Domenica si terranno in Venezuela le elezioni per l’Assemblea Nazionale, si terranno dopo mesi di inasprimento dei tentativi di destabilizzazione dell’imperialismo statunitense ed europeo. La crisi di sovrapproduzione petrolifera, associata al forte calo dei consumi e la conseguente crisi negoziale sul tavolo dell’OPEC della scorsa primavera, ha infatti moltiplicato le ingerenze e i tentativi di isolare sempre più aspramente l’economia venezuelana.
L’Unione Europea ha già provocatoriamente affermato che non riconoscerà il risultato elettorale, comunicando la decisione di non inviare osservatori. Una posizione inaccettabile in continuità con quanto fatto in questi anni, il cui culmine, tempo addietro, ha trovato la propria espressione nell’appoggio a Juan Guaidó, marionetta degli interessi europei e statunitensi in Venezuela, che non parteciperà a queste elezioni parlamentari. Ufficialmente le motivazioni sono di polemica con il Governo venezuelano, in realtà la ragione è da ricercare nella sua incapacità nel compattare la destra venezuelana. La destra venezuelana infatti è spaccata. Una parte si presenterà comunque alle elezioni non avendo mai riconosciuto Guaidó come proprio portavoce ed avendo sviluppato una forte interlocuzione con il Governo sulle questioni economiche e sociali negli ultimi anni. L’appello al dialogo del Governo, se da un lato ha mantenuto un equilibrio politico a suo favore tra i settori più importanti per la gestione del potere, tra i militari e la burocrazia di stato soprattutto, dall’altro ha lasciato ampio spazio a coloro che spingono fortemente per un’involuzione immediata del processo bolivariano, concretizzata in parte con le riforme degli ultimi due anni. Proprio questi sviluppi sono stati alla base della decisione delle forze di classe in Venezuela di proporre un programma di uscita dalla crisi economica favorevole per i lavoratori e le classi popolari alternativo a quanto sperimentato negli scorsi anni.
La crisi economica
La crisi economica che sta stringendo il paese ha una molteplicità di fattori causali, il più attuale dei quali è indubbiamente il blocco economico imposto dagli Stati Uniti e dalla UE. In generale sarebbe corretto analizzare come le ingerenze imperialiste abbiano utilizzato elementi strutturali dell’economia venezuelana per colpire il processo bolivariano. In una fase precedente, infatti, questi interventi non hanno assunto il carattere di un aperto blocco economico e commerciale, caratterizzandosi invece con le attività di sabotaggio della produzione e della distribuzione di beni, cercando di strangolare economicamente il paese e di influenzare la piccola-borghesia orientandola verso i settori più reazionari. Facendo leva su una debolezza di fondo del processo bolivariano, come di altri movimenti progressisti in Sudamerica (il caso del Governo Allende in questo è stato paradigmatico), ovvero sulla decisione di sviluppare una politica popolare di redistribuzione e avanzamento delle condizioni di vita dei lavoratori e del popolo senza mettere in discussione la base materiale all’interno della quale questo processo si sviluppava. Non mettendo in discussione cioè la base capitalistica dei rapporti economici, ma agendo per costruire con grandi difficoltà una condizione di compatibilità tra capitalismo e interessi popolari. Non è un caso che l’unico paese che sia riuscito a resistere coerentemente e con successo per decenni alle ingerenze economiche e politiche dei paesi capitalisti sia stato Cuba, l’unico nel quale in breve tempo, dopo aver preso il potere politico, le organizzazioni popolari hanno rovesciato la natura dei rapporti economici, ponendo sin da subito la questione di un’economia socialista e del superamento delle relazioni economiche capitaliste. Non possiamo allo stesso tempo non porre l’attenzione anche sulle ovvie differenze storiche nelle quali i diversi processi si sono sviluppati. Ciò nonostante questo elemento, innegabilmente, ha pesato e pesa enormemente sulla capacità delle componenti più progressiste della coalizione oggi al governo in Venezuela sia nel fronteggiare l’aggressione imperialista sia nel condurre con coerenza lo sviluppo politico ed economico del processo bolivariano all’interno del blocco sociale che lo ha sostenuto, all’interno del quale, sin da subito, sono convogliati diversi interessi di classe.
Alla fine degli anni ’90 l’elezione di Chavez e l’avvio del processo bolivariano hanno messo in campo uno dei più importanti programmi di riforma di redistribuzione della ricchezza mai tentati. Nonostante l’imponente sistema di propaganda, che negli ultimi due decenni si è costantemente scagliato contro il Venezuela e contro la figura di Hugo Chavez, le conquiste sociali ottenute dal processo bolivariano sono indiscutibili e innegabili. Questo processo si è rafforzato anche grazie ad un enorme consenso tra le classi popolari e alla capacità di trasformare questo consenso in partecipazione delle classi subalterne attorno ad un grande progetto politico di redistribuzione della ricchezza derivata dalla principale risorsa naturale venezuelana, il petrolio. Questo blocco sociale, che il processo bolivariano ha saputo mettere insieme, non si è limitato a strappare quote di ricchezza nazionale ai monopoli internazionali e ai suoi soci nella borghesia nazionale venezuelana, ha infatti anche avviato un processo di riforme costituzionali per allargare gli spazi di partecipazione delle masse popolari – che di quel blocco sociale sono una componente fondamentale – e per strutturare, nell’impalcatura del sistema statale venezuelano, il potere economico acquisito.
Questi cambiamenti in senso fortemente progressista in Venezuela hanno avuto un ruolo centrale di influenza politico-ideologica e di sostegno in tutti in paesi dell’America Latina per tutto il primo decennio del XXI secolo. Sarebbe fuori luogo e poco utile in questo articolo cercare di affrontare compiutamente un bilancio di quell’esperienza, che per molti anni ha animato la lotta e le speranze di emancipazione di milioni di uomini e di donne nel continente latino-americano. Oggi il dato concreto è che quei movimenti sociali sono in una fase di grande difficoltà e che hanno perso, almeno temporaneamente, la battaglia per la gestione dello stato. Questo ovviamente ha messo il popolo venezuelano in una condizione di oggettiva difficoltà e di maggiore isolamento economico e politico nel continente. Questa situazione rappresenta le condizioni migliori per i monopoli internazionali per intervenire economicamente e politicamente in Venezuela con più decisione per sfaldare il blocco sociale bolivariano.
Questo non è però il fine ultimo dei monopoli, come è ovvio. Dobbiamo inquadrare con esattezza la fase internazionale del confronto inter-imperialista in questi ultimi anni per comprendere quali siano i piani imperialisti e in che modo coinvolgano il popolo venezuelano.
Come detto l’elemento centrale del progetto economico del processo bolivariano è stato, sin dall’inizio, l’appropriazione della ricchezza del settore petrolifero, per poter finanziare un forte programma di redistribuzione e di costruzione di uno stato sociale in grado di migliorare le condizioni di vita delle classi popolari venezuelane.
La recessione economica del 2009 ha modificato gli equilibri economici internazionali e i posizionamenti relativi all’interno della piramide imperialista, in maniera analoga all’attuale crisi sanitaria del Covid-19 e alla fase recessiva alla quale ci stiamo affacciando. Questa maggiore fluidità dei rapporti di forza tra i centri imperialisti ha determinato una forte accelerazione nell’aggressività dello scontro in tutti i settori cardine della struttura economica mondiale. Primo fra tutti quello dell’estrazione petrolifera. Nel secondo decennio del XXI secolo la crisi mondiale di sovrapproduzione del settore petrolifero ha assunto un ruolo centrale nello scontro tra centri-imperialisti, non solamente per il possesso dei pozzi, ma soprattutto per la redistribuzione di quote di produzione attraverso la politica degli oleodotti.
In questo contesto vanno inseriti gli avvenimenti internazionali del triennio 2011-2013, Maidan, le cosiddette primavere arabe in Tunisia, Libia ed Egitto, l’inizio della guerra in Siria e la svalutazione forzosa della moneta argentina1 e brasiliana, in entrambi i casi, gli scompensi economici che ne sono derivati hanno concorso a porre i presupposti per la sconfitta elettorale della sinistra socialdemocratica nei rispettivi paesi.
Per capire la politica estera statunitense è utile partire dalle condizioni dei monopoli petroliferi americani, di cui è chiaramente espressione, all’inizio e alla fine del decennio.
Il grafico mostra l’andamento della produzione di petrolio degli USA. È chiaro come dall’inizio del decennio – nonostante la condizione di sovrapproduzione del settore – il piano di uscita dalla recessione economica americana si sia strategicamente rivolto soprattutto ad uno sviluppo ipertrofico del settore petrolifero, sia per le quote di ricchezza prodotta che ne derivano sia per individuare un piano di scontro economico con gli altri centri imperialisti, nel quale rafforzare la propria posizione apicale nella piramide imperialista.
Gli interessi dei monopoli petroliferi americani sono sostanzialmente due. Il primo è ridurre le quote di produzione degli altri monopoli internazionali nel breve periodo attraverso misure dirette, come l’embargo, o indirette, attraverso l’influenza politica in paesi terzi per ostacolarne il trasporto e quindi aumentarne il prezzo, diminuendone le potenzialità competitive.
Il secondo interesse, più strategico, è quello di indebolire nel lungo periodo le loro infrastrutture produttive (estrazione, raffinazione e trasporto). Il crollo del prezzo del petrolio ha infatti cancellato molti degli investimenti strutturali nel settore, compromettendo la capacità futura di competizione sul mercato in una condizione di aumento della domanda. Le previsioni su questo sembrano comunque evidenziare un’aspettativa di aumento, infatti, della domanda di petrolio, soprattutto in Africa.
È in questa ottica dobbiamo analizzare la politica statunitense di embargo petrolifero del Venezuela, che nel corso del decennio ha diminuito la produzione del 70%.
Analogamente la natura della guerra in Libia è più chiara se si considera che la produzione oggi è calata da 1,8 milioni di barili nel al giorno del 2011, agli 0,28 di oggi, dopo l’ultimo drastico taglio della produzione nello scorso gennaio deciso dal governo di Haftar, sostenuto da Russia, Francia e EAU. I tagli alla produzione di cui si è discusso nelle riunioni di OPEC+, nel pieno della pandemia, sono cominciati all’inizio di questo decennio e sono stati portati avanti con la spada. In questi ultimi 10 anni gli Stati Uniti hanno aumentato di circa il 100% la propria produzione, la Russia del 13% (anche per compensare il crollo dei prezzi), il Qatar del 110%, l’Arabia Saudita di circa il 17%.
Per questo il Venezuela è stato al centro dei piani imperialisti e, proprio mentre si portavano avanti le negoziazioni in sede OPEC+, la pressione politica sul governo ed economica sul popolo venezuelano sono state sempre più feroci. L’avvicinamento dell’economia venezuelana ai capitali russi e cinesi rischia concretamente di non essere una misura sufficiente per garantire lo sviluppo del processo bolivariano attraverso quel forte sistema redistributivo che lo caratterizza. La sostituzione delle merci importante dagli Usa con quelle provenienti da Russia e Cina, se da un lato sopperisce ad un’ovvia necessità immediata, dall’altro invece continua a costituire un freno per un pieno sviluppo della produzione nazionale. Le condizioni di mercato in Venezuela rendono più profittevoli gli investimenti in importazione e distribuzione, che nello sviluppo di mezzi di produzione locali, in quanto l’industria dei beni di consumo, così come gran parte della distribuzione, sono nelle mani della borghesia venezuelana.
Un ulteriore duro colpo è stato a fine dello scorso marzo, nel quadro delle negoziazioni tra Russia e Stati Uniti, sui tagli della produzione petrolifera in vista del vertice OPEC+ del 9 aprile, la decisione del monopolio russo Rosneft (partecipato per il 50,01% direttamente dal Governo Russo e per il restante da società di investimenti petroliferi del Regno Unito e del Qatar) di cedere i propri asset in Venezuela, auto-congelandoli e parcheggiandoli in un fondo statale russo sotto la pressione degli USA, restringendo ulteriormente le condizioni concrete dell’embargo americano.
La scelta dei comunisti venezuelani
In questo contesto di crisi economica e di aggressione imperialista il ruolo dei comunisti venezuelani è sempre stato di sostegno al processo bolivariano in virtù delle importanti conquiste ottenute negli anni. Proprio in ragione di questo criterio fondamentale fu firmato un importante accordo bilaterale tra PCV e PSUV il 26 Febbraio 2018, firmato dal presidente Maduro e in cui si delineava una strategia di contrasto all’ingerenza imperialista e alla crisi economica dovuta sia al blocco economico sia all’aggressività della borghesia venezuelana, che ha comunque mantenuto nelle sue mani tutto il potere economico. PCV e PSUV convergevano al tempo sulla necessità di “affrontare la crisi del capitalismo Venezuelano dipendente e fondato sulla rendita con azioni politiche e socioeconomiche antimperialiste, patriottiche e popolari”, come appunto citava il testo dell’accordo.
L’idea era sostanzialmente di risolvere almeno due delle questioni che in questi anni hanno rappresentato un significativo elemento di ostacolo allo sviluppo del processo bolivariano. La forte dipendenza dalle importazioni di beni, che come sostenuto fortemente da Hugo Chavez rappresenta il principale freno per lo sviluppo delle forze produttive nazionali, e il costante ricatto della parte più reazionaria della borghesia venezuelana che nel corso degli ultimi venti anni ha costantemente agito per destabilizzare il processo bolivariano sabotando apertamente la produzione e la distribuzione sia di beni consumo sia di beni strategici per la gestione complessiva dell’economia venezuelana.
Come denunciato negli ultimi mesi dal PCV, questo accordo è stato disatteso senza spiegazioni, e si è invece proceduto in una direzione opposta per la necessità di ricevere un appoggio politico da parte dei partiti di opposizione. Il risultato di queste politiche, purtroppo, è stato il livellamento al ribasso dei salari, la concessione ai capitalisti venezuelani di procedere a vasti licenziamenti e la subordinazione degli interessi dei contadini a quella dei proprietari terrieri.
La denuncia del PCV è stata motivata proprio dalla necessità di difendere le conquiste del processo bolivariano e la sua stessa esistenza nella sostanza delle decisioni politiche governative.
Tutto ciò ovviamente non è certo slegato dal livello di sviluppo dell’imperialismo, dalle sanzioni economiche coercitive e dagli infami tentativi di colpi di Stato. La posizione del PCV e quella del PSUV, almeno fino alla firma dell’accordo bilaterale già menzionato, è che tanto più aggressivo si faceva l’attacco dell’imperialismo e della borghesia nazionale, quanto più sarebbe stata irremovibile l’intenzione di trasformare la società in senso progressista e socialista, senza dare alcuna concessione al capitale, sia esso nazionale o straniero.
Per queste ragioni il PCV, che fu la prima organizzazione venezuelana a sostenere Hugo Chavez nel 1998, ha deciso la scorsa primavera di uscire assieme ad altre forze politiche dalla coalizione di governo, della quale fa parte sin dalle elezioni presidenziali del 1999, e di promuovere l’Alternativa Rivoluzionaria Popolare (ARP). Questa coalizione ha assunto un programma combattivo per un’uscita rivoluzionaria dalla crisi del capitalismo venezuelano e di difesa delle conquiste ottenute dal processo bolivariano in questi venti anni. I comunisti venezuelani hanno manifestato, infatti, nel corso degli ultimi due anni tutte le contraddizioni espresse nella gestione governativa del PSUV, sempre più subordinata agli interessi della borghesia nazionale venezuelana e lesiva delle conquiste ottenute dal processo bolivariano per i lavoratori e il popolo venezuelano, senza però ottenere il rispetto dell’accordo programmatico stipulato nel 2018 tra PCV e PSUV.
Sulla censura del PCV in campagna elettorale
Altro fatto significativo che sta caratterizzando queste elezioni parlamentari è la censura indirizzata contro il PCV da parte dei media pubblici e privati, che ha provocato le proteste formali di numerosi partiti comunisti nel mondo. In una lettera pubblica, che il PCV ha pubblicato nelle ultime settimane, è stato sottolineato come “Tale politica di censura è condotta in aperta violazione dell’articolo 81 della legge sui processi elettorali, che obbliga i media pubblici e privati a realizzare una copertura informativa completa ed equilibrata delle offerte elettorali. Tuttavia, è importante notare che mentre il sistema pubblico dei mezzi di comunicazione censura il PCV e l’APR, fornisce copertura a tutti gli atti di campagna politica dei partiti che compongono il polo di governo, così come i partiti della destra, a cui concede anche la partecipazione a interviste e programmi di opinione elettorale”.
In tutti i dibattiti televisivi di questi mesi il PCV è stato deliberatamente escluso e accusato dal PSUV di fare “il gioco della destra e dei piani imperialisti”. Un richiamo al voto utile che ben conosciamo anche in Europa e che colpevolmente dimentica l’impegno antimperialista e patriottico dei comunisti venezuelani in tutti questi anni e, soprattutto, negli ultimi mesi. Un’accusa ingiustificata e poco responsabile, più funzionale alle finalità di consenso elettorale che di interlocuzione per la difesa della pratica antimperialista e di difesa sostanziale degli interessi dei lavoratori e degli strati popolari di fronte al progressivo arretramento degli ultimi anni delle conquiste ottenute dal processo bolivariano.
Di fronte a questa situazione il PCV ha risposto con fermezza, inviando una lettera al Consiglio Elettorale Nazionale (CNE) per porre fine da un lato al blocco mediatico contro l’APR e dall’altro ai vantaggi elettorali del PSUV e dei partiti di opposizione.
Non è mancato il pieno supporto della gioventù comunista venezuelana (JCV), che in un comunicato ha affermato come “gli sforzi principali della JCV sono stati indirizzati nell’organizzare e unire i giovani militanti, patriottici e combattenti venezuelani alle dinamiche e ai processi collettivi dell’APR, nella prospettiva di contribuire alla concezione programmatica per il superamento rivoluzionario della crisi capitalista, così come nel programma parlamentare rivoluzionario, trascendendo dalla questione elettorale, ampliando il lavoro con le diverse espressioni popolari giovanili, per la costruzione di rapporti di forza più favorevoli per gli interessi popolari contro la polarità castrante tra i settori reazionari allineati con l’imperialismo e i traditori del popolo, riformisti e sottomessi all’istituzione statale”.
1. https://www.senzatregua.it/2014/02/02/crisi-argentina-la-sovranita-non-basta/