di Flavia Lepizzera e Matteo Battilani*
Settembre è arrivato e quest’anno più che mai l’attenzione mediatica è concentrata sulla riapertura delle scuole. Per il governo M5s-PD-LEU-IV si tratta di un banco di prova non trascurabile. Il governo si è dimostrato determinato fin dall’inizio della pandemia a gestire la crisi secondo le richieste dei padroni italiani. Abbiamo visto in questi mesi come si è impegnato nell’elargire ingenti somme come prestito a fondo perduto alle aziende, nell’indicare il meccanismo del debito a carico delle classi popolari come la soluzione alla crisi e nell’elaborare un piano per la ripresa, il piano Colao, che individua nel massiccio impiego del lavoro gratuito e nell’aziendalizzazione l’elemento cardine per mantenere in piedi quello che rimane dello stato sociale.
Riapertura delle scuole: chi coinvolge?
A conti fatti la riapertura dei plessi e le modalità entro cui avverrà rappresentano un problema di primaria importanza per una fetta decisiva della popolazione italiana. La scuola coinvolge, infatti, oltre un milione di lavoratori (un terzo del totale degli impiegati della pubblica amministrazione) e circa 8,4 milioni di studenti con le loro rispettive famiglie che stanno vivendo sulla propria pelle le ricadute economiche e sociali di questa pandemia, dai licenziamenti alle casse integrazioni passando dalla mancanza di tutele per la salute nei luoghi di lavoro. In questo contesto il diritto allo studio assume un ruolo tutt’altro che marginale: andare a scuola e poter frequentare delle lezioni cambia concretamente la condizione della stragrande maggioranza delle famiglie di lavoratori. Ogni bambino o ragazzo lasciato a casa pone la famiglia davanti a due possibilità: chi ne ha l’opportunità affida il piccolo ad una babysitter o ai nonni, gli altri genitori si trovano invece costretti a mettere da parte il lavoro. Questo il governo vuole evitarlo ad ogni costo, non tanto per le difficoltà economiche delle famiglie quanto per la perdita di produttività delle aziende.
La riapertura è, dunque, per il governo innanzitutto un problema di ordine pubblico. Per questa ragione, nonostante non esistano provvedimenti reali finalizzati a garantire gli spazi e il personale necessari per una ripresa in sicurezza e nel rispetto del distanziamento e delle norme igieniche, il governo tiene il punto sul fatto che le scuole riapriranno e scarica le responsabilità in caso ciò non dovesse avvenire ora sui sindacati dei lavoratori ora sui ragazzi.
Da giugno ad oggi: cosa è cambiato nelle scuole?
Gli studenti di tutta Italia si sentono giornalmente raccontare che a settembre si torna tutti a scuola. Contemporaneamente però vedono uscire dai propri istituti linee guida che impongono l’utilizzo della didattica a distanza in alternanza a quella in presenza o sanno di tornare in classe da 25/30 alunni in spazi che sono rimasti gli stessi. Si chiedono cosa consenta loro oggi di tornare a scuola se nulla è sostanzialmente cambiato dai mesi della chiusura.
Il problema del sovrannumero nelle scuole non è nuovo: non si tratta affatto di un problema legato all’emergenza, bensì ad una carenza strutturale del sistema scolastico italiano, sia in relazione al problema dell’edilizia scolastica (l’80% delle scuole non è a norma) sia a causa della mancanza di organico (quest’anno inizia con più di 85000 cattedre vacanti). Le carenze dei nostri istituti che oggi mettono a rischio la nostra salute come studenti, ci esponevano a rischi seri anche prima del virus. Queste condizioni non erano accettabili prima e non lo sono a maggior ragione adesso.
Di fronte a tutto questo, l’unica risposta possibile sarebbe dovuta essere un piano straordinario di investimenti statali sull’edilizia scolastica e un piano di regolarizzazione di tutti i precari e di assunzioni per la copertura di tutti i posti vacanti per poter garantire la riduzione del numero di alunni per classe a 15. Invece il governo ha deciso di destinare all’istruzione briciole, ne diamo un esempio tangibile: il numero di assunzioni predisposto dal governo non può garantire un rapporto professori studenti di 1:15. Gli 84.808 docenti promessi dalla ministra Azzolina (circa il 12% dell’organico in più rispetto al numero di docenti attuale) che costerebbero circa un miliardo (400 milioni per il 2020 e 600 milioni nel 2021 [3]), non basterebbero neppure per la sola Lombardia. Mentre i fondi che il governo ha stanziato per l’edilizia sono appena 330 milioni per l’edilizia su una manovra di 37 miliardi.
Non esistono provvedimenti che garantiscano il rientro in sicurezza e questa non è un’opinione di qualche studente o docente particolarmente pignolo: l’associazione nazionale dei presidi chiede da giugno scorso, non appena si è aperta la possibilità di una maturità in presenza, la depenalizzazione dell’infortunio sul lavoro da covid19, riconoscendo evidentemente l’inadeguatezza delle strutture. Il governo parla di rientro a scuola, ma non è disposto ad investire perché questo avvenga in sicurezza, è piuttosto intenzionato a sacrificare la salute di studenti e lavoratori.
Scuole di serie a e scuole di serie b
Contestualmente il Piano scuola 2020-21 [1] elaborato sulla base del documento del comitato tecnico scientifico sancisce, come unica misura contenitiva della diffusione del virus comune a tutte le scuole, l’utilizzo della mascherina nei locali scolastici. Il resto delle procedure è a discrezione della singola scuola, in virtù del principio dell’autonomia scolastica. Come spesso in passato l’autonomia scolastica si rivela per quello che è: un meccanismo che genera profonde disuguaglianze tra scuole. Le scuole che già godevano di una quantità di locali adeguata e che hanno una disponibilità di fondi tale da poter riqualificare questi spazi, ovvero sia le scuole che impongono contributi più alti alle famiglie, saranno presumibilmente in grado di accogliere in sicurezza gli studenti a settembre.
Per le altre scuole, e stiamo parlando della maggioranza, cosa accadrà? Il governo ha lasciato aperte molte strade che tradiscono un’idea di scuola precisa e ci rivelano come l’emergenza stia diventando l’ennesimo pretesto per accelerare il processo di smantellamento della scuola pubblica. Tra queste troviamo infatti la possibilità per le scuole di utilizzare una forma di didattica mista: laddove non ci fosse la possibilità di garantire la presenza di tutti gli alunni contemporaneamente nella scuola nel rispetto del distanziamento sociale, il governo autorizza la prosecuzione della didattica a distanza in alternanza a quella in presenza. Si tratta quindi di regolarizzare la didattica a distanza, non in virtù di un’emergenza, ma bensì a causa delle carenze strutturali dell’istruzione. La scuola, ci stanno dicendo, non è più necessario farla in presenza. Se mancano le aule, se mancano i docenti, il problema non si pone, perché una soluzione esiste ed è l’istruzione da remoto.
La delegittimazione della didattica in presenza.
Per abbattere i costi della formazione da anni i Governi di centro-sinistra e centro-destra hanno promosso politiche per diminuire le ore in presenza a scuola. L’alternanza scuola-lavoro è stata un tassello importante in questo senso: per chiudere i laboratori delle scuole, in particolare per quanto riguarda i tecnici e i professionali, si è fatto ricorso ad un uso massiccio degli stages aziendali. La formazione è stata rimandata a competenza dei privati e le ore di laboratorio trasformate in ore di lavoro produttivo non remunerato. La DAD segue lo stesso filo di ragionamento e sottende lo stesso messaggio ideologico: diminuire le ore passate a scuola per svolgere la formazione in altri luoghi, che siano luoghi di lavoro o dietro a uno schermo, è vantaggioso per gli studenti. La realtà è un’altra: con la progressiva diminuzione delle ore in presenza le scuole e i provveditorati risparmiano spazi e personale della scuola, relegando la didattica a altre forme che, strutturate come lo sono oggi, portano a una netta dequalificazione dell’istruzione e un grande vantaggio ai privati.
La Didattica a Distanza nel periodo di chiusura, in assenza di misure concrete per garantire a tutti un pieno accesso, ha significato la negazione del diritto allo studio per milioni di alunni e l’inasprirsi del carattere classista delle nostre scuole. I ragazzi con più difficoltà economiche, ai quali non è stato garantito l’accesso alla strumentazione necessaria sono rimasti senza nessuna forma di sostegno concreta. Chi doveva fare lezione nelle propria stanza con i propri fratelli a chi non aveva un proprio spazio dove seguire le videolezioni, non ha potuto proseguire il proprio rapporto con la scuola se non in maniera inefficace e saltuaria.
Abbattere la scuola come luogo fisico vuol dire anche cancellare definitivamente la già minata idea che ognuno debba essere messo nella condizione di poter studiare, indipendentemente dalla propria situazione di partenza, con serenità e con gli ausili di cui ha bisogno per poter esprimere al meglio sé stesso. Vuol dire cancellarla per la funzione di luogo di socialità che indubbiamente svolge e questo significa penalizzare in maniera definitiva chi proviene da contesti meno culturalmente stimolanti e meno agiati.
Per questa ragione è importante rifiutare l’idea che la didattica in presenza equivalga a quella a distanza e che siano quindi alternabili. L’alternanza tra i due modelli, con momenti di spiegazione a distanza e di verifica in presenza, è funzionale ad un modello di scuola classista. Dobbiamo pretendere, invece, di tornare tutti a scuola in presenza ed in sicurezza, non siamo disposti a scegliere tra la nostra istruzione e la nostra salute.
Accordi con i privati come soluzione ai problemi delle scuole.
Altra soluzione lasciata aperta dal governo per le scuole con carenza di spazi, è quella degli accordi sul territorio con privati che forniscano spazi e/o finanziamenti. Sono moltissime le città metropolitane ed i comuni che si preparano in tutta Italia a pagare affitti per sale di plessi ecclesiastici, rette a palestre private o addirittura contributi alle aziende per utilizzo dei laboratori o per mandare studenti in alternanza. Contestualmente, come è possibile leggere anche nel Piano Colao, le aziende sono incoraggiate ad investire nella scuola pubblica e a stipulare accordi di collaborazione nel contesto dell’alternanza scuola-lavoro. I laboratori già fatiscenti e insufficienti di cui erano dotate le nostre scuole, divenuti praticamente inservibili con le norme anticovid, uniti alla recente riforma dell’alternanza che lascia discrezione alla singola scuola sul monte ore da effettuare, diventano un’ottima occasione per le aziende di utilizzare la manodopera non retribuita di centinaia di studenti per i quali fare scuola in presenza potrebbe voler dire lavorare in aziende private, senza protocolli di sicurezza sanitaria particolare. Il risultato sarà di milioni di studenti che andranno a lavorare nelle aziende senza aver seguito corsi di formazione particolari e senza nessuna certezza di vedere la loro salute tutelata.
È evidente come la scuola non sia altro che uno dei tanti terreni su cui si prepara una ripresa fatta di compressione dei diritti e una gestione della crisi fatta per preservare i profitti delle aziende a spese dei lavoratori. La scuola di oggi prepara la società del domani, per riorganizzare la società è dunque necessario intervenire innanzitutto sull’istruzione. Lo abbiamo visto con la buona scuola che, dopo la crisi del 2008, gettava le basi per un sistema scuola rinnovato che rispondesse alle nuove esigenze del mercato del lavoro (leggi padroni). Così anche oggi stiamo assistendo al tentativo di rendere la scuola pubblica ancora più asservita agli interessi e alla necessità della borghesia e consolidare l’autonomia scolastica, come strumento utile per scaricare il peso delle responsabilità politiche sulle varie scuole e amministrazioni locali e, contestualmente, ridurre i costi e rendere le scuole sempre più dipendenti dai privati.
Governo incompetente o responsabilità politica?
Non si tratta dunque di mancanze: spesso ci sentiamo dire che gli investimenti sulla scuola non avvengono o non avvengono nella maniera che ne garantirebbe uno sviluppo corretto per mancanza di soldi o per mancanza di competenza da parte del governo. Questa narrazione è da rifiutare categoricamente. Il nostro governo è perfettamente competente e disporrebbe di fondi per garantire un’istruzione di qualità per tutti, non farlo rappresenta una precisa scelta politica. Destinare poco più di 300 milioni per l’edilizia scolastica, mentre si regalano 6 miliardi ad FCA e si riconfermano i finanziamenti per le spese militare, rappresenta tutt’altro che una svista. Si tratta invece di una dichiarazione di intenti chiarissima: c’è qualcuno che il governo si impegna a tutelare e a cui si impegna ad offrire nuovi orizzonti di profitto e sono i capitalisti; c’è qualcun altro che pagherà la crisi due volte, con le proprie tasse e con i diritti e la salute propria e dei propri figli, e sono i lavoratori.
Le decisioni prese fin ora sulla scuola parlano chiaro e ci offrono un quadro sconfortante. La riapertura è poco più di una promessa propagandistica, parziale e pericolosa, destinata a sfumare al primo contagiato per covid in una scuola.
Esiste innegabilmente la precisa volontà che a pagare la crisi siano i lavoratori e gli studenti, con un crollo sensibile delle condizione di vita. Per settembre, insomma, sembrerebbe tutto pronto.
Quello che il governo ha dimenticato di considerare è la risposta degli studenti a tutto questo. Una risposta che dovrà essere senza precedenti, perché senza precedenti è l’attacco che si sta preparando al diritto allo studio e alla salute. Per essere davvero efficaci dobbiamo però essere in grado di riconoscere che i nostri interessi coincidono con quelli delle migliaia di lavoratori che da mesi stanno lottando sul proprio posto di lavoro e che i nostri nemici sono comuni.
Oggi più che mai la lotta per un’istruzione gratuità e di qualità è una lotta contro un sistema che impone il profitto di pochi al di sopra del bene di tutti. Di conseguenza, è necessario che la lotta degli studenti si leghi a quella dei lavoratori.
*commissione scuola FGC