di Gabriele Giacomelli e Giacomo Venturato
In questo 25 aprile senza la possibilità di scendere in piazza collettivamente, il primo dalla Liberazione, siamo costretti a trovare dei modi alternativi di vivere questa giornata. La lettura di libri a tema resistenziale è uno strumento insostituibile per apprezzarne lo spirito, per indagare più a fondo quegli eventi, per scoprire con il mordente della narrazione gli ideali ancora attuali che mossero centinaia di migliaia di giovani ad impugnare le armi per farla finita con il fascismo e con il grande capitale che lo ha voluto al potere. Vi proponiamo una recensione del libro “Giorni di fuoco. Le grandi battaglie della Resistenza”, pubblicato in occasione del decimo anniversario del 25 aprile e recentemente (2016) edito da RedStar Press.
Silvio Micheli nasce a Viareggio il 6 gennaio del 1911 da una famiglia di lavoratori. Studia e si forma a Pisa e dal 1935 inizia a lavorare come perito industriale, spostandosi dal nord al sud Italia. Sono principalmente due le città che lo vedono attivo in circoli intellettuali antifascisti, Napoli e Viareggio. Infatti, dopo l’esperienza lavorativa di Napoli, decide di tornare in famiglia e sotto la spinta di Pavese sceglie di vivere scrivendo. Lo stesso Micheli affermerà: “narrare, infatti, per me, è soltanto un modo di essere come lavorare o fare all’amore”. Questa piena e naturale dedizione alla scrittura lo porterà alla realizzazione del suo libro più celebre “Pane Duro”, con cui vinse il premio Viareggio nel 1946 e che venne tradotto in URSS, Romania, Polonia e Cecoslovacchia.
Lo stile che lo caratterizza è legato al “linguaggio degli operai […] chiaro, preciso, teso verso un futuro diverso di rapporti umani e sociali, e di libertà, una libertà di valore attivo, non metaforica, non contemplativa”. Così Micheli unisce la letteratura al corso degli eventi storici e sociali, tra cui la Resistenza. Tant’è che incomincia a vivere quei “Giorni di Fuoco” nel 1942, quando sceglie di darsi al “bosco”, disertare e unirsi ai partigiani. Durante la lotta partigiana non smette di scrivere e nell’agosto del ‘45 finisce la seconda versione “Pane duro”(la prima andò persa dopo che i nazisti perquisirono la casa editrice), un libro-manifesto in opposizione alla cultura falsa e borghese, per raccontare delle “mani di pietra” e del sudore della classe lavoratrice, che stava soffrendo l’oppressione nazifascista.
Proprio quelle stesse persone che furono la spina dorsale della Resistenza e che sono in “Giorni di Fuoco” i protagonisti di sei importanti battaglie: la liberazione di Cuneo, la battaglia di Fara-Romagnano-Borgosesia, la battaglia di Montefiorino, il salvataggio di Genova, la battaglia dell’Alto Friuli, la “Pattuglia fantasma” (partigiani attivi in Piemonte sotto il comando del celebre partigiano Moscatelli, che portarono in salvo il maggiore jugoslavo Vassic Kosta verso la Svizzera). Di queste abbiamo scelto di raccontarvi le tre battaglie, a nostro giudizio, più significative.
Il libro venne pubblicato da Editori Riuniti nel 1955 (ora disponibile con una nuova edizione della Red Star Press), in occasione del decimo anniversario della Liberazione. E’ il frutto non solo della sua esperienza di partigiano e scrittore, ma anche di giornalista. Dagli anni ‘50, infatti, viene data a Micheli la responsabilità di gestire la terza pagina de “l’Unità”, per cui scrisse dinamici racconti e lavori d’inchiesta. Ed è proprio questo carattere d’inchiesta storica, storia orale si potrebbe dire, che costituisce il retroscena del libro.
Nell’introduzione del libro possiamo trovarne qualche traccia:
“Pensavo cos’era dieci anni fa quella gente, che cosa facevano e provavano, e mi chiedevo se erano stati proprio loro che realmente avevano fatto.[…] Era gente che aveva rischiato la pelle a ogni passo quando dieci anni or sono non v’era altro posto che per i fatti. Ora quei fatti mi venivano affidati perché io li tramutassi in parole, perché in quelle parole ci martellassi tutta la vita possibile e la verità. La verità non poteva scaturire dal racconto del primo incontrato. Questo lo comprendevo. Ero dunque lì per ascoltare, e appuntare”.
La liberazione di Cuneo e l’eroica lotta di Genova
La prima delle grandi battaglie della resistenza presentate da Micheli nel suo scritto è l’eroica battaglia per la liberazione di Cuneo, combattuta dai partigiani della V zona dal 25 all’alba del 29 aprile, quando gli ultimi reparti tedeschi si ritirarono dalla città e i “duemila partigiani caduti nei venti mesi di lotta, rivivevano già nei canti dei valligiani che scendevano a raggera su Cuneo come per un appuntamento di pace e di vita, dopo tanto lottare per questo”. Nel racconto vivo e frizzante di Micheli vengono ripercorse le fasi principali dei quattro giorni di combattimenti che videro impegnati gli oltre 6.500 partigiani delle vallate contro un nemico superiore per numero ed equipaggiamenti. Al comando della medaglia d’argento al valor militare Ettore Rosa e con il leggendario commissario “Pietro” (Gustavo Comollo), che aveva scontato ben 13 anni tra carcere e confino dopo la condanna del Tribunale Speciale, le brigate partigiane furono protagoniste di un vero e proprio capolavoro di tattica militare, nonostante la pioggia incessante che rese ancora più difficoltose le manovre di spostamento tra le varie vallate disposte a raggera attorno alla città di Cuneo.
“Nella sanguinosa conquista di Cuneo c’è il significato, starei per dire il simbolo, della lotta di un popolo insorto a riscattare con le armi in pugno quella giustizia e quella libertà cui sempre aveva anelato, massimamente attorno al ventennio fascista di miserie e guerre”. La battaglia per la liberazione di Cuneo, così come l’intera lotta di liberazione partigiana che culminò nell’insurrezione nazionale del 25 aprile, sarebbe stata impossibile infatti se non avesse avuto il pieno appoggio da parte della popolazione. Il grande merito delle forze politiche e sociali che diressero l’insurrezione e l’intero moto resistenziale fu proprio la straordinaria capacità di legare alla lotta militare per la sconfitta della macchina bellica nazifascista le più profonde aspirazioni di rinnovamento sociale, politico ed economico della maggioranza del popolo italiano. Senza questo indissolubile legame l’intera lotta di liberazione non sarebbe potuta essere combattuta, né tantomeno vinta. L’artefice principale di questo legame di organicità tra lotta militare e lotta politica fu la classe operaia: essa conquistatasi, grazie alla guida del Partito Comunista in venti anni di lotta clandestina, il ruolo di futura classe dirigente del paese, fu in grado di interpretare i desideri di pace, libertà e giustizia del popolo italiano e di fornire alla guerra di liberazione nazionale le sue forze migliori, rappresentandone la spina dorsale. Di operai e contadini erano infatti composte la maggioranza delle brigate partigiane che combatterono in quei 20 mesi di lotta tra le aspre vallate cuneesi, culminati con l’insurrezione vittoriosa e la liberazione della città. A Silvio Micheli va il merito di essere stato in grado di riportare mirabilmente nelle sue pagine il più profondo e intimo sentimento che animava la lotta di quegli uomini, spesso giovanissimi ma determinati a conquistare un futuro diverso dopo un’intera, o quasi, vita passata sotto il tallone della macchina repressiva fascista. Le parte migliore del paese, che aveva subito le più dure condizioni di oppressione dalla dittatura più aperta del capitale e delle forze reazionarie, trovava nella brigata partigiana e nella straordinaria, eroica e drammatica esperienza della lotta di liberazione quell’embrione di società futura che con le armi, l’impegno e il sacrificio di centinaia di migliaia di uomini e donne si andava costruendo: “erano quasi tutti operai e contadini, abitanti di quelle vallate. Avevano parlato spesso e a lungo di patria, libertà e comunismo. Ma nessuno aveva bisogno di miti e gli evviva da gridare erano morti nel fondo del loro cuore dal giorno che avevano impugnato quell’arma contro il nemico del popolo. E loro erano popolo dal primo all’ultimo. E popolo erano gli intellettuali e gli studenti e tanti altri ragazzi che da venti mesi vivevano sparando insieme a loro. Perché avevano capito la realtà e il modo di cambiarla. Anche per questo si guardavano fiduciosi, marciando in silenzio”.
Una popolazione, quindi, unita ai partigiani e decisa a farla finita una volta per tutte con la guerra e con il fascismo: così a Cuneo e ovunque nel resto del Nord Italia dove nel mentre divampava l’insurrezione nazionale come stabilito dal comunicato del CLN. Tutte le principali città operaie divenivano teatro degli ultimi e decisivi combattimenti tra le forze partigiane, ormai del tutto unite alla popolazione, e le truppe nazifasciste, su cui si riversò tutto l’odio popolare da tempo covato: “le strade si trasformarono in torrenti di gente che voleva seguire i partigiani, senza ancora osare di precederli. Venti mesi di terrore tedesco li spingeva ad agire con molte riserve, sebbene intenzionati nel fondo dell’animo a raggiungere qualcosa di bello e di grande. ‘Dateci le armi!’, gridavano. Ma i partigiani ne avevano appena per loro”. Fu questo anche il caso di Genova, i cui fatti relativi alla lotta di liberazione sono il soggetto di un altro capitolo di “Giorni di fuoco”. Al racconto magistrale degli avvenimenti riguardanti le giornate insurrezionali, iniziate la sera del 23 aprile 1945, si unisce un’altrettanta mirabile narrazione sulle meticolose e rischiosissime azioni di sabotaggio della macchina bellica nemica e di salvataggio dell’intero porto dai piani di distruzione nazifascisti, portate avanti dalle cellule comuniste degli operai del porto di Genova fin dai primi giorni dell’occupazione tedesca. Le cellule comuniste del porto rappresentarono infatti i primi nuclei da cui si sviluppò l’intero movimento insurrezionale genovese: “ Così risultò evidente che gli uomini del Partito comunista avevano previsto giusto intervenendo per primi, e bisogna dirlo, da soli, quando al contrario vi sarebbe stato bisogno, massimamente da parte dei militari alle armi, di approfittare dello stato di paura verificatosi in mezzo alle file nemiche. […] Va infatti detto che sin dal 25 luglio, ma ancor più dall’8 settembre in poi, compresa la necessità d’intervenire subito militarmente per salvare il porto e la città, il Partito comunista si mise alla testa del movimento popolare di liberazione. Ebbe così inizio la dura, martellante opera di sminamento condotta giorno per giorno dalle cellule operaie portuali trasformate dal Pci in snelli organismi militari: un’opera da formiche, lunga e paziente, che impedirà –sia pure a prezzo di molte vite umane e sacrifici e inenarrabili atti d’eroismo- l’attuazione dell’accanito piano fascista”.
L’opera di Micheli si configura dunque anche come un ottimo strumento di contrasto al dilagante revisionismo storico portato avanti dalle classi dominanti nei confronti della lotta di liberazione, in particolare sul ruolo che la classe operaia e il suo partito ebbe in tale processo. Micheli rende infatti piena giustizia all’indispensabile ruolo dei comunisti nell’organizzazione militare e politica della resistenza, da molti ormai presentata come un moto spontaneo da parte dell’intero popolo italiano nei confronti dell’invasore. Al contrario la lotta di liberazione assunse sì un carattere di massa in grado di trascinare nella lotta la maggioranza del popolo italiano, ma tale carattere di massa fu raggiunto proprio grazie al necessario ruolo di un’avanguardia organizzata e temprata da un ventennio di clandestinità durante il quale continuò a portare avanti le proprie parole d’ordine di lotta al fascismo all’interno della classe operaia, mantenendo con essa un legame vivo e organico rappresentato dalla cellula sul luogo di lavoro, l’embrione da cui si sviluppò l’intero moto insurrezionale. La lettura di “Giorni di fuoco” offre quindi la possibilità di unire alla straordinaria resa realistica dell’impeto e della drammaticità delle battaglie anche un corretto approccio all’analisi del fenomeno della resistenza nel suo complesso. Un’opera preziosa, dunque, nei giorni che ci avvicinano al 75esimo anniversario della liberazione e che ci sentiamo di consigliare a ogni giovane che desidera far rivivere nel proprio impegno politico gli stessi ideali che animarono la lotta dei partigiani.
La battaglia dell’Alto Friuli
La durissima battaglia dell’Alto Friuli fu il conflitto che portò alla fine di un importante, quanto unica esperienza della lotta partigiana: le zone libere della Carnia e dell’Alto Friuli. Queste aree raccolsero ben 45 comuni sotto il governo dei CLN e delle Giunte comunali. Micheli riassume perfettamente la vita delle zone libere durante il governo partigiano:
“In ogni valle, in ogni paese i partigiani governano la vita delle popolazioni con la Giunta popolare di governo, democraticamente eletta con lo stesso criterio e lo stesso criterio e lo spirito dei CLN, con sede ad Ampezzo. Ma anche le Giunte popolari comunali; i Centri di assistenza per le popolazioni; il ripristino dei servizi (le corriere, le poste, i telefoni e le scuole), i lavori con la costruzione di nuove strade; l’impianto di numerosi magazzini per le provviste di viveri; le opere militari di difesa (fortini, casematte, postazioni ai confini della zona) e i centri di rifornimento e di controllo per l’ammasso del grano”.
Delle vere istituzioni popolari che vedevano protagonisti popolazione e partigiani nella politica dal basso, dove i CLN allargano il governo alle organizzazioni di massa, dalla gestione della giustizia a quella dell’ordinamento scolastico. Dobbiamo ricordare che questa eccezionalità è strettamente legata all’esperienza vissuta dalla popolazione tra il 1917-1918, periodo durante il quale lo spirito popolare assunse forte carattere “antitedesco”. Questo elemento rafforzò di molto il legame e l’estrema fiducia riposta nei partigiani dalla popolazione di quelle zone.
Tuttavia la vita delle zone libere venne presto minacciata da una manovra accerchiante da nord a sud da parte dell’esercito nazifascista. Nelle zone “nude e dirupate” del Tagliamento fino alla Valcellina fu attaccato lo schieramento partigiano (brigata Picelli e brigata sud Arzino), stretto in un “quadrato” nemico. Il primo scontro raccontato da Micheli avviene nel canale del Cellina una gola profonda tra le pareti del monte Lupo, Monte Luara e Covil, parte più a sud della Carnia:
“l’eco tremò a lungo e su toni diversi nelle valli ancora buie e ferme; spalancò case, baite e pascoli alpestri; si ripeté cupo su ogni palmo della Carnia fatta di grotte, nelle bocche e negli occhi dei suoi abitanti. Così per quattro giornate. A passo a passo il nemico incendia case, baite, stalle e tutto della gente carnica: e la stessa gente, vecchi, donne, bambini e infermi, furono trovati distesi in una pozza di sangue sul ciglio delle vie e sotto il muro di casa dove avevano imparato a camminare. Con i rinforzi dalla valle del Piave e il supporto della popolazione i partigiani risposero su tre fronti della valle, casso Cimolais tutti senza lamentare né dubbi né fatica, si buttarono con foga a scavare piccoli fortini-rasoterra, postazioni e trincee sugli orli dominanti e sui crinali”
Mentre le scuole continuano la propria attività, grazie all’importantissimo contributo di gruppi di partigiane, i paesani facevano chilometri da un monte e all’altro per portare munizioni, armi, vivande e indumenti. Mentre le artiglierie dei fascisti battono, i paesi non si fermavano. Qui stava il punto di forza, che permise di mantenere le zone libere della Carnia per ben tre mesi, nonostante le barbarie e il piombo nemico.
Inizia così una difficile battaglia difensiva, in un momento in cui gli angloamericani rifiutano di dare ogni supporto: all’ordine del generale Alexander di cessare il fuoco e di “tornare a casa”, i partigiani capeggiati dal comandante garibaldino “Ninci” (Lino Zocchi) della Garibaldi Natisone risposero “combatteremo fino alla fine, a noi la neve non fa paura”. La Resistenza si aggrappa unicamente alle proprie forze.
All’alba del 27 settembre del 44 ‘le truppe tedesche assaltano il comune di Faedis, in provincia di Udine, la danno alle fiamme e puntano poi sulla Carnia. La strategia dei partigiani è quella di attirare i tedeschi internamente alla Valcellina. Parte così la controffensiva, facendo saltare in aria sul torrente Cellina ed eliminando ogni possibilità di ritirata “annidati come aquile dietro gli spuntoni rocciosi e nelle tane esistenti sulle alte pareti della valle, da lassù poterono incrociare il fuoco delle numerose mitraglie concentrandolo sull’entrata e l’uscita della galleria, costringendo i nazisti e le camicie nere alla ritirata”.
Agli inizi di ottobre venne attaccata l’ansa e la zona nord del Tagliamento dove vengono ingaggiate le brigate Valbut, Carnia, Sud Arzino, Picelli. Si tratta dell’area centrale della zona libera, che i nazisti volevano conquistare con un’aggressione lampo tra ottobre e dicembre. Circa 5.550 partigiani contro 30.000 nazifascisti (tra SS, brigate nere, X MAS e forze mongole) supportati da aviazione, carri armati, treni corazzati e dall’artiglieria che tuonava sulla sponda del fiume.
Dopo un primo momento durissimo di pesanti bombardamenti ed incursioni a Tolmezzo, all’entrata della Val Tagliamento, che vedevano impiegati 4000 tedeschi con reparti fascisti e mongoli, nessun partigiano lasciò il posto di combattimento: più lo scontro si faceva duro, maggiore era tenace la risposta dei partigiani. Case incendiate, cari impiccati, torture, bombardamenti e il pensiero che quelle tragedie si potessero moltiplicare se i nemici avessero oltrepassato il fronte e fossero entrati nelle zone libere, alimentavano la forza con cui i partigiani rispondevano.
Di fronte al rischio poi di essere presi alle spalle presso le zone di Ampezzo e all’impossibilità di fuggire verso la Carnia, il comandante delle divisioni “Ninci” riorganizza le forze, nonostante le grandi perdite, oltrepassa assieme al commissario “Andrea” (Mario Lizzero, incarcerato per sei anni agli inizi degli anni ‘30, scontò sei anni di prigionia, partecipò alla guerra civile spagnola aderendo alla Brigata Internazionale) le linee nemiche che cercavano di accerchiarli e infine giungono ad est di Ampezzo, per raggiungere i comandanti della Divisione Carnia e continuare la lotta anche durante l’inverno, rigettando le continue pressioni attendiste degli angloamericani.
L’ultima fase battaglia, dopo i numerosi rastrellamenti di ottobre, vide “la gioia di compiere il proprio dovere, di non essere vigliacchi, ma essere anzi coraggiosi, il senso profondo della causa che li aveva spinti a unirsi e la presenza fra loro di tanti vecchi compagni-senza un lamento, né un gesto di sfiducia in tanto soffrire- che avevano finito per fare di quei ragazzi dei veri “partigiani”.
Sono 15 giorni di duro conflitto durante i quali la divisione “Picelli” sotto il comando di “Furore” , la “Sud arzino” guidati da “Battisti”, poi da “Grillo” e la “Ippolito Nievo sotto “Tribuno si scontrano contro le forze nazifasciste, superiori per sei volte tanto, comandate dallo stesso Kesselring.
Cercarono di resistere per quanto possibile per poi ricongiungersi in Clautana, (sentiero tracciato dagli austriaci dopo Caporetto nel 1917 per raggiungere il Piave). Dopo che il Comando venne attaccato alle spalle da Longarone-Cimolais si spostano verso la Val Selis. Nel frattempo, il 7 dicembre, il celebre Battaglione Stalin, composto da ex prigionieri sovietici, incalza i nazisti nella battaglia campale della Forcella del Rest. Mentre una tempesta di neve investe le prealpi carniche, si sente il tuonare di indomiti “Urrà” e lo scoppio di decine di bombe a mano sprigionarsi contro il nemico. Tuttavia la stessa neve e il freddo che ricopre i corpi dei tedeschi, colpiva ancora più forte le donne e gli uomini rivestiti di stracci . Il Comando generale, divenuto un comando mobile, ordina a tutte le forze partigiane di costituirsi in piccoli gruppi e continuare a lottare.
Cessarono così i tre mesi di battaglia dell’Alto Friuli. Una battaglia che rimane ancora una delle più memorabili nella storia della Resistenza. Ma la lotta non cessò, portando l’Italia a quel 25 aprile di libertà.