Dopo l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio, sta facendo discutere da giorni il blocco dei profili social di Donald Trump da parte di Twitter e Facebook, seguite poi da altre piattaforme e applicazioni, e dai ban di ulteriori pagine e profili riconducibili alla destra sovranista. La motivazione ufficiale risiederebbe nel rischio elevato di una diffusione di nuovi messaggi di incitamento alla violenza da parte del tycoon.
Il fulcro della discussione viene individuato, per ragioni comprensibili, nella libertà di espressione e nel potere dei social network nel decidere cosa può essere ammissibile e cosa no. La vicenda ha ricordato a tutti che i social non sono un terreno “democratico”, ma piattaforme controllate da grandi società private che, nonostante l’enorme diffusione di cui godono, possono unilateralmente (e “legittimamente”) oscurare un profilo, fosse anche quello di un personaggio politico. Non è neanche la prima volta che accade qualcosa di simile. In passato Facebook oscurò le pagine di quotidiani e media palestinesi ampiamente riconosciuti; pochi anni fa, dinanzi al tentativo (poi fallito) di Juan Guaidó di autoproclamarsi presidente del Venezuela, lo sostenne apertamente rimuovendo la “spunta blu” (quella che conferma l’autenticità di una pagina di un personaggio pubblico) dalla pagina di Nicolas Maduro e riconoscendola proprio a Guaidó (che nella pagina si indicava come presidente del Paese), di fatto prendendo posizione in una crisi politica in corso.
Il problema del dibattito in corso, che periodicamente si riapre in occasione di episodi simili, è che si resta impantanati nella retorica del “potere delle grandi multinazionali che influenzano la politica degli Stati”, minacciando la libertà di informazione o di espressione. E a quel punto, la minaccia alla libertà di informazione viene identificata con i CEO di Facebook e Twitter, grandi miliardari che “non rispondono a nessuno” ma che, in virtù del loro strapotere economico, possono decidere delle sorti della politica con un semplice click.
Questa visione è problematica per una ragione fondamentale: è l’informazione nel suo complesso, nel capitalismo, a non essere né un campo neutro né tantomeno “democratica”. Senza negare alcune specificità dei social network, il punto è che il problema non sono le multinazionali, ma il carattere di classe dell’informazione, che deriva dai rapporti di proprietà e dalla concentrazione economica che agiscono anche in questo settore.
Basterebbe guardare ai quotidiani e media italiani: sono quasi tutti riconducibili alla famiglia Agnelli, a quella Berlusconi e alla Confindustria. Per fare un esempio, il solo gruppo GEDI (legato agli Agnelli), dopo alcune recenti acquisizioni, è arrivato a controllare Repubblica, L’Espresso, Il Secolo XIX, La Stampa ed alcuni giornali online tra cui il noto HuffPost Italia, più diverse emittenti radiofoniche. I meno giovani ricorderanno chiaramente il dibattito dei tempi di Berlusconi, leader politico che controllava Mediaset e, negli anni di governo, aveva voce in capitolo sulla Rai. In tutti questi casi parliamo di aziende italianissime, eppure in uno scenario del genere la “libertà di stampa” e di informazione non ne esce meno minacciata nei fatti rispetto a quando a intaccarla sono le multinazionali.
La “censura” di cui Trump sarebbe stato vittima e per cui molti si stracciano le vesti esiste già quotidianamente per i lavoratori. Viene praticata ogni giorno da mezzi di informazione controllati dai grandi gruppi monopolistici. Nessun media si impegna seriamente nel descrivere le condizioni di sfruttamento nei luoghi di lavoro, nel dare spazio alle lotte dei lavoratori, nel rendere pubblica la durezza della repressione antioperaia e antisindacale. Lo scorso giugno, per citare un caso recente, gli operai che scioperarono nello stabilimento TNT di Peschiera Borromeo per protestare contro 80 licenziamenti politici sono stati caricati dalla polizia. Più di dieci camionette per bastonare i lavoratori a colpi di manganello. Quanti hanno letto questa notizia sui giornali? La risposta è scontata. Il punto è che i mezzi di informazione della borghesia sono sempre, per loro natura, rivolti contro i lavoratori, e nessuno si straccia le vesti per questo.
Accade invece che, quando un miliardario viene messo a tacere su un social network di proprietà di altri miliardari nel contesto di uno scontro politico tra fazioni diverse del capitale, si grida alla censura e all’assenza di libertà di informazione. Ma quale libertà si sta difendendo? La libertà di chi? Alcuni, anche a sinistra, dinanzi al ban di cui Trump è stato vittima hanno usato l’argomento che “domani potrebbe succedere a noi”. Forse non è chiara una cosa: per noi già succede. La censura, o comunque l’enorme disparità di condotta dei mezzi di informazione, nei nostri confronti e nei confronti delle classi oppresse esiste indipendentemente dalla presenza o meno su un social network. Specie se il social network in questione, come Facebook, si basa su un algoritmo che ci illude di star esprimendo le nostre opinioni a tutti, ma in realtà ci rinchiude in una “bolla” assieme a quelli che – tendenzialmente – già condividono i nostri interessi e le nostre opinioni. E se vuoi uscire da quella bolla, di solito, devi pagare le sponsorizzazioni. Più che la libertà di informazione, è la (loro) libertà di impresa.
Per quanto riguarda ciò che è accaduto negli USA, è abbastanza chiaro che i giganti del web hanno semplicemente optato per una mossa utile a ingraziarsi la fazione che – ormai innegabilmente – ha conquistato la vittoria (politica, prima ancora che elettorale) in uno scontro politico senza esclusione di colpi che consuma da tempo le classi dominanti americane.
Qual è il morale di questa riflessione? Che i mezzi del nemico sono i mezzi del nemico, e restano tali. Il fatto che oggi su queste piattaforme decidano – per valutazioni tattiche sulla propria comunicazione – di essere presenti anche coloro che cercano di far avanzare una visione diversa da quelle che la politica borghese impone come dominanti, non deve farci dimenticare questa verità. E soprattutto, in nessun modo questa consapevolezza può tradursi nella richiesta di una impossibile “neutralità” o “democraticità” dei social network, o nella banale rivendicazione di maggiori vincoli di “par condicio”, perché tutto questo è in contraddizione con il carattere stesso dell’informazione nel capitalismo. La stessa par condicio elettorale prevista dalla legge italiana, tra l’altro, è già di fatto lettera morta.
A chiusura di questo ragionamento vale la pena riportare le parole di Lenin sulla questione. «I capitalisti – dice il rivoluzionario russo – chiamano libertà di stampa la libertà per i ricchi di corrompere la stampa, la libertà di usare le loro ricchezze per fabbricare e contraffare la cosiddetta opinione pubblica. In realtà i difensori della “democrazia pura” sono i difensori del più immondo e corrotto sistema di dominio dei ricchi sui mezzi d’istruzione delle masse, essi ingannano il popolo, in quanto lo distolgono, con le loro belle frasi seducenti e profondamente ipocrite, dal compito storico concreto di affrancare la stampa dal suo asservimento al capitale». E ancor più importante è la soluzione che indicava all’indomani della Rivoluzione d’Ottobre: «La libertà di stampa cessa di essere un’ipocrisia, perché le tipografie e la carta vengono tolte alla borghesia».
In contesti e condizioni diverse, è il concetto di fondo che non cambia. La libertà di stampa e di informazione i lavoratori possono conquistarle per la propria classe solo costruendo i propri mezzi di informazione, creando un campo dell’informazione indipendente dalle logiche e dagli interessi della classe avversaria. Chiedere che i mezzi del nemico cessino di essere i mezzi del nemico rischia invece di essere davvero un esercizio da anime belle.