Oggi è il 72esimo anniversario del Giorno della Nakba, la catastrofe letteralmente in arabo. Oggi è dovere di tutti commemorare uno degli eventi più bui della storia palestinese, per non dimenticare ciò che dal 2010 è formalmente vietato ricordare dallo stato israeliano. Perché la Nakba non è un evento concluso, questa giornata per noi rappresenta milioni di uomini e di donne, sia quelli strappati dalla propria terra nel 1948 sia quelli a cui oggi è negato il diritto al ritornarvi e tutti coloro che lottano ogni giorno per una Palestina libera dal sionismo e dall’occupazione.
Dopo la sconfitta dell’Impero Ottomano nella prima guerra mondiale la Palestina fu prima sotto il dominio britannico, tra il 1920 e il 1948, e poi tripartita in Stato arabo, Stato ebraico e zona internazionale a seguito della decisione del 29 novembre 1947 delle Nazioni Unite.
Fino al 1947 la Palestina era abitata da un 1.237.000 di arabi e 608.000 di ebrei, che appunto convivevano nelle tre diverse aree (Stato Arabo con: 99% pop. araba e 1% pop. ebraica; Stato ebraico con 45% pop. araba e 55% pop. ebraica; Zona Internazionale con: 51% pop. araba e 49% pop. ebraica). Lo stesso anno l’Onu organizzò la spartizione della terra assegnando il 40% a un milione e mezzo di arabi e il restante 60% all’Agenzia Ebraica. Il voto dell’ONU porta da un lato all’abbandono della Palestina da parte delle forze britanniche e dall’altra alla proclamazione della Stato d’Israele del 14 maggio 1948.
Sin dal giorno seguente della proclamazione del nuovo Stato dei commando di sionisti diedero il via al processo di pulizia etnica del popolo palestinese. Il risultato furono 770.000 palestinesi diventati rifugiati e stranieri nella propria terra, costretti ad abbandonare circa 532 villaggi.
I villaggi vennero distrutti e il 92.6% di quei territori, segnati dalle fiamme e dalle rovine, vennero annessi allo Stato d’Israele[1]. Affianco al dramma umano, vi fu anche quello culturale. Le città occupate e il popolo palestinese subirono un forte processo di giudaizzazione[2]. I nomi delle strade, dei quartieri, delle città e delle persone stesse vennero cambiati, con l’intento di cancellare anche la memoria collettiva dei palestinesi. I processi di pulizia e sostituzione etnica diventavano una cosa unica. Nello stesso momento in cui le terre dei palestinesi venivano occupate, lo Stato d’Israele le assegna a più di mezzo milione di ebrei provenienti dai paesi confinanti. Così la Nakba, “la catastrofe del popolo palestinese”, fu il punto d’inizio di una lunghissima politica di apartheid, intensificata progressivamente sino ad oggi.
Il movimento comunista internazionale non cessò mai di dare il proprio supporto al movimento di liberazione palestinese e ai settori popolari del mondo arabo[3], che già agli inizi degli anni ‘40 risente di divisioni e forti attacchi da parte delle forze sioniste, ma anche dalle frange arabe reazionarie[4]. Tuttavia, con il continuare del processo di decolonizzazione internazionale grazie all’enorme contributo del campo socialista, anche il movimento di resistenza palestinese riuscì a riorganizzarsi e a rafforzarsi.
Dopo la guerra le organizzazioni comuniste arabo-palestinesi trovarono unità d’azione nella creazione dell’OLP nel giugno del 1964 nel solco politico del socialismo arabo. Nel decennio precedente in molti paesi africani movimenti popolari e progressisti avevano dato l’impulso decisivo al processo di decolonizzazione, in quel decennio in Egitto l’Unione Socialista Araba prese il potere – con Nasser presidente della Repubblica – e tutti gli altri paesi del Nord Africa dichiararono l’indipendenza. Il sostegno dell’Unione Sovietica fu determinante nel determinare le condizioni oggettive per lo sviluppo del processo di decolonizzazione, al quale al contrario fece da freno la presenza del capitalismo monopolista nell’altra metà del mondo.
La cosiddetta crisi di Suez nel 1956, con l’intervento imperialista anglo-francese – con la collusione delle forze armate sioniste – che si risolse in un fallimento e in una vittoria politica per l’Egitto, per il socialismo arabo e per quel processo di emancipazione politica ed economica dal Vecchio Mondo, fondamentale per il definitivo superamento delle condizioni di subalternità nella nuova condizione di indipendenza. In questa fase i disegni sionisti di espansione territoriale e le necessità strategiche dei paesi capitalisti in medio oriente convergono definitivamente e faranno dello stato di Israele l’avamposto contro il socialismo arabo e contro la lotta politica dei popoli arabi per l’emancipazione sia dall’imperialismo sia dalle rispettive borghesie nazionali. Non a caso da quel momento i paesi arabi guidati da governi conservatori, come la monarchia assoluta saudita, cominceranno progressivamente ad ammorbidire nei fatti la propria posizione su Israele. Dalla fine degli anni ’50 le provocazioni militari sioniste si intensificano, gli scontri al confine aumentano in una escalation costante mentre contestualmente l’esercito israeliano viene enormemente sviluppato con il supporto materiale degli USA. Nel 1967 la provocazione supera ogni limite quando il governo israeliano comincia ad ammassare unità militari lungo il confine con l’Egitto. È l’inizio della Guerra dei Sei Giorni, che coinvolse Israele da un lato Egitto, Siria e Giordania dall’altra. Fu un ulteriore capitolo della brutale occupazione militare israeliana, durante la quale Israele persiste nell’eliminazione sistematica di un popolo stremato da vent’anni di battaglie anticoloniali. Già nella primavera del 1967 si leggeva un possibile attacco israeliano contro Egitto, Libano e Giordania dove si riversavano migliaia di palestinesi in fuga dalla minaccia sionista. Questo era legato al fatto che a inizio anno la propaganda israeliana spingeva verso il conflitto sostenendo l’ipotesi di un possibile attacco da parte dei paesi arabi confinanti. L’eco di questa “minaccia” arrivò all’orecchio dei paesi imperialisti d’Europa e agli Usa. Il 5 giugno del 1967 un massiccio Raid aereo, che distrusse al suolo l’intera aviazione egiziana, poco dopo trovò la risposta dei comandi del Cairo e Damasco. I colpi di cannone segnavano l’occupazione di Gerusalemme Est e l’avanzata dei carri armati israeliani furono fermati dai sovietici, i quali minacciano Israele di intervenire. Il 10 giugno quel paese, che voleva mostrarsi quale “il piccolo Davide di fronte all’enorme Golia arabo”, chiariva i suoi piani espansionistici e la volontà di ottenere tutta Gerusalemme, parte araba compresa. Così, le ipocrite immagini di soldati israeliani in lacrime di fronte al Muro del Pianto lavavano via il sangue versato dalle popolazioni arabo-palestinesi e oscurarono la fotografia dei 300.000 rifugiati palestinesi in fuga dai propri villaggi, proprio come nel 1947[5].
La presa di Gerusalemme dopo il conflitto si pone quale tappa fondamentale nei progetti sionisti di Israele, i quali vedevano in tale conquista non solo una vittoria militare, ma anche la conferma della superiorità etnico-religiosa del popolo eletto (unica e vera entità nazionale con il diritto di abitare la Palestina) su quello arabo. Questa teoria di dominazione razzista, veniva e continua ad essere giustificata dal trauma storico della Shoah. Infatti, con il progetto di voler identificare la propria memoria culturale e collettiva con l’Olocausto, lo Stato d’Israele vuole nascondere nonché cancellare tutte le nefandezze di cui si è macchiato. Tra le quali la strage di Sabra e Chatila del 1982, quando in un campo profughi nei pressi di Beirut vennero massacrate più di 3.500 persone da truppe cristiane falangiste sotto gli occhi consenzienti di soldati israeliani[6].
Il sionismo è ciò che il 27 dicembre 2008 ha scatenato “l’operazione piombo fuso”, durante la quale venne bombardata la striscia di Gaza, uccidendo sotto le macerie centinaia di palestinesi. Le conseguenze del sionismo portano il volto di tutti i 194 bambini palestinesi, che in questo momento sono imprigionati nelle galere israeliane. Il sionismo non è altro che un’altra faccia dei piani imperialistici nella regione.
Come osservò Pietro Secchia nel 1969, durante il suo viaggio in Siria e in Egitto:
“Il sionismo e la sua resistenza è una parte dell’imperialismo mondiale così come la resistenza palestinese è una parte della rivoluzione mondiale. […] Vi sono dei doveri di atteggiamento di principio, il marxismo-leninismo che noi comprendiamo è quello di chi lotta contro l’ingiustizia senza chiedere chi soffra dell’ingiustizia. Il marxismo ci ha insegnato ad essere oggettivi e pragmatici, questo ci chiede di comprendere la realtà per trovare il modo effettivo di trovare la soluzione dei problemi. […] Noi lottiamo contro il sionismo che è una specie di nazismo sviluppato. Noi lottiamo contro il sionismo che significa una specie di segregazione religiosa che ci fa ricordare altri tempi. Lottando contro il sionismo noi lottiamo contro l’imperialismo. La rivoluzione palestinese non lotta solo per la liberazione del popolo palestinese, ma per l’interesse di tutti i popoli che lottano contro l’imperialismo[7]”.
Il sionismo non si è mai arrestato, il suo ruolo in medio oriente e la sua stretta relazione con gli USA si sono sviluppati sulla base delle necessità materiali dell’imperialismo americano e dei monopoli israeliani. Unicamente in questo rapporto possiamo comprendere le future minacce al popolo palestinese e alla sua causa. La visita di due giorni fa del Segretario di Stato americano Pompeo in Israele ha rinnovato questa alleanza, nel pieno della crisi economica aggravata dal contesto della pandemia e dell’intensificazione dei contrasti tra borghesie e tra centri imperialisti USA e Israele si accordano per procedere all’annessione dei territori occupati in Cisgiordania, compresa la Valle del Giordano. In continuità con il piano di Trump del 28 gennaio scorso.
Il popolo palestinese pur schiacciato dalla repressione, dalla pulizia etnica e dalla diaspora continua a lottare, è compito dei comunisti sostenere la causa del popolo palestinese, di commemorare questa giornata guardando ad un presente oscuro, imparando dai nostri compagni palestinesi la determinazione, il coraggio e che non sarà la durezza delle condizioni a far vacillare la consapevolezza della necessità di continuare a lottare sino alla vittoria finale.
[1] Abu-Sitta, The right of return, 1997
[2] tale processo trovò il suo apice nel marzo del 1969 quando un gruppo di studenti del Technion (Israel Institute of Technology) ebbero un ruolo centrale nella distruzione non solo fisica dei villaggi palestinesi, ma anche storica dei loro nomi.
[3] Sin dal momento in cui i bolscevichi presero il potere, essi incentivarono il modello di decolonizzazione. Basti pensare al celebre “appello ai popoli dell’Oriente” che incitava alla lotta di liberazione.
[4] Alain Gresh, Storia dell’OLP: verso lo Stato palestinese, Roma, Edizioni associate, 1988.
[5] Pier Giovanni Donini, I paesi arabi, Roma, Editori Riuniti (collana Libri di base), 1983.
[6] A. Giardina, M. Liverani, B. Scarica, La Palestina, Editori Riuniti, 1987
[7] Archivio Pietro Secchia, (a cura di) Enzo Collotti, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 1978.