* di Michele Cosentino
In questi giorni sono tornate virali le dichiarazioni di Domenico Tallini, Presidente del Consiglio Regionale della Calabria, sul fascismo e sul colonialismo fascista. Un intervento a dir poco sconvolgente, in cui, servendosi di un italiano alquanto sbiascicato, l’ex missino catanzarese ora berlusconiano ha prima negato la natura intrinsecamente razzista del fascismo (come dimenticare, oltre alle leggi razziali, la politica di italianizzazione forzata condotta dal regime contro sloveni, alto-atesini, arabi, berberi, minoranze grecofone già negli anni ’20, ben prima delle leggi razziali?), per poi cimentarsi in una volgare apologia del colonialismo, attraverso il quale “gli italiani portarono la civiltà in Africa, tant’è che [parte in cui l’organizzazione sintattica cessa di esistere] l’ultimo negus […], guarda caso, salutava la gente col saluto romano, […] ringraziando il popolo italiano per come si era posto nei confronti di quelle popolazioni”.
In pratica, la solita solfa fascista costruita su episodi inesistenti (l’ultimo negus Haile Selassie I venne effettivamente in Italia nel 1970, ma non fece il saluto romano…) e incredibili mistificazioni che coprono di vergogna chi le fa (sarebbe interessante comprendere quali intenti civilizzatori si celassero dietro il massacro di Debre Libanos ordito da Rodolfo Graziani o dietro le bombe all’iprite impiegate dalla Regia Aeronautica per espugnare l’altopiano dell’Amba Aradam). Una solfa che, tuttavia, assume le tragiche proporzioni di narrazione collettiva, visto che, fuori dalle aule universitarie, gli italiani non hanno mai veramente sottoposto a giudizio il loro colonialismo. Anzi, il vecchio mito degli “italiani brava gente” è stato avallato da un atteggiamento istituzionale che, a colpi di censura, ha bloccato pellicole e documentari come The lion of the Desert (1979), Fascist Legacy (1989), Adwa: an African Victory (1998), rei di offrire il punto di vista del colonizzato, non del colonizzatore (noi).
E proprio in questo modo di fare, in questa palude così autenticamente (sudiciamente) democristiana allignano molti dei frutti avvelenati del neofascismo continentale. Al di là di un antifascismo e un anticolonialismo di facciata, lo Stato borghese non ha mai avuto né potrebbe avere l’intenzione di combattere realmente l’oppressione di un popolo da parte di un altro popolo, poiché la guerra imperialista del fascismo e il razzismo legalizzato non sono che le estreme conseguenze del capitalismo, furono l’indirizzo imposto all’Italia dai grandi capitalisti di quel tempo.
Di fatto, se l’equiparazione tra democrazia borghese e fascismo, nei termini in cui la pose meccanicamente (sbagliando) Amedeo Bordiga risulta profondamente inesatta, vero è che “l’avvento del fascismo al potere […] è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia – la democrazia borghese – con un’altra sua forma, la dittatura terroristica aperta” (G. Dimitrov, Dal fronte antifascista alla democrazia popolare, Ed. Rinascita Roma, 1950, p. 6). È una precisazione non secondaria perché permette di capire come mai anche oggi importanti rappresentanti della borghesia italiana non solo siano restii a condannare il fascismo, ma ne difendano apertamente le politiche che ritengono coerenti con gli interessi della loro classe.
Non è solo una questione “culturale”. La destra che si lascia andare a dichiarazioni come quella di Tallini sulla funzione civilizzatrice del colonialismo fascista, è la stessa che oggi a partire dalla retorica dell’“aiutiamoli a casa loro” promette alla borghesia italiana di garantire sostegno statale a progetti di “cooperazione” internazionale per lo sviluppo (ad esempio con diversi paesi africani) che mascherano nuove forme di sfruttamento imperialistico e politiche di saccheggio a favore delle grandi aziende italiane. Da più di un secolo la borghesia imperialista giustifica agli occhi delle classi popolari le sue politiche di rapina con la retorica della missione “civilizzatrice” della propria nazione, che sia nella sua forma più esplicita e brutale, o “mascherata” appunto nella retorica del sostegno allo sviluppo economico.
Indignarsi per le dichiarazioni di Tallini è giusto, ma ciò che dobbiamo avere chiaro è che, al di là della verità storica, la riabilitazione e la mistificazione di determinate vicende storiche può costruire le premesse ideologiche affinché le classi popolari in Italia siano portate a sostenere i piani e gli interessi della borghesia imperialista italiana. Non è una prospettiva lontana o d’altri tempi, basti pensare a come solo 15 anni fa il consenso attorno all’invasione dell’Iraq veniva costruito a reti unificate con la retorica dell’“esportazione della democrazia”. A noi il compito di tirare giù la maschera.