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Jack London, “come sono diventato socialista”

Il 22 novembre del 1916 moriva Jack London, noto scrittore statunitense. La sua vita movimentata lo portò ad entrare in contatto con le profonde ingiustizie sociali generate dal capitalismo. Conobbe la sofferenza dei lavoratori sfruttati, la miseria di chi aveva perso tutto perché considerato inutile. In questo scritto London spiega come si avvicinò alle idee socialiste, alla consapevolezza che fosse necessario superare il capitalismo e costruire una società diversa. Una convinzione che mantenne fino alla morte e che emerge fortemente da molti dei suoi libri.

Si può ben dire che sia diventato socialista in un modo simile a quello in cui i pagani teutonici diventarono cristiani – è stato “martellato” in me. Non solo non stavo cercando il Socialismo al momento della mia conversione, ma lo stavo combattendo. Ero molto giovane e insensibile, non sapevo molte cose e nonostante non avessi neppure mai sentito di una scuola chiamata “individualismo”, cantavo con tutte le mie forze il peana del più forte.

Questo perché ero forte io stesso. Per forte intendo che avevo buona salute e muscoli duri, il possesso dei quali si può vedere facilmente. Avevo vissuto la mia infanzia nei ranch della California, la mia adolescenza spacciando giornali in una sana città dell’Ovest e la mia giovinezza nelle acque cariche di ozono della baia di San Francisco e dell’oceano Pacifico. Amavo la vita all’aperto e lavoravo all’aperto, facendo i lavori più duri. Non imparando nessun mestiere, ma passando di lavoro in lavoro, guardavo al mondo e dicevo che era buono, in tutto. Ripeto, questo ottimismo era dovuto al fatto che ero in salute e forte, non avevo né dolori né debolezze e nessun padrone mi rifiutava perché non sembravo in forma ed ero sempre in grado di trovare un lavoro come spalatore di carbone, marinaio o altri tipi di lavoro manuale.

E per tutto ciò, esultante nella mia gioventù, sapendo il fatto mio nel lavoro e nel combattimento, ero un rampante individualista. Era naturale. Ero un vincente. Pertanto, giocavo la partita, per come vedevo o pensavo di averla vista giocare, una partita molto appropriato per gli UOMINI. Essere un UOMO voleva dire scrivere uomo in grandi lettere maiuscole sul mio cuore. Andare all’avventura come un uomo, combattere come un uomo, e fare il lavoro di un uomo (anche per una paga da ragazzo) – queste erano le cose che mi entravano dentro e mi possedevano come nient’altro poteva fare. E guardavo avanti a grandi visioni di un futuro nebuloso e interminabile, nel quale, giocando quello che consideravo una partita da UOMINI, avrei continuato a viaggiare sempre in perfetta salute, senza incidenti e con muscoli sempre vigorosi. Come ho detto, questo futuro era interminabile. Potevo vedermi infuriare nella vita senza fine come una delle bestie bionde di Nietzsche, vagabondando lussuriosamente e conquistando con la pura superiorità e forza.

Per quanto riguarda gli sfortunati, i malati, gli infermi i vecchi, i mutilati, devo confessare che non ci pensavo per niente, salvo la vaga idea che, a parte gli incidenti, avrebbero potuto essere bravi come me se lo avessero davvero voluto e avrebbero potuto lavorare bene come me. Gli incidenti? Beh, rappresentavano il DESTINO, anch’esso scritto in maiuscolo, e non si poteva evitare il DESTINO. Napoleone aveva avuto un incidente a Waterloo, ma ciò non aveva diminuito il mio desiderio di essere un nuovo e successivo Napoleone. In più, l’ottimismo nato da uno stomaco che poteva digerire rottami di ferro e un corpo che fioriva nelle avversità, non mi permetteva di considerare gli incidenti come qualcosa anche solo remotamente legati alla mia gloriosa persona.

Spero di aver reso chiaro che ero fiero di essere uno dei forti nobili della Natura. La dignità del lavoro era per me la cosa più impressionante del mondo. Senza aver letto Carlyle o Kipling, ho formulato un vangelo del lavoro che mette in ombra i loro. Il lavoro era tutto. Era la santificazione e la salvezza. L’orgoglio che mi dava una giornata di duro lavoro ben fatto vi sarebbe inconcepibile. È quasi inconcepibile a me quando ci ripenso. Ero uno schiavo salariato fedele come mai nessuno un capitalista aveva sfruttato. Sottrarmi al lavoro o darmi malato era un peccato, prima di tutto contro me stesso e in secondo luogo contro l’uomo che mi pagava il salario. Lo consideravo un crimine secondo solo al tradimento e grave allo stesso modo.

In breve, il mio gioioso individualismo era dominato dall’etica borghese ortodossa. Leggevo i giornali borghesi, ascoltavo i predicatori borghesi e gridavo ascoltando le altisonanti banalità dei politici borghesi. Non ho dubbi che, se altri eventi non avessero cambiato la mia carriera, sarei diventato un crumiro professionista (uno degli eroi americani del rettore -di Harvard ndr- Eliot) e che avrei avuto la testa rotta e la mia capacità di guadagno compromessa da una mazza nelle mani di qualche sindacalista militante.

Più o meno in questo periodo, tornando da un viaggio di sette mesi come marinaio e appena diventato diciottenne, mi era venuta voglia di scarpinare. Aggrappato alle barre di metallo sotto i treni e viaggiando su di essi di nascosto, ho combattuto per andare dall’aperto Ovest, dove gli uomini guadagnavano bene e il lavoro andava a caccia dell’uomo, ai congestionati centri lavorativi dell’Est, dove gli uomini erano piccole patate e andavano a caccia del lavoro al massimo delle loro possibilità. E in questa nuova avventura da bestia bionda mi sono trovato a vedere la vita da una angolazione nuova e totalmente diversa. Ero precipitato dal proletariato a quello che i sociologi amano chiamare il “decimo sommerso” e fui sorpreso nello scoprire come veniva reclutato quel decimo sommerso. Lì ho trovato uomini di ogni genere, molti dei quali un tempo stavano bene come me ed erano altrettanto bestie bionde: marinai, soldati, operai, tutti storti, deformati e contorti dalla fatica, dalle avversità e dagli incidenti e buttati via dai loro padroni come molti vecchi cavalli.   Vagavo per le strade e sbattevo contro cancelli neri con loro, o tremavo con loro nei vagoni merci e nei parchi cittadini, ascoltando nel frattempo le storie di vite che erano cominciate sotto auspici favorevoli come i miei, con la digestione e corpi come e anche migliori dei miei, e che erano finiti lì davanti ai mei occhi nel caos sul fondo della Fossa Sociale.

Mentre ascoltavo il mio cervello iniziò a lavorare. La donna di strada e l’uomo della grondaia mi diventarono molto vicini. Vedevo l’immagine della Fossa Sociale così vividamente che sembrava una cosa concreta, e sul fondo della fossa vedevo loro, e io non molto sopra di loro, aggrappato alla parete scivolosa con la forza e il sudore. E confesso che un terrore mi attanagliò. Che sarebbe successo quando non avrei più avuto la mia forza? Quando non sarei stato più capace di lavorare spalla a spalla con gli uomini forti che ancora non erano nati? Lì, a quel punto, feci un grande giuramento. Faceva più o meno così: tutta la mia vita ho lavorato duramente col mio corpo e in base a tutti i giorni in cui ho lavorato, di così poco sono più vicino al fondo della Fossa. Uscirò dalla fossa, ma non con i muscoli del mio corpo. Non farò più lavoro pesante e possa Dio uccidermi se faccio un altro giorno di lavoro pesante col mio corpo più di quanto non sia assolutamente costretto. E sono stato impegnato da quel punto a sfuggire dal lavoro duro.

Casualmente, vagabondando per circa diecimila miglia tra Stati Uniti e Canada, sono finito alle Cascate del Niagara, sono stato catturato da un poliziotto, mi è stato rifiutato il diritto di dichiararmi colpevole o non colpevole, condannato senza processo a trenta giorni di prigione per essere senza fissa dimora e senza mezzi di sostentamento visibili, ammanettato e incatenato a un gruppo di uomini che si trovavano in simili circostanze, trasportato con un carro a Buffalo, registrato al Penitenziario della Contea di Erie, mi è stata rasata la testa e tagliati i miei baffi in crescita, sono stato vestito a strisce da carcerato, vaccinato obbligatoriamente da uno studente di medicina che faceva pratica su quelli come noi, fatto marciare a ranghi serrati e messo a lavorare sotto gli occhi di guardie armate di fucili Winchester – tutto questo per essermi avventurato come una bestia bionda. Il deponente non aggiungerà altri dettagli, ma potrebbe suggerire che un po’ del suo pletorico patriottismo nazionale bollì e scivolò via dalla sua anima da qualche parte – almeno, da quella esperienza in poi scopre di tenere di più a uomini, donne e bambini che a linee geografiche immaginarie.

Per tornare alla mia conversione. Credo sia evidente che il mio individualismo rampante mi sia stato “martellato” via piuttosto efficacemente, e qualcos’altro mi era stato “martellato” dentro. Ma, proprio come ero stato un individualista senza saperlo, ero ora un socialista senza saperlo e in più, uno non scientifico. Ero rinato, ma non ribattezzato, e andavo in giro a cercare di capire che cosa fossi. Tornai di corsa in California e aprii i libri. Non ricordo quali aprii per primi. Non è un dettaglio importante in ogni caso. Lo ero già, qualunque cosa fosse, e con l’aiuto dei libri ho scoperto di essere un socialista. Da quel giorno ho aperto molti libri, ma nessuna argomentazione economica, nessuna dimostrazione lucida della logica e inevitabilità del socialismo mi colpisce profondamente e convintamente quanto sono stato colpito il primo giorno che ho visto le pareti della Fossa Sociale alzarsi attorno a me e mi sono sentito scivolare giù, giù verso nel caos del fondo.

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