di Paolo Spena
Rischiamo davvero di restare indietro, cari compagni. Gli avvenimenti negli USA ce lo stanno dimostrando. O meglio, lo dimostra l’incapacità dell’intera sinistra radicale e gran parte dei comunisti in Italia di commentare i fatti di Washington dicendo qualcosa, qualsiasi cosa che non sia la banale certificazione dell’ovvio. Vista dall’esterno, l’impressione che diamo collettivamente è quella di chi, dopo anni passati a ripetere che gli USA sono una cosa molto diversa dalla favola del sogno americano, oggi scopre che anche il resto del mondo se ne sta accorgendo. Dinanzi a questa strabiliante scoperta, il grosso di noi non va oltre la reazione entusiasta di chi finalmente annuncia “l’avevo detto”. La magra consolazione di chi può dire di aver scoperto l’acqua calda prima degli altri e ora si toglie il sassolino dalla scarpa.
Un atteggiamento doppiamente dannoso, se pensiamo che al di fuori della nostra bolla c’è in ogni caso un apparato mediatico fortemente allineato sulla narrazione di una parte ben precisa, che parla da ieri di un attacco al “cuore della democrazia” (identificato con gli USA in sé). Il risultato è che da un lato non siamo capaci di decostruire questa narrazione, smentita dai fatti ma ancora onnipresente; dall’altro restiamo inchiodati all’assenza di un dibattito serio a sinistra e nell’area comunista, auto-relegandoci a fotografare l’esistente, e nemmeno in tutti i suoi aspetti.
Sì, gli Stati Uniti sono in crisi, ed è profonda. Succede perché perdono posizioni a livello internazionale, sul piano economico e commerciale, ma anche su quello militare e più in generale nella capacità di presentarsi come un modello per il resto del mondo. L’aggressività della loro politica estera negli ultimi anni è dipesa molto da questo, dalla volontà di difendere con la forza militare quella posizione di vantaggio nella piramide imperialista mondiale, che non era più sorretta dalla sola forza economica.
Negli anni dell’amministrazione Trump e nei mesi di campagna elettorale è emerso chiaramente come il paese sia effettivamente diviso tra due opzioni di gestione capitalistica. Due opzioni che, a dispetto delle facili semplificazioni, non sono più due facce della stessa medaglia, come si poteva dire della politica USA nella seconda metà del XX secolo, quando democratici e repubblicani convergevano essenzialmente su tutte le questioni fondamentali. Sono opzioni molto diverse, che si traducono in strategie diverse sul piano internazionale ed economico, nella gestione economica e politica interna e così via. Chi pensa che i capitalisti negli USA stiano solo facendo finta di litigare, alimentando nella popolazione tifoserie e contrapposizioni artificiali per coprire ricette politiche ed economiche coincidenti, ha davvero capito molto poco. Sulla frattura nelle classi dominanti degli USA, questa riflessione risalente all’indomani delle elezioni di due mesi fa resta tutto sommato ancora attuale.
I fatti di ieri sera sono l’ultimo sviluppo di un conflitto già preannunciato, sin da quando in campagna elettorale i due candidati presidenti affermavano, con toni diversi, che non avrebbero riconosciuto la vittoria dell’altro. Donald Trump ha tenuto un comizio alla manifestazione dei suoi supporters convocata in occasione della cerimonia di verifica della vittoria di Biden presso il Congresso, parlando apertamente di elezioni truccate, di fake news e invitando i manifestanti a contestare il risultato. Ciò che è seguito lo abbiamo visto in mondovisione.
Non è un tentativo di colpo di Stato o cose simili. Non solo per una banale questione nominale (Trump è ancora il presidente in carica e le istituzioni contro cui si rivolgerebbe un eventuale golpe sono sono le “sue”), ma anche perché né i manifestanti in questione né la reazione dei democratici e degli apparati istituzionali si sono mai posti sul piano dello scontro militare. L’intento, ormai evidente, era piuttosto realizzare una azione dimostrativa eclatante, che rompesse il normale svolgimento di una procedura istituzionale con l’obiettivo di minarne la credibilità e l’impatto simbolico, sperando di ottenere il rinvio della certificazione della vittoria, in attesa di un pronunciamento della Corte Suprema. Il videomessaggio di invito a “tornare a casa”, diffuso via Twitter da Trump un secondo dopo le dichiarazioni di Biden che ha parlato di un attacco alla democrazia, comincia significativamente con le parole “le elezioni ci sono state rubate”, e solo dopo continua con l’invito alla calma. Un dettaglio che non è un dettaglio.
Sotto gli occhi abbiamo uno scontro portato sul piano reale e nel cuore dello Stato, che Trump ha preparato nel corso degli ultimi mesi con alcune mosse chiave. Significativa è stata la collaborazione – innegabile – da parte di settori degli apparati di sicurezza, che in nessun’altra occasione avrebbero tollerato un’incursione di quel tipo all’interno del Campidoglio di Washington. In molti, non a caso, hanno confrontato gli ingenti schieramenti di forze dell’ordine durante le proteste del Black Lives Matter, con la condotta chiaramente tollerante della polizia di ieri. Ma il fatto che la polizia ieri abbia trattato i manifestanti pro-Trump con i guanti ha molto poco a che vedere col white privilege (che esiste, ma non è questo il caso). Il 9 novembre, pochi giorni dopo il voto, Donald Trump aveva rimosso il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, sostituendolo con Christopher C. Miller, già nominato ad agosto direttore del centro nazionale antiterrorismo. Trump si è assicurato la presenza nei posti chiave di uomini fidati, disponibili a cooperare con l’innalzamento del livello dello scontro. Questo è il primo fattore. In secondo luogo, non va dimenticato che se le proteste scaturite dalla morte di George Floyd furono a tutti gli effetti una rivolta di classe, spontanea e rivolta contro le istituzioni e lo Stato borghese, qui ci troviamo dinanzi a qualcosa di molto diverso: una protesta che non si rivolge contro il sistema o contro lo Stato, ma che chiede che a capo di quello Stato ci sia una fazione specifica. Le forze dell’ordine non erano sotto attacco.
Quello che emerge nel complesso è che le fazioni che oggi si confrontano sono disposte anche a trascinare questo scontro all’interno dell’apparato statale, a tramutarlo in uno scontro tra le loro stesse istituzioni.
La complessità degli eventi e delle ragioni che portano a questo scontro così aspro sono tali da rendere doverosa una domanda: quanto ha senso limitare la nostra invettiva all’ovvietà dei “due pesi e delle due misure”, del “se fosse successo in un altro paese gli USA avrebbero esportato la democrazia a suon di bombe o colpi di Stato”? Tutto vero, per carità. Sono narrazioni che abbiamo sentito fino alla nausea nel passato e che oggi sono poco credibili agli occhi di chiunque. Ma non stiamo centrando il bersaglio.
«Per il metodo dialettico è soprattutto importante non già ciò che, a un dato momento, sembra stabile, ma già incomincia a deperire, bensì ciò che nasce e si sviluppa, anche se, nel momento dato, sembra instabile». Ecco, finora abbiamo solo certificato ciò che inizia a deperire, ma serve davvero a poco oggi ribadire che il vecchio mondo sta cambiando. L’urgenza che abbiamo è discutere, e discutere davvero, sul mondo del XXI secolo che ormai, giunti nella terza decade del secolo, va definendosi abbastanza chiaramente. Se gli USA sono in crisi è proprio perché hanno il problema di rapportarsi con un mondo in cui non saranno più l’unica superpotenza egemone, che tra 7 anni (secondo alcune statistiche) vedrà l’economia cinese salire sul podio del centro del capitalismo mondiale.
Se non saremo capaci di analizzare e comprendere questa nuova realtà, che certo è un lavoro molto più difficile del dire cose banali con cui tendenzialmente in pochi possono trovarsi in disaccordo, l’unico risultato sarà ritrovarci disarmati dinanzi alle pressioni ideologiche che provengono dal campo avversario e vengono riportate nel nostro campo senza che vi siano gli strumenti ideologici per rispondere adeguatamente. Ad esempio ciò che manca sempre più spesso, anche tra i compagni insospettabili, è la capacità di leggere in termini di classe le vicende interne agli Stati Uniti, così come la loro politica estera. Manca cioè la capacità di leggere la crisi della democrazia borghese degli USA in quanto tale e non solo come una semplice contraddizione tra la retorica dei governi USA contro i paesi “non democratici” e ciò che fanno in casa loro. Manca la capacità di criticare le politiche imperialiste e di aggressione portate avanti dai governi USA in un’ottica che ne evidenzi il carattere di classe, il legame con gli interessi dei principali settori monopolistici. Troppo spesso tutto questo viene declinato nei termini di un generico antiamericanismo, della polemica contro la “cultura americana” in sé, delle polemiche formali sul campo del diritto internazionale contro le provocazioni nei confronti di governi “legittimi” o “legittimamente eletti”, o il mancato rispetto della sovranità di altri Stati. È lentamente venuta meno la consapevolezza del fatto che gli USA sono la principale potenza imperialista perché sono (ancora) il vertice del capitalismo mondiale, e non per altro. Non è una finezza teorica, perché quando l’approccio fondato sulla concezione leninista dell’imperialismo viene sostituito con la retorica che intende l’imperialismo come semplice politica aggressiva o pratica di dominazione, si approda a conclusioni politiche del tutto sbagliate, se non addirittura reazionarie.
Prendiamo ad esempio questa affermazione: «La civiltà dell’hamburger si avvia al suo tramonto, auspicabilmente. Sulle sue ceneri, è da sperare che nasca un mondo multipolare, basato su equilibri di forze e libero dalla dominazione imperialistica a stelle e strisce». Lo scrive oggi Diego Fusaro, noto ideologo del sovranismo borghese “non mainstream”, cioè quello che si organizza al di fuori del centro-destra trainato da Salvini e Meloni. È una frase significativa, perché a partire dalla constatazione di un fatto (il tramonto della “civiltà dell’hamburger”) avanza una tesi ben precisa: la riconfigurazione della piramide imperialista globale su un assetto fatto di competizione tra una pluralità di potenze capitalistiche sarebbe un fatto di per sé positivo perché sancirebbe la fine dell’imperialismo a stelle e strisce. È più o meno la posizione dei governi borghesi di tutte le potenze capitaliste emergenti, e questo è solo un esempio di come una considerazione auto-evidente non sia affatto una garanzia di non finire fuori strada. Vale per questo, così come per la tesi (lanciata ieri sera da Gianluigi Paragone in prima serata, e già circolante anche tra alcuni compagni) secondo cui i disordini a Washington sarebbero in realtà una macchinazione dei “Dem” per lanciare una nuova offensiva su scala globale contro le rivendicazioni di “sovranità” dei popoli. O ancora, vale per le visioni di chi oggi identifica i manifestanti pro-Trump come “il popolo” in rivolta, mentre fino a pochi mesi fa si bollavano le grandi mobilitazioni popolari e di classe scaturite dall’uccisione di George Floyd come “rivoluzione colorata” o proteste “fucsia” orchestrate dalle élite liberal e dai democratici USA. Narrazioni reazionarie e dannose che da tempo vengono fatte proprie anche da pezzi dell’area comunista che hanno deciso di collocarsi in quel campo.
La scelta che abbiamo davanti è chiara. Accettare di essere dei banali commentatori delle vicende politiche che osserviamo dalla finestra, costantemente alla mercé delle pressioni ideologiche estranee al nostro campo che ci tirano per la giacchetta. Oppure scegliere di costituire un campo autonomo, non riducibile agli schieramenti della politica del nemico di classe e inaccessibile alle sue influenze. Questa seconda opzione è molto più difficile, perché oltre all’enorme sforzo di organizzazione della nostra classe per evitare che essa sia trascinata alla coda degli scontri in seno alle fazioni della borghesia, richiede anche di abbandonare ogni pigrizia mentale, di assumere come impegno collettivo quel fermento ideologico che è più che mai necessario per far diventare effettiva quella impenetrabilità che altrimenti diventa lettera morta. Mai come oggi, non possiamo più accontentarci di dire banalità.