di Ivan Boine
Il 9 dicembre è andato in scena lo sciopero dei lavoratori del settore pubblico (esclusa la scuola), convocato dalle federazioni di settore affiliate a CGIL, CISL e UIL. Tra le principali ragioni dello sciopero ci sono la mancata inversione di rotta circa i tagli (inclusi quelli alla sanità pubblica) e la crescente precarietà, il tutto condito dalla richiesta di utilizzare i fondi messi a disposizione dal Recovery Fund per migliorare la situazione. A nulla è servito l’incontro fissato per il 10 dicembre dal Ministero per la Pubblica Amministrazione.
Il Covid-19 ha dimostrato che i tagli alla sanità pubblica hanno smantellato il Sistema Sanitario Nazionale, rendendolo impreparato ad affrontare la pandemia, nonostante la serietà professionale dimostrata da tutto il personale sanitario. Il problema della stabilizzazione dei lavoratori con contratto a tempo determinato è ormai di carattere cronico, con situazioni che particolarmente gravi che portano a enormi disagi, si veda il problema delle cattedre vacanti che per mesi restano vuote nelle scuole italiane.
Si tratta di problemi reali, evidenti, sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, lo sciopero del 9 dicembre ha subito un duro attacco da parte di un fronte ampio che ha riciclato una lettura già vista degli scioperi del comparto pubblico. La retorica utilizzata è univoca: lavoratori pubblici, una casta di privilegiati, contro lavoratori privati e partite Iva, vittime della crisi che i dipendenti dello Stato non possono toccare con mano. «Lo sciopero dei lavoratori più garantiti in assoluto» (Calenda, Azione), «Lo sciopero indetto per il 9 dicembre, a mo’ di ponte, dai sindacati del pubblico impiego è vergognoso» (Ruggieri, Forza Italia), «I lavoratori del pubblico impiego sono quelli che hanno sofferto meno» (Bonomi, Confindustria), «Appare lunare l’atteggiamento dei sindacati, il rischio, serissimo, che corrono è quello di apparire davvero fuori dal mondo» (Garruti, Cinque Stelle), «Lo sciopero dei lavoratori più garantiti e tutelati è semplicemente irresponsabile» (Librandi, Italia Viva). Non solo, analisi più approfondite arrivano dalla ministra Dadone (PD), da Salvini (Lega) e da Meloni (FdI) che parlano di uno sciopero che alimenta tensioni sociali. Per non farci mancare nulla citiamo anche l’UGL, erede del sindacato legato ai neofascisti del MSI, che ritiene lo sciopero «inopportuno in questo momento di emergenza sanitaria ed economica» (non sia mai che si tocchino gli “interessi della Nazione”, rigorosamente con la N maiuscola).
Questo è il disegno tracciato abilmente da chi in questi anni ha sostenuto, promosso e votato i tagli più pesanti ai diritti sociali. Si tratta delle stesse figure che hanno sostenuto l’austerità più dura, che hanno gestito le crisi – quella del 2008 e quella attuale – a favore della Confindustria, per tutelare i profitti del grande capitale. Dieci anni fa la retorica non era tanto diversa: da una parte i lavoratori più anziani, i “garantiti”, che minacciavano il futuro dei giovani precari e di chi ancora non era entrato nel mondo del lavoro. Con quella retorica sono stati votati la legge Fornero, il Jobs Act, i tagli alla pubblica amministrazione e al settore pubblico. In altre parole, attaccando il presunto privilegio di una parte dei lavoratori, in quel caso i più anziani, sono stati cancellati i diritti di tutti i lavoratori, giovani e vecchi, attuali e futuri.
La retorica generazionale e quella che vuole dipingere i lavoratori pubblici come “privilegiati” hanno una matrice comune che a questo punto dovrebbe essere evidente. Per comprenderla ci aiuta l’impostazione di un articolo del Corriere della Sera che si conclude con due studi sulle differenze salariali tra pubblico e privato. In sintesi, i lavoratori del pubblico prendono più di quelli del privato, anche se lo studio citato considera tanto i grandi dirigenti quanto i lavoratori precari sottopagati. I dipendenti statali – sin afferma – costano di più. Non solo, il telelavoro (o smart working) si rivela più funzionale: come ci ricorda la ministra Dadone (fonte), «tutte le ricerche ci dimostrano che aumenta la produttività». Snellire il pubblico impiego, “aumentare la produttività”, guardando sempre più a un modello in cui non sono retribuite le ore di lavoro ma i risultati raggiunti. Usando le parole della ministra, «chi lavorava tanto, lavorerà ancora di più». Tuttavia, si parla di «diritto alla disconnessione» con il fine di «scongiurare che il lavoro da remoto possa deformarsi in uno strumento eccessivamente condizionante» (com’è umana, lei!).
La direzione tracciata è chiara. Non è un caso che si torni a parlare di lavoratori pubblici “privilegiati e benestanti” nel momento in cui si affacciano sulla scena politica i fondi del Recovery Plan, vincolati a riforme che i governi dovranno attuare. Di che riforme si parla già l’abbiamo visto con il governo Monti: politiche di tagli, magari rivolte a quei dipendenti pubblici privilegiati (che nel mentre, però, rendiamo “più produttivi”). Nel mentre, non bisogna dimenticarli, arrivano gli appelli della Confindustria a superare la contrattazione nazionale in favore di quella aziendale e alla fine anticipata del blocco dei licenziamenti. Com’è che si diceva? Privatizzare il pubblico e precarizzare il privato?
Lo sciopero del 9 dicembre, al di là di ogni dibattito, è stato un fallimento: solamente il 4% dei lavoratori interessati ha incrociato le braccia. Non si tratta di un caso. Negli ultimi trent’anni – e le radici del problema vanno ricercate ancora prima – le forze politiche e sindacali conflittuali sono sempre più arretrate. I grandi sindacati confederali, CGIL in testa, hanno abbracciato prima la concertazione e poi l’aperta collaborazione con i padroni e con le loro istituzioni. Lo sciopero è diventato una “minaccia” da utilizzare laddove le trattative non vadano nella direzione auspicata dalle burocrazie sindacali. Ma quando c’era bisogno della lotta, come nei giorni dell’approvazione del Jobs Act, il massimo che si è avuto è stato uno sciopero di 4 ore a delega già approvata. Quando si arriva a snaturare a tal punto il significato dello sciopero come strumento di lotta dei lavoratori, non c’è da stupirsi se il risultato è la disaffezione e la scarsa reattività.
Allo stesso modo, sintomo e prodotto di questo snaturamento del senso dello sciopero è l’accettazione diffusa dell’idea dello sciopero che deve “creare disagio” e disservizi, spesso chiamata in causa nelle discussioni sugli scioperi dei dipendenti pubblici. Espressa in questi termini, senza chiedersi se il disagio in questione lo si causa ai padroni (come nel caso di una fabbrica occupata in cui incrociare le braccia significa fermare la produzione e quindi i profitti dell’azienda) o ad altri lavoratori e settori popolari (è il caso ad esempio degli scioperi nei trasporti e nelle amministrazioni), quello che viene meno è l’idea dello sciopero come strumento di lotta di classe, rivolto cioè contro i padroni. La cultura sindacale concertativa, che ha assecondato la frammentazione delle forme contrattuali e negato l’importanza di costruire un’unità dei lavoratori di tutte le categorie non solo sul piano formale dell’appartenenza allo stesso sindacato, ma anche e soprattutto in termini di coordinamento generale delle lotte di tutti i lavoratori, ha in questo senso contribuito ad alimentare le contrapposizioni su cui oggi i padroni fanno leva per attaccare i dipendenti pubblici e presentarlo come un attacco ai “privilegi”, quasi invocato a furor di popolo. Questa considerazione non vuole in alcun modo mettere in dubbio la legittimità di uno sciopero del pubblico impiego (dovrebbe essere ormai chiaro per chi è arrivato a questo punto dell’articolo), ma affermare la necessità di costruire a monte un’unità dei lavoratori che impedisca ai padroni di utilizzare a loro favore delle contrapposizioni costruite artificialmente.
Il modo di fare informazione oggi riflette specularmente gli interessi in gioco di fronte all’attuale crisi economica accelerata dalla pandemia. La narrazione contro i dipendenti pubblici, tutt’altro che limitata allo sciopero ma costantemente presente da mesi nella retorica di chi pone in contrapposizione le tutele di questa categoria con le difficoltà dei lavoratori dipendenti e autonomi, va in una direzione chiara: l’ennesima guerra tra poveri per preparare il terreno a un attacco ai diritti che sarà generalizzato. Molto dipenderà dalla nostra capacità di rispondere con l’unità dei lavoratori e con la lotta a questo attacco. O si sta con chi lavora, o con gli sfruttatori. Vie di mezzo non ce ne sono.