albergo di lusso Baglioni, in via Indipendenza, dove era localizzato il comando tedesco e repubblichino della città. In realtà di azioni ce ne furono due, una andata male e una andata a buon fine, ma non si può comprendere la seconda senza la prima. L’obiettivo era comunque uno: far saltare in aria tutto l’edificio, con i fascisti e i tedeschi al suo interno.
La prima azione si fece la notte del 29 settembre 1944. I gappisti, vestiti da fascisti e in borghese, arrivarono in macchina all’albergo per trovarsi di fronte al suo ingresso delle automobili tedesche e degli ufficiali intenti a conversare tra di loro. Tre dei partigiani entrarono nell’albergo senza gettare eccessivi sospetti e puntarono la pistola al portiere, costringendolo ad aiutarli a traportare il tritolo dalla macchina. Dentro altri gappisti disarmarono i fascisti di guardia nell’atrio, mentre nella grande sala dell’albergo tedeschi, fascisti e prostitute facevano festa senza accorgersi di nulla. Venne quindi trasportato il carico (90kg) al primo piano e accesa la miccia per l’esplosione che si doveva verificare dopo 5 minuti. Accesero anche una bomba più piccola a nove minuti e sparsero della benzina in giro. Tuttavia al pian terreno nell’atrio ad un gesto troppo brusco di un fascista disarmato si rispose con una raffica che lo mise a tacere. Subito dopo per evitare reazioni di sorta i gappisti si diressero nella sala grande e incominciarono a impiombare tutta una serie di uomini seduti ai tavoli. Venne ucciso anche uno dei “liberatori” di Mussolini dal Gran Sasso. I gappisti, nella fretta, non diedero fuoco alla benzina e uscirono fuori sparando all’impazzata, contrastando la reazione dei tedeschi all’esterno e, con il supporto decisivo dei compagni che non erano entrati nell’edificio, riuscirono alla fine a fuggire. In seguito però si scoprì che solo la bomba minore esplose, uccidendo un singolo ufficiale. Quella maggiore fece cilecca. I Gap non si ritennero soddisfatti del risultato. Così, una quindicina di giorni dopo, ritentarono il colpo. Vista la rinforzata sicurezza interna non era pensabile mettere il tritolo all’interno, ma i fascisti e i tedeschi commisero un serio errore: venne lasciata sguarnita di protezione la parte esterna dell’edificio, a differenza della prima volta. Così, dopo che due macchine arrivarono nei pressi dell’albergo da direzioni opposte, i gappisti, toltisi le scarpe per non fare rumore durante l’approccio all’edificio, posero ai due lati della facciata 180 kg in totale di tritolo, accesero le micce e si allontanarono. Lo scoppio fracassò tutto il palazzo e svegliò tutta la città. Il rimbombo venne sentito anche nei paesi vicini e per chilometri si levò il bagliore delle fiamme dal centro della città. I tedeschi e i fascisti che non morirono subito si misero in strada ad urlare, feriti ed ustionati. Con l’uccisione di tanti fascisti e tedeschi, l’albergo fu quindi abbandonato come comando centrale.
Due gappisti: “Gianni” e “Mimma”
Così come possiamo evidenziare l’audacia e la bravura dei Gap nei due esempi sopra riportati, così possiamo sottolineare la stessa cosa con la storia personale di due di loro, entrambi medaglia d’oro al valor militare.
Massimo Meliconi, nome di battaglia “Gianni”, nel 1944 aveva 19 anni. Di famiglia operaia, lui stesso divenne operaio meccanico in
giovanissima età. Nei Gap era rispettato da tutti i suoi compagni, che ne invidiavano la calma e l’eloquenza. Il 16 luglio si incontrò con altri due compagni in una via del centro di Bologna (via Oberdan), ma vennero braccati da ufficiali della G.N.R. che si erano insospettiti di loro. Si videro costretti quindi a far fuoco ed a ritirarsi. Presto nella zona accorsero decine e decine di militi e di soldati tedeschi richiamati dagli spari. Il conflitto a fuoco proseguì ma Massimo si rese conto che per fuggire qualcuno doveva coprire gli altri. Così rimase lui, solo, a combattere contro i fascisti, rifugiandosi dentro una casa diroccata da un bombardamento che divenne la sua fortezza. Venne accerchiato da un centinaio di fascisti ma riuscì a buttarne giù parecchi. Riuscì a resistere per ore dietro alle macerie della casa. Alla fine venne ferito, eppure non disperò. Pur non avendo più munizioni si risolse nel gettare una pietra della casa contro i nemici, al che gridò: “I Gap mi vendicheranno! Morte al fascismo! Morte ai tedeschi!”. Nel momento in cui afferrò un’altra pietra venne preso in pieno da una raffica e morì. In suo onore la Brigata decise di chiamarsi 7a Brigata Gap “Gianni”, ed è così che il suo nome è passato alla storia, legato indissolubilmente con quello di tutti gli altri gappisti che senza esitazione morirono per i loro ideali.
Irma Bandiera, nome di battaglia “Mimma”, crebbe invece in un contesto differente. Era di famiglia agiata e non conobbe gli aspetti duri dell’esistenza di un proletario, ma in lei albergava un istintivo sentimento di giustizia. Questo sentimento la fece avvicinare lentamente al movimento resistenziale, non potendo più tollerare le tragedie e le ingiustizie di cui era testimone quotidianamente. Incominciò ad esplorare una nuova visione del mondo, a rigettare il suo passato e prese la decisione di dare il suo contributo alla lotta antifascista. Nel ’44, a 29 anni, divenne staffetta dei Gap, ma in agosto venne catturata dai fascisti che la tennero viva per 6 giorni, cercando di ottenere informazioni sui suoi compagni. Irma, sotto tortura, non disse niente. Con il corpo rotto dalle ferite e dai dolori, i fascisti la portarono di fronte a casa sua, dove esclamarono che se non si decideva a parlare non avrebbe più rivisto i suoi genitori. Irma ancora si rifiutò. Così la portarono nei pressi del Meloncello e qui la uccisero a colpi di mitra.
Quale forza ebbe Irma, quali saldi principi dovettero innestarsi in lei nel breve periodo di tempo che va dall’inizio della guerra di Liberazione alla sua morte per poter resistere ad una tale sorte con un tale contegno e una tale dignità? Non si può rispondere a questa domanda senza capire l’essenza di quella che fu la Resistenza in Italia.
La dedizione di Irma alla causa resistenziale fu eguale a quella di tutte le altre donne che nel bolognese e sotto la 7a Gap lottarono, spesso anche con armi alla mano, per liberare l’Italia dal nazi-fascismo. Senza di esse, senza il loro ruolo primario di staffette partigiane, senza le loro comunicazioni e i loro rifornimenti presso le differenti squadre, senza le cure mediche che molte di loro rivolsero sui partigiani feriti dalle battaglie, semplicemente la lotta non sarebbe stata portata avanti e non vi sarebbe stata vittoria.
I gappisti della pianura
Se i partigiani dell’Appenino combatterono in un contesto rurale costituito in prevalenza da larghi tratti di natura selvaggia e da un tessuto sociale composto perlopiù da piccoli contadini e allevatori, i partigiani della pianura lo fecero in una campagna fatta da braccianti e da mezzadri con una lunga tradizione di lotta socialista alle spalle, organizzata in numerosi paesi e importanti vie di comunicazione. Non sarebbe stato possibile organizzare le forze partigiane in tale contesto, se non con il supporto costante della popolazione contadina che difatti offrì ripetutamente il suo appoggio alla lotta di Liberazione. I gappisti della pianura bolognese, di cui abbiamo ricordato precedentemente le quattro formazioni principali, si ritrovarono in prima linea nella difesa dei diritti dei contadini contro gli ammassi fascisti e le requisizioni tedesche. Inoltre, appoggiarono e difesero con le armi in pugno le manifestazioni di protesta fatte dalle donne nelle piazze dei paesi contro l’assenza di generi di prima necessità e il loro cattivo confezionamento, contro le ordinanze di leva e a favore della pace. Si approfittò di situazioni di questo tipo per portare avanti assalti armati contro caserme repubblichine isolate e per assaltare i municipi con l’obiettivo di distruggere i registri delle tasse e quelli del servizio di leva. I gappisti sostennero i contadini anche contro le requisizioni di bestiame ordinate dai tedeschi e portarono avanti la cosiddetta “battaglia delle trebbiatrici”, con l’obiettivo di sabotare le macchine agricole per ostacolare il più possibile la trebbiatura del frumento da consegnare alle truppe di occupazione. Così riportò «Il lavoratore agricolo», organo dei contadini e dei braccianti bolognesi: «Perché i tedeschi che finora non si sono preoccupati che di affamarci e farci soffrire, proprio ora si preoccupano tanto di far trebbiare per sfamare le popolazioni? La risposta è chiara: farci trebbiare il grano con la lusinga di 2 q di grano per persona e portarci via tutto il rimanente e, più tardi, saccheggiare le nostre case, per rubarci anche quella parte che serve al nostro fabbisogno. Noi non cediamo! Non sono valse e non varranno tutte le lusinghe e tutte le minacce: non abbiamo trebbiato e non trebbieremo! Il grano è nostro, è di tutto il popolo italiano; lo abbiamo prodotto a costo di sudori e di fatiche; nessuno oserà impossessarsene. Noi siamo pronti alla difesa e all’offesa; le nostre squadre armate vegliano pronte a scattare, i partigiani che noi ospiteremo nelle nostre case e nei nostri campi, saranno l’avanguardia eroica della nostra sacrosanta lotta…».
A queste azioni si aggiungevano le uccisioni di fascisti e soldati tedeschi a ripetizione, la distruzione di caserme e depositi di munizioni e altre azioni squisitamente militari. Naturalmente tutto ciò ebbe un prezzo in vite umane, anche civili: i tedeschi e i fascisti condussero alcune rappresaglie per intimidire la popolazione che appoggiava la lotta partigiana. Ma anche qui, ad un atto barbarico dei fascisti, i gappisti rispondevano sempre con forza decuplicata. La migliore difesa, infatti, non era starsene con le mani in mano e subire passivamente, bensì attaccare senza tregua.
I contadini e i braccianti, dal canto loro, si spesero con tutti i mezzi che poterono in favore dei combattenti: procurando loro da mangiare e un rifugio sicuro; collaborando in servizi di informazione; aiutando nei collegamenti tra le diverse formazioni. Le ragazze di campagna fecero le staffette e anche loro, in qualsiasi occasione, ebbero modo di aiutare i combattenti partigiani. Le madri, magari coi figli scappati in montagna o morti al fronte in Russia o in Africa, ritrovarono nei giovani partigiani i loro ragazzi scomparsi. Quando la stagione era buona, i gappisti si sistemavano pure nei campi di canapa o di granturco. All’arrivo del freddo si andava di preferenza nei fienili e in altri rifugi di fortuna messi a disposizione dalla popolazione.
Epilogo: da Porta Lame alla Liberazione. Un bilancio
Non è questo il luogo per fare una descrizione dettagliata dei fatti della Battaglia di Porta Lame e quelli della Bolognina, di cui ci proponiamo magari in un successivo articolo di trattare. Solo qualche notazione è d’obbligo come epilogo a quanto fino adesso esposto.
La Battaglia di Porta Lame, giustamente ricordata come uno dei fatti più importanti della storia della Resistenza non soltanto italiana ma di tutti i Paesi occupati dai tedeschi, si inserisce nel contesto della prospettata e poi mai compiuta offensiva anglo-americana dell’autunno ’44 che avrebbe dovuto portare allo sfondamento della linea Gotica e alla liberazione del Nord Italia. Tuttavia gli anglo-americani, spinti anche da ragioni politiche, non procedettero ad una offensiva su larga scala e le indicazioni da loro diramate precedentemente e a cui il C.U.M.E.R. rispose positivamente, in merito al concentramento delle forze partigiane nelle varie città della pianura, si dimostrarono portatrici di gravi difficoltà per il movimento partigiano nel complesso e nel bolognese in particolare.
Il concentramento delle truppe in città nelle settimane precedenti il 7 novembre (2’000 unità in totale), fu una operazione piena di insidie e difficile sotto ogni punto di vista. Nonostante alcune perdite significative essa venne portata a termine con un discreto successo, con l’alloggiamento dei partigiani in molte località urbane, fra cui al Macello comunale e all’Ospedale maggiore (non molto distanti l’uno dall’altro, situati all’interno delle mura), dove si stanziarono i gappisti dei vari distaccamenti, per un totale di circa 300 unità: 75 per il Macello e 230 per l’Ospedale.
Quando, la mattina presto del 7 novembre venne scoperta la base del Macello durante un rastrellamento, la battaglia ebbe inizio. L’accerchiamento della zona durò per molte ore fino a pomeriggio inoltrato, con varie perdite da ambo i lati e con i nazi-fascisti che non esitarono ad impiegare l’artiglieria pesante, finché i gappisti non furono costretti a sganciarsi e a ritirarsi attraverso le acque del Navile che scorreva lì vicino. Nel pomeriggio i Gap dell’Ospedale, che non intervennero inizialmente per sostenere i compagni del Macello (sicuri della loro forza e preoccupati in primo luogo di non far rilevare le proprie posizioni al nemico), quando udirono il silenzio dopo molte ore di battaglia, entrarono in azione con una manovra di accerchiamento presso il concentramento delle truppe nazi-fasciste e dei loro mezzi su porta Lame, facilitando con ciò la ritirata delle unità che avevano già combattuto. Le truppe nemiche si sbandarono, subendo notevoli perdite. I partigiani attaccarono senza requie e furono alla fine padroni della situazione. Il bilancio finale fu di 12 morti e 15 feriti tra le file gappiste. Per quanto riguarda i tedeschi e i fascisti le fonti dell’epoca parlarono di 200 vittime: oggi il numero è stato ridimensionato, ma è in ogni caso certo che parecchie decine di militi, brigatisti e soldati tedeschi vennero uccisi o feriti.
Una volta terminato l’assalto le disposizioni furono di ritornare in differenti “basi” sparse in città, fra cui in Bolognina. Il giorno 15 novembre venne fatto un rastrellamento nei pressi di Piazza dell’Unità e lì ci fu uno scontro a fuoco molto violento che costrinse i gappisti ivi nascosti in uno stabile (poco meno di una ventina) a fuggire, con parecchie perdite.
Questo funesto episodio non fu che l’inizio di una serie di sciagure che dovettero subire i gappisti nelle settimane successive. Così come l’arrivo in città dei distaccamenti di pianura si rivelò un’ardua impresa, non meno difficoltoso si rivelò il ritorno nelle proprie zone di origine, dopo che il proclama Alexander (13 novembre) fece di fatto definitivamente tramontare qualsiasi prospettiva di insurrezione, almeno sino alla primavera successiva. Il distaccamento cittadino venne invece spezzettato e decentrato, in attesa di un futuro raggruppamento generale. In questo periodo di riflusso molti gappisti, sotto l’ansia crescente dei comandi germanici di reprimere il movimento partigiano e assicurarsi le retrovie per la successiva offensiva Alleata, furono scovati e fucilati. Le misure di sicurezza dei nazi-fascisti vennero intensificate e le vie di accesso alla città fortificate ancora di più. Le misure cospirative restrittive, che tanta parte ebbero nel mantenere in piedi la struttura gappista precedentemente, subirono un allentamento. Ciò poté avvenire, in primo luogo, per il concentramento di un così vasto numero di unità all’interno della città, molte delle quali “arruolate” di fresco; poi per colpa dell’azione di alcune spie.
Una vicenda tragica fu quella della Villa Romiti, dove si raccolsero molti dei feriti di Porta Lame e della Bolognina. Il 13 dicembre le brigate nere accerchiarono l’edificio, catturarono i partigiani, li seviziarono (vennero messi a torso nudo e fustigati) e poi li uccisero. In tredici perirono.
Ma tutto questo non servì a diminuire il morale dei combattenti del popolo. Le misure cospirative vennero fatte oggetto di una nuova sorveglianza rigorosissima e i gappisti si impegnarono come non mai nell’esecuzione dei traditori e delle spie. Le azioni si infittirono e la brigata si rafforzò al volgere di ogni giorno, sia in città che in pianura, in vista dell’insurrezione per cui tutti fremevano. Dall’inizio del 1945 fino ad aprile la 7a portò a compimento centinaia e centinaia di azioni contro il nemico.
La cittadinanza si rese conto che il momento stava per arrivare. Un manifestino che circolò tra i partigiani e la popolazione dopo le battaglie di Porta Lame e della Bolognina, e indirizzato al comandante tedesco, recitava in parte: «L’odio mortale di tutto il popolo vi circonda… Odio mortale, perché voi ed i vostri servi, dei quali abbiamo visto le rapide terga nelle vie della città durante la battaglia del 7 novembre, dopo aver assassinato a migliaia lavoratori e patrioti, abbandonati agli angoli delle strade, immersi nel loro sangue, stimati professionisti, glorie della nostra Università, celebrità della nostra Clinica, amati da tutta la popolazione… voi minacciate di distruzione Bologna, Herr Kommandant, questa nostra vecchia ed amata città dove ogni pietra è una pagina di storia. Oh, se lo poteste, voi non esitereste certo! Ma lo potrete? No, non lo potrete. Perché? Perché voi sapete meglio di noi che Bologna è come un vulcano ardente che cova sotto la cenere, la cui eruzione vi travolgerà. Voi credete di continuare, Herr Kommandant, ad oltraggiare, saccheggiare, assassinare i bolognesi? Avrete quello che vi spetta oggi; e domani, il mezzo milione di abitanti, che conta attualmente il capoluogo dell’Emilia, chiederà a chi può armi prima del pane per inseguire ed annegare i tedeschi nel Reno e nel Po come cani rabbiosi».
Il 10 aprile il comando di Brigata diramò l’ordine per il concentramento delle unità di pianura nel centro cittadino. Venne poi il giorno della Liberazione. Nella notte tra il 20 e il 21, con le truppe Alleate in avanzata, i tedeschi si ritirarono senza fare troppo rumore, consapevoli e timorosi delle forze partigiane che stavano già entrando in azione in diversi punti strategici della città. I fascisti, per quei vigliacchi che erano, fuggirono anch’essi o si dileguarono, se non venivano catturati.
Verso le 3 del mattino i Gap presidiavano già tutte le porte della città. I cittadini che li vedevano, al sorgere dell’alba, li salutavano. Le prime truppe Alleate, quelle polacche, entrarono nel centro urbano per ritrovarsi di fronte a San Petronio in Piazza Maggiore un gran numero di gappisti, i quali occuparono anche la Questura. Il comando del C.U.M.E.R. si installò invece a Palazzo Re Enzo. Quando arrivò anche un ufficiale di collegamento inglese, egli non riuscì a credere che la città fosse oramai sicura. Grande merito di questa vittoria va certamente ascritta a tutte le forze partigiane del bolognese e in particolare ai gappisti.
Quando tutto finì si festeggiò per le strade, popolo e partigiani assieme. Per iniziativa spontanea della cittadinanza, già quel giorno si iniziò a depositare – per poi assumere successivamente le dimensioni di un pellegrinaggio – fiori e immagini degli antifascisti caduti nel bolognese sul muro di Palazzo d’Accursio (dove ancora oggi c’è il memoriale), che per molto tempo aveva visto gettati ai suoi piedi i corpi dilaniati dai proiettili e dalle torture dei partigiani giustiziati, lasciati lì ad opera dei tedeschi e dai fascisti come monito. Lì i carnefici scrissero: “Posto di ristoro per gappisti”.
Ma se la crudele tirannia dell’imperialismo nazi-fascista crollò sotto i colpi della Resistenza e della coalizione antifascista con alla testa l’Unione sovietica, il programma per cui i gappisti si batterono venne tradito e loro stessi subirono – ad opera di quelle istituzioni e di quella Repubblica per cui in teoria combatterono – diverse persecuzioni, mentre i fascisti venivano rimessi libertà. Molti collaborazionisti, per non parlare degli industriali e degli agrari che per venti anni avevano sostenuto il fascismo, subivano la stessa sorte.
Quella libertà, quella democrazia del popolo, quell’aspirazione al socialismo per cui molti partigiani morirono non venne realizzata. Se la loro morte fu il prezzo da pagare per la Liberazione, il loro ricordo per molti si traduce oggi nello stravolgimento dei loro ideali, nella strumentalizzazione del loro sacrificio, se non nella vera e propria calunnia. Ma come spiegare, allora, il motivo per cui senza esitazioni migliaia di loro morirono cantando Bandiera Rossa, L’Internazionale, oppure gridando “Viva Stalin!”?
È perciò il compito delle nuove generazioni comprendere il vero significato della lotta resistenziale e portare avanti quel lascito. Esso deve essere il pane quotidiano con cui tutti giovani delle classi popolari di oggi possono identificarsi, accettando e comprendendo nella sua essenza più profonda che la lotta politica per una società diversa non può realizzarsi senza coscienza politica, senza quella necessaria disciplina e senza quello spirito di sacrificio che dovrebbe informare ogni piccolo gesto quotidiano, per ritessere quei fili della ricostruzione comunista che daranno un contributo essenziale alla realizzazione (una volta per tutte) del programma resistenziale. Il programma, in definitiva, dei gappisti di Bologna, che più di tutti hanno dimostrato all’Italia e al mondo il valore della lotta partigiana. Possiamo essere fieri di prendere insegnamento dai loro sforzi per scrivere quelle che saranno le future pagine della lotta della classe operaia e delle masse popolari contro l’oppressione capitalistica e imperialistica.