di Paolo Spena
Per la prima volta dopo un secolo gli Stati Uniti sono divisi e spaccati. È questo il dato principale che emerge dal processo elettorale nordamericano, ed è molto più utile riflettere su questo che non sulle ragioni della risicata vittoria di Biden. I toni durissimi della campagna elettorale trovano ben pochi precedenti nella storia recente di quel paese. Raramente si è assistito, ad esempio, a uno scenario in cui entrambi i candidati presidenti hanno affermato che non avrebbero riconosciuto la vittoria dell’altro, come avvenuto nelle scorse settimane.
È una frattura che non è il prodotto del carattere di Donald Trump e della sua attitudine “divisiva” come vorrebbero i sostenitori di Biden. Donald Trump in questi anni è stato la foglia trascinata dal vento, ma a soffiare erano e sono settori importanti del grande capitale americano. E tutto questo avviene nel contesto di un Paese attraversato da forti tensioni sociali e dalle rivolte scatenate non solo dal razzismo e dagli abusi della polizia, ma anche dalla crisi economica che ha colpito fortemente le classi popolari come conseguenza della gestione della pandemia da parte del Governo.
Per trovare nella storia politica degli USA un precedente che sia paragonabile alla divisione che oggi lacera non solo il loro tessuto sociale, ma anche e soprattutto i gruppi egemoni del Paese, bisogna risalire ai tempi del dibattito tra interventismo e isolazionismo agli inizi del XX secolo, trascinatosi per diversi decenni. Allora, le diverse visioni strategiche tra i principali gruppi di potere degli USA erano state innescate dagli sviluppi del capitalismo che avevano visto gli USA affermarsi come una grande potenza sul piano economico, con i capitalisti che di conseguenza chiedevano ai governi una politica estera che corrispondesse maggiormente a questa nuova posizione e la facesse pesare anche sul piano politico e militare. Oggi come allora, per capire perché le classi dominanti si dividono, bisogna capire non solo cosa è cambiato negli Stati Uniti, ma anche ciò che è cambiato per gli Stati Uniti nel mondo in cui questi sono stati, per decenni, la principale potenza economica, politica e militare.
Cos’è che divide i padroni negli USA
L’egemonia degli Stati Uniti e la loro posizione alla testa della piramide imperialista globale oggi vengono messe fortemente in discussione. La parentesi del mondo “unipolare” a trazione statunitense si è definitivamente chiusa. La Cina è oggi la seconda potenza capitalistica mondiale, ma il suo PIL a parità di potere d’acquisto (PPP) supera già quello degli Stati Uniti; buona parte del debito pubblico statunitense è in portafogli cinesi. Il progetto della “Nuova Via della Seta” e il nuovo accordo di libero scambio effettuato dalla Cina con 14 paesi asiatici (i 10 membri dell’ASEAN più Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda) fanno ormai da contraltare ai progetti filo-statunitensi di TTIP e TPP tutt’oggi in stallo; la Nuova Banca di Sviluppo e la Banca Asiatica di Investimenti per le Infrastrutture si contrappongono alla consolidata egemonia statunitense nella Banca Mondiale e nel Fondo Monetario Internazionale.
Quella tra USA e Cina, insomma, è oggi la principale linea di faglia nella competizione economica globale. E negli USA c’è chi pensa che, mettendo sui piatti di una bilancia le capacità militari della Russia (che resta la seconda potenza militare) e il ruolo economico della Cina, il secondo debba pesare molto di più nelle valutazioni sulla politica economica, la politica estera e gli obiettivi geopolitici degli Stati Uniti. Donald Trump e le fazioni che lo hanno sostenuto sono esattamente espressione di questa posizione.
Negli anni dell’amministrazione Trump, gli USA hanno intensificato la guerra commerciale e lo scontro economico con la Cina. Tutti ricordano la guerra dei dazi, o l’arresto in Canada (su richiesta USA) della direttrice finanziaria di Huawei, figlia del miliardario cinese Ren Zhengfei a capo della multinazionale. Sul piano della politica internazionale, la presidenza Trump ha indubbiamente mostrato una condotta molto più accondiscendente nei confronti della Russia in molti scenari, tattica che ha l’obiettivo abbastanza evidente di limitare la convergenza di interessi della Russia con la Cina. Un esempio evidente di questa politica lo si è visto nel conflitto siriano, in cui il ritiro delle truppe da parte degli USA ha concesso alla Russia di Putin di tramutarsi nella principale forza di mediazione nei mesi dell’invasione turca, lasciando a bocca asciutta l’Iran (con cui invece si è inasprito lo scontro specie dopo l’attentato a Soleimani) e nel silenzio quasi imbarazzato dei cinesi.
È chiaro da tempo che questa strategia portata avanti da Trump non è condivisa da tutti e che invece esistono settori, spalleggiati da diversi analisti e strateghi militari, che restano legati all’idea che l’insieme di obiettivi geopolitici che gli USA racchiudono sotto il nome di security (la loro, si intende) vadano perseguiti rivolgendo le proprie attenzioni alla Russia. Detta così rischia di risultare un po’ schematico, ma è in questo modo che questi temi sono emersi nel dibattito politico statunitense. Trump non ha fatto altro che accusare i democratici e Biden di essere le quinte colonne della Cina, aggiungendo la nota di colore della minaccia del “socialismo”, mentre i democratici hanno continuato a rinfacciare a Trump il presunto “Russiagate” e l’eccessiva vicinanza al governo russo. Ed è chiaro che dietro le reciproche accuse ci sono alcuni elementi di verità, visioni divergenti legate a interessi molto concreti.
Lo scenario che abbiamo tracciato per sommi capi presenta degli elementi di novità assoluta rispetto al modo in cui non solo noi, ma intere generazioni sono state abituate a pensare agli Stati Uniti. Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, la politica degli Stati Uniti è stata orientata da una serie di punti fermi, su cui esisteva una convergenza bipartisan di repubblicani e democratici e che definiva gli obiettivi di fondo di tutte le amministrazioni. Il nemico principale era l’URSS e il suo sistema di alleanze, le dottrine geopolitiche nordamericane si fondavano sulla teoria del domino e la politica del “contenimento” del comunismo. La dialettica tra i due partiti istituzionali era quella tra la politica del bastone e quella della carota, ma tutti avevano la stessa idea su chi fosse il nemico. Oggi i diversi settori del grande capitale negli USA non sono più d’accordo su chi è il principale nemico che minaccia i loro specifici interessi. E questa frattura si riflette nello scontro politico in corso nel Paese.
Democratici o repubblicani, non cambia niente?
Nel giudizio sulle elezioni USA, il dibattito a sinistra in Italia si divide principalmente in due fazioni. La prima è quella di chi esulta per la vittoria di Biden ritenendo la sconfitta del “fascismo” di Trump sia di per sé un fatto positivo. In questo campo rientra incredibilmente anche il segretario del Prc Maurizio Acerbo che è riuscito – impresa davvero ardua – a celebrare la vittoria di Biden come una vittoria della “classe lavoratrice multirazziale”.
La seconda fazione è quella di chi, in parte giustamente, afferma che “chiunque vinca, è lo stesso, cambia nulla”. Un’affermazione del genere andrebbe pesata, e soprattutto bisognerebbe separare il piano della comunicazione immediata da quello della comprensione effettiva di cosa sta avvenendo. È chiaro che entrambi i candidati, come avviene da decenni, sono del tutto interni alle logiche della gestione capitalistica del Paese e si candidano a governare la prima potenza imperialista globale nell’interesse dei suoi monopoli. In questo senso no, non cambia nulla per le classi popolari e non cambia il carattere imperialista degli USA e della loro politica, e veicolare illusioni in tal senso significa lavorare per il campo avversario.
Ma se questo resta vero, bisogna evitare una visione troppo semplicistica, e questo vale per gli USA così come per tutte le vicende politiche. Quando i partiti borghesi si scontrano, non è perché “fanno finta” di litigare. I partiti dei padroni litigano tra loro contendendosi il consenso tanto delle classi dominanti, tanto delle classi oppresse che pesano nel meccanismo elettorale. E questo scontro può arrivare ad inasprirsi nei momenti in cui le stesse classi dominanti si dividono su questioni che ritengono centrali per la loro sopravvivenza. Negli USA sta accadendo esattamente questo. Se non si comprende che le diverse proposte politiche dei partiti borghesi sono legate a interessi capitalistici differenti, si finisce ad analizzare tutto con le categorie che ci appaiono più familiari, ma che risultano sbagliate. Ad esempio, c’è chi, anche da “sinistra”, fa notare che “Trump è l’unico presidente da destra a non aver iniziato una nuova guerra”. Ma questo (neanche del tutto vero) non è perché Trump è più a sinistra o “meno imperialista” di Biden, semplicemente esprime gli interessi di quei settori dei monopoli che ritenevano le misure protezionistiche e i dazi anti-cinesi più importanti e convenienti rispetto alle operazioni militari. Operazioni che tra l’altro non sono state un grande successo, se si pensa che dall’invasione dell’Iraq sono passati 17 anni e quel Paese, per dirla dal punto di vista degli USA, non è ancora in grado di esprimere un governo stabile che garantisca i loro interessi senza la costante presenza militare statunitense.
La struttura istituzionale degli USA influisce sulla forma della spaccatura
Tutto questo sta avvenendo in un Paese che ha il più vecchio sistema istituzionale del mondo ancora in vigore, figlio di una Costituzione scritta nel 1787. Il presidenzialismo americano è un sistema estremamente rigido, che si presta ben poco alla conciliazione di interessi contrapposti come lo sono oggi. L’assenza del rapporto di fiducia, ad esempio, impedisce che determinate pressioni vengano “assorbite” nella dinamica parlamentare per il mantenimento di una maggioranza di governo, rendendo più probabile che le divergenze politiche sfocino in crisi istituzionali, cioè nello scontro tra organi dello Stato controllati da fazioni differenti. Uno scenario che non si è verificato finora a causa della sostanziale convergenza di entrambe le fazioni su tutti i temi fondamentali, ma che ora diventa più probabile. Questo è un elemento che influisce nelle dinamiche di questi mesi e probabilmente continuerà a farlo.
L’intera dinamica elettorale degli USA è in mano a una infinità di gruppi di interesse, da quelli di natura economica e corporativa, alle innumerevoli chiese e sette religiose, fino alle comunità etniche. E non potrebbe essere altrimenti, perché i due partiti degli USA sono poco più di macchine elettorali al servizio del candidato di turno, privi di una vera e propria ideologia che vada oltre alcuni vaghi riferimenti, di un’organizzazione militante, di una presenza sul territorio stabile. Il ruolo di “corpi intermedi” negli USA è svolto dalle lobby nella loro forma nuda e pura, e sta ai candidati sapersi conquistare il consenso di quanti più gruppi possibile, con alcuni grandi gruppi e monopoli capaci di esercitare una enorme influenza (la lobby delle armi, le multinazionali del tabacco, le compagnie petrolifere…).
Il sistema elettorale contribuisce poi a sedimentare divisioni che diventano sempre più delimitate anche sul piano geografico. Gli USA hanno forse l’unico sistema al mondo in cui i collegi plurinominali (in cui si elegge cioè più di un candidato, e non uno solo) convivono con una formula maggioritaria: chi vince in uno Stato prende tutti i grandi elettori di quello Stato. È noto che esistono Stati di consolidata tradizione repubblicana (gli Stati del Sud e quelli dell’entroterra, generalmente) e Stati che votano per i Democratici. La dinamica del voto “pigliatutto” fa sì che i partiti concentrino la loro campagna elettorale solo negli Stati in cui hanno concrete possibilità di vincere: perché spendere milioni in propaganda in uno Stato in cui, se si perde, non si ottiene nemmeno un seggio? Questo produce, nel corso del tempo, il sedimentarsi dei sistemi di potere locali, con gli Stati che diventano veri e propri feudi gestiti da determinati gruppi (si pensi allo Utah, in cui più del 60% della popolazione è membro della Chiesa mormone, che vota repubblicano da mezzo secolo), mentre gran parte degli sforzi elettorali si concentra sui pochi swing States, cioè quegli Stati il cui voto è in bilico e che determinano di fatto la vittoria. L’emblema di questi è sicuramente la Florida, che nel 2000 determinò la vittoria di George W. Bush per pochissimi voti, e in cui esercita un notevole peso la comunità cubana di Miami, che vota (per dirla in modo schematico, ma veritiero) il candidato presidente capace di garantire nel modo più convincente il mantenimento del bloqueo contro il loro paese d’origine.
Le tensioni sociali e la politica degli USA. Alcune riflessioni conclusive
Le divisioni sociali, culturali e identitarie negli USA, più o meno delimitate anche geograficamente, in questi mesi si saldano e vengono ricondotte nella dinamica più generale di uno scontro che si vede nella società, ma avviene soprattutto al vertice del potere. In questo concorrono anche le semplificazioni tipiche della narrazione dei media, che tanto i repubblicani che i democratici sanno sfruttare: i suprematisti bianchi contro il “Black Lives Matter”, i difensori dell’ordine e della libertà americana contro i radicali e “socialisti” che minacciano la democrazia e trovano sponda anche nel partito democratico.
Ognuno scelga la narrazione che preferisce, ma l’importante è tenere presente che i due piani restano diversi. Questo vale soprattutto per quanto riguarda l’ala “sinistra”. Il movimento di protesta che per semplicità viene identificato col marchio del BLM, ma che in realtà è molto altro e non limitato alla protesta antirazzista, non è una espressione dei Democratici e di Joe Biden. È semmai il Partito Democratico (USA) che ha lavorato per assorbire elettoralmente quella protesta. E ci è riuscito, in parte, se non altro perché in un sistema bipartitico l’essere l’alternativa a Donald Trump può premiare anche in assenza di meriti effettivi. In tal senso è da sottolineare come, nonostante un clima di mobilitazione di proporzioni non indifferenti, da parte di vari settori della società statunitense, e una narrazione a media unificati di questa tornata elettorale come un momento decisivo per la storia degli USA, l’astensionismo sia rimasto ampiamente sopra il 30%, nonostante un importante aumento dell’affluenza. È anche vero che i Dem temono la radicalizzazione del movimento BLM, e se Trump sembra decisamente disposto a sfruttare a proprio vantaggio i gruppi più estremisti, è prevedibile che passate le elezioni i Democratici si faranno meno scrupoli a “scaricare” un movimento che rischia di rivelarsi scomodo.
L’obiettivo di Biden oggi sembra quello di ricostruire un clima di “unità nazionale” attorno alla sua figura e al suo governo. Rientra in questa strategia l’enorme enfasi mediatica posta sull’elezione di Kamala Harris come prima donna vicepresidente, che si riesce a celebrare come una delle nuove icone della sinistra nonostante sia stata per anni Procuratrice generale della California, ruolo in cui è stata fautrice di politiche fortemente repressive, del tutto in linea con la gestione delle disuguaglianze sociali come un problema di ordine pubblico che è tipica degli USA.
Utilissimi a questa strategia si rivelano anche i “socialisti democratici” e l’area che si raccoglie attorno a figure come Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, espressione di una nuova tendenza socialdemocratica che attecchisce particolarmente tra le nuove generazioni, che hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti della crisi economica. Ad oggi la funzione di quest’area è quella della copertura a sinistra delle politiche dei Democratici USA. Sono uno degli anelli di congiunzione con i movimenti di protesta e mantengono aperta l’illusione della possibilità di un cambiamento nel Partito Democratico, mentre di fatto si ingoia la pillola del “meno peggio” che in Italia dovremmo ormai conoscere troppo bene. Nello scenario statunitense, in cui l’asse politica è totalmente immersa nell’ultra-liberismo, persino l’opzione dichiaratamente socialdemocratica di chi afferma di ispirarsi “alla socialdemocrazia danese e svedese” riesce a presentarsi come una proposta rivoluzionaria. Ma dietro l’apparenza e i proclami, resta quello che è. In Europa dovremmo avere gli anticorpi. Le forze della “sinistra radicale” hanno governato in Grecia e tutt’oggi partecipano alla gestione del potere borghese sostenendo i governi di paesi come la Spagna e il Portogallo, senza alcune reale alternatività o cambiamento dei rapporti di potere fondamentali.
La vittoria di Biden negli USA non è la vittoria delle classi popolari, né lo sarebbe stata quella di Trump. L’amministrazione Biden renderà presto evidente questa verità agli occhi di tutti. Non si tratta di fare profezie, ma di comprendere l’incapacità strutturale del capitalismo, e tantopiù del governo di una potenza imperialista che era già in crisi prima della pandemia – e lo è ancor di più oggi – di garantire gli interessi dei grandi capitalisti senza che questo venga fatto sulla pelle dei lavoratori. E forse anche chi si è ormai abituato a rifugiarsi nel tifo per la sinistra estera per dimenticare le miserie di quella di casa nostra, dovrebbe piuttosto iniziare a riflettere su un fatto: le uniche conquiste per i lavoratori e le classi oppresse possono venire solo dall’organizzazione nel proprio partito, del partito d’avanguardia dei lavoratori. Cioè, del partito comunista. Non verranno dallo schieramento della politica borghese, nemmeno dalle sue opzioni che appaiono più radicali.
Lo scontro tra i due candidati non sembra essersi del tutto concluso. Allo stato attuale Donald Trump sta continuando la battaglia legale tramite i ricorsi in diversi Stati e gode del sostegno della quasi totalità dei senatori repubblicani. Il tempo dirà come si svilupperà questa (potenziale?) crisi, ma una cosa è certa. Per decenni il sogno americano ha potuto vantarsi di ammaliare milioni di giovani delle varie generazioni che si sono succedute. Oggi, con la crisi dell’egemonia degli USA a livello mondiale, entra in crisi anche quell’immaginario culturale che, a colpi di film di Hollywood, chewing gum e blue jeans, costruiva l’idea mitizzata degli Stati Uniti come un modello da ammirare. È del tutto probabile che le generazioni che ci seguiranno avranno una visione molto diversa di quel paese, come già la nostra oggi è diversa da quella dei nostri padri, perché il mutamento di equilibri nella competizione globale non può che mutare anche la percezione su questo piano. E queste elezioni, sicuramente, hanno già dato un bel colpo all’idea della solidità della democrazia americana come un modello per il mondo intero.