di Ivan Boine
Il 31 dicembre e il 1°gennaio di ogni anno diventano l’occasione per la condivisione sui social network di stralci di un celebre articolo di Antonio Gramsci. La frase più condivisa è senza dubbio «Odio il capodanno», utilizzata per andare controtendenza rispetto alla retorica dei “buoni propositi per l’anno nuovo”. Un ritornello che vedremo in scena anche quest’anno, a maggior ragione che la pandemia ha reso il 2020 un anno unico e indimenticabile in negativo. Nelle parole di Gramsci, però, c’è molto di più e per capirlo non c’è via migliore che leggere integralmente le parole che scrisse sulle pagine dell’edizione torinese dell’Avanti!, giornale del Partito Socialista Italiano.
Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.
Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.
Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.
E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 o il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.
Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.
Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.
Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.
(Antonio Gramsci, 1 gennaio 1916, Avanti!, edizione torinese, rubrica Sotto la Mole.)
C’è molto di più di un semplice «Odio il capodanno». Questo articolo appare nel Capodanno del 1916, mentre migliaia di giovani contadini, operai e studenti sono al fronte a combattere nelle trincee. Se il 2020 ha spezzato la nostra “normalità”, il 1915 – l’anno che Gramsci si è appena lasciato alle spalle – è l’anno dell’entrata in guerra dell’Italia, l’anno in cui anche le classi popolari italiane toccano con mano la guerra imperialista. In questo contesto, il militante del PSI torinese scrive un vero e proprio inno alla vita, senza lasciare spazio allo spiritualismo e a qualsiasi retaggio religioso.
Il ragionamento sulla “cronologia” e sulle ricorrenze imposte dalla tradizione culturale di appartenenza è solo il primo passo. Gramsci arriva così alla famosa conclusione – «odio il capodanno» – che non esaurisce una riflessione molto più raffinata. Il passaggio finale – «aspetto il socialismo anche per questo» – ci riporta a una questione ben precisa. La guerra mondiale, un evento travolgente che non ha precedenti per le modalità con cui viene combattuta, cambia, modifica e stravolge il modo di pensare di un’intera generazione. Quel cambiamento è già in atto quando Gramsci scrive. Il 1914 si colloca come un anno spartiacque. Innanzitutto, Il mito positivista borghese della Belle Époque crolla inesorabilmente di fronte ai morti nelle trincee; la fede – travestita da certezza – che il benessere sarebbe stato diffuso a strati sempre più larghi della popolazione si scontra con la guerra in nome dei grandi monopoli economici; il progresso tecnologico – faro di speranza a inizio Novecento – mostrerà il suo doppio volto con le prime armi chimiche. Non solo, per l’area politica a cui Gramsci appartiene il 1914 è l’anno della fine della Seconda Internazionale, l’anno in cui i grandi partiti socialdemocratici – su tutti quello tedesco – votano a favore dei crediti di guerra tradendo l’internazionalismo proletario.
L’inno alla vita di Gramsci si colloca in questo contesto. È una voce fuori dal coro, che vede già oltre, che guarda lontano. Mentre la gioventù italiana è chiamata al fronte per una guerra voluta dal grande capitale, l’Avanti! del 1°gennaio del 1916 ospita un vero e proprio slancio a un mondo nuovo. L’invettiva contro il Capodanno è un attacco, un rifiuto categorico dell’ordine borghese. Se il lessico non è ancora quello del Gramsci più maturo – «Aspetto il socialismo» è ancora una traccia del determinismo tipico tanto dei riformisti quanto dei massimalisti all’interno del PSI – questo articolo è il primo passo compiuto da quello che sarà l’animatore di una battaglia ideologica e culturale con l’obiettivo di dare forma a una cultura proletaria in grado di spingere la classe lavoratrice alla costruzione di un ordine nuovo.
La pandemia ha segnato in maniera indissolubile l’anno che ci lasciamo alle spalle. Il 2020 ha visto cambiare molti aspetti della nostra quotidianità: i ritmi di lavoro sono stati stravolti, la socialità a tratti annullata, i modi di convivenza ripensati. Una cosa sicuramente segnerà ancora l’anno che verrà oltre al Covid-19: la crisi economica. Di fronte a un sistema che non è riuscito a garantire il diritto alla salute, che ha garantito profitti sempre maggiori ai padroni mentre le condizioni della classe lavoratrice sprofondano, bisogna ripartire da Gramsci. Non serve a nulla “odiare il capodanno” se non ci si rende partecipi di quello slancio a rinnovare l’intera società di cui Gramsci scrive. Ci hanno ripetuto per mesi che convivere con la pandemia avrebbe cambiato in meglio il nostro modo di vivere. Sicuramente non sono cambiate e non cambieranno le condizioni di sfruttamento nei luoghi di lavoro, come non cambieranno decenni di politiche indirizzate a distruggere tutte le conquiste del movimento operaio. Anzi, le disuguaglianze sociali aumenteranno con l’approfondirsi della crisi, le condizioni di vita di larghi strati della popolazione peggioreranno (basta pensare all’ondata di licenziamenti già annunciata). Non serve a nulla “odiare il capodanno” se non ci rendiamo protagonisti fin da subito del cambiamento di cui abbiamo bisogno, formando una nostra cultura, combattendo anni di propaganda ideologica costruita sull’individualismo e sul mito della meritocrazia, opponendo a questo sistema un ordine nuovo che rispetti le esigenze e le aspirazioni delle classi popolari.