di Enrico Bilardo (segreteria nazionale FGC)
Il 22 gennaio del 1891 ad Ales, un piccolo paesino di campagna in Sardegna, nasceva Antonio Gramsci. A centotrenta anni dalla nascita la sua figura vanta un riconoscimento pressoché universale, tanto da renderlo uno dei pensatori italiani più studiati e tradotti all’estero ed essere inserito nella “classifica” dei 250 più grandi autori di ogni tempo e ogni lingua dall’Unesco.[1] Del resto persino i nemici non hanno mai sottovalutato il genio del più grande tra i comunisti italiani. Un dato di fatto che nel corso dei decenni ha comportato attacchi alla figura e al pensiero di Gramsci. Alcuni, specie quelli sviluppatisi mentre era ancora in vita, aperti e diretti. Celebre è, in tal senso, la frase del pubblico ministero fascista Isgrò che, a conclusione della sua arringa, nell’ambito del “processone” con cui venivano messi sotto accusa l’intero gruppo dirigente del PCd’I e i comunisti italiani – che rappresentavano la principale minaccia per il regime fascista – affermò senza mezzi termini “per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare”.[2] Un obiettivo che il fascismo cercò di conseguire, incarcerando Gramsci praticamente fino alla sua morte. Un tentativo vano, dato che l’allora segretario del Partito Comunista d’Italia, nonostante le precarie condizioni di salute e la durezza del carcere, continuò fino alla sua morte, avvenuta il 27 aprile del 1937, a produrre riflessioni e contributi che tutt’oggi rappresentano uno strumento utilissimo per i comunisti di tutto il mondo e che sono raccolti in quella mastodontica opera rappresentata dai “Quaderni del carcere”. Oltre agli attacchi aperti, tuttavia, la figura di Gramsci ha subito nel corso dei decenni degli attacchi più “subdoli”, meno evidenti, ma non meno pericolosi. Degli attacchi che hanno trovato la loro espressione nei tentativi di interpretare il pensiero di Antonio Gramsci svuotandolo della sua carica rivoluzionaria. Una sorte toccata a tanti degli esponenti più significativi del movimento comunista. Dinnanzi a un riconoscimento pressoché universale, la borghesia, e i settori intellettuali ad essa legati, piuttosto che attaccare platealmente, hanno tentato di “edulcorare” certe figure. Un meccanismo sviluppato a partire dall’alterazione del pensiero stesso di certi personaggi, che vengono spesso presentati come “banali” democratici o “pensatori neutrali” di cui si possono addirittura cooptare alcune intuizioni. È importante riconoscere certi tentativi – che rappresentano un danno alla figura di Antonio Gramsci – e smascherarli. Ogni elaborazione, ogni riflessione di Gramsci non è mai stata fine a sé stessa, ma sempre legata indissolubilmente al suo essere rivoluzionario, caratteristica che ha rappresentato il presupposto per ogni componente del suo pensiero. Perché è bene ribadirlo: Antonio Gramsci non è stato solo un incredibile intellettuale. È stato un comunista, probabilmente il più grande nella storia dei comunisti italiani, l’animatore de “L’Ordine Nuovo”, uno tra i fondatori del PCd’I, di cui è stato il più importante segretario, il creatore de “L’Unità”, un instancabile rivoluzionario così convinto delle sue idee da perseguirle fino all’estremo sacrificio, un uomo che ha dedicato tutta la sua vita alla causa dei lavoratori, degli oppressi, della giustizia sociale, della Rivoluzione.
Durante la sua vita Gramsci ha prodotto riflessioni su tantissimi argomenti come: la centralità dell’autonomia ideologica dei comunisti e della classe operaia, la costruzione e la bolscevizzazione del partito comunista in Italia, la Questione Meridionale, il concetto di “rivoluzione passiva”, l’importanza della corretta interpretazione della dialettica nella riflessione e nell’azione dei comunisti. Questi sono solo alcune delle tematiche più note affrontate da Antonio Gramsci nella sua vita, che per forza di cose non possono essere trattate in maniera esaustiva nello spazio di un articolo. È utile soffermarsi, però, sulle riflessioni, tra esse intimamente legate, probabilmente più importanti e note dell’intera opera gramsciana: quelle sul concetto di “egemonia” e sul ruolo degli intellettuali. La loro importanza non è dovuta solo a una loro maggiore notorietà, ma soprattutto a due ragioni. In primo luogo, le elaborazioni di Gramsci sull’egemonia e sul ruolo degli intellettuali rappresentano degli strumenti di assoluta attualità e utilità per lo sviluppo dell’azione dei comunisti in società a capitalismo avanzato. Il secondo motivo è da individuare proprio nei tentativi di svuotare il pensiero di Gramsci della propria carica rivoluzionaria. A partire dalle riflessioni sull’egemonia e sul ruolo degli intellettuali, infatti, negli anni si sono sviluppate alcune tra le principali interpretazioni semplificate o apertamente mistificate del pensiero gramsciano. È in particolare su questi aspetti del pensiero di Gramsci che hanno fatto leva, con interpretazioni fortemente forzate, coloro che ricercavano una nobile origine per la cosiddetta “via italiana al socialismo” e per il conseguente abbandono di una prospettiva rivoluzionaria – che per Gramsci rimase sempre imprescindibile – da parte del PCI, a favore di una linea politica socialdemocratica, riformista e elettoralista.
Coordinate storiche
Come anticipato, le riflessioni di Gramsci si sono generate sempre dalla necessità di sviluppare un’azione concreta a partire dall’analisi del contesto in cui il dirigente comunista si trovò ad operare. Il futuro segretario del PCd’I iniziò la propria militanza politica in un periodo in cui i partiti socialisti, in Italia e non solo, vedevano la propria interpretazione del marxismo essere caratterizzata da un errore interpretativo che si è più volte presentato nella storia del movimento comunista. Il marxismo veniva interpretato con un approccio che non si avvaleva della dialettica. Così facendo il materialismo storico veniva ridotto a una forma di meccanicismo, di economicismo determinista capace di scadere nel fatalismo o in una forma di volgare positivismo, in cui a determinare gli sviluppi storici non erano più relazioni e condizionamenti reciproci, ma movimenti unidirezionali. Questo approccio influiva in particolar modo sull’analisi del rapporto tra struttura e sovrastruttura, che passava dall’essere interpretato come un rapporto dialettico, caratterizzato da azioni reciproche – in cui in ogni caso il momento economico finiva per essere quello in ultima istanza necessario e determinante[3] – ad essere concepito come un rapporto meccanico ed unidirezionale. Il piano economico finiva per essere individuato come l’unico rilevante, in grado di determinare in maniera esclusiva gli sviluppi della società e di condizionare in modo meccanico e unilaterale i movimenti nella sovrastruttura e le evoluzioni stesse della società. Non solo le forme giuridiche e sociali, ma anche le teorie politiche, giuridiche, filosofiche e le forme politiche della lotta di classe e i suoi risultati. In virtù di queste letture la Rivoluzione si sarebbe concretizzata fatalmente e in maniera automatica in virtù della “naturale” evoluzione delle condizioni materiali, delle forme produttive e dei rapporti di produzione. Questo errore interpretativo in quella fase storica, antecedente alla Rivoluzione d’Ottobre, generò due tendenze speculari e opposte, entrambe errate. Il riformismo e il massimalismo. Entrambe le concezioni avevano come presupposto l’idea che il socialismo si sarebbe affermato per forza di cose in virtù delle evoluzioni nell’ambito della “struttura” e, quindi, della dimensione economica. A partire da questa convinzione, non veniva individuata la necessità di costruire un’azione politica nella società in grado di organizzare la classe rivoluzionaria, di costruire i presupposti per la Rivoluzione e dare la spallata decisiva al capitalismo in crisi. I riformisti, in virtù di questa concezione meccanica del marxismo, ritenevano che il compito dei socialisti fosse quello di sviluppare riforme che avrebbero leggermente e gradualmente migliorato la condizione del proletariato prima dello sviluppo delle condizioni economiche che avrebbero portato all’avvento del socialismo. I massimalisti, invece, profondamente convinti dell’inevitabilità del socialismo, si limitavano a lanciare grandi e roboanti proclami fatalistici, colmi di fraseologia rivoluzionaria, a cui però non seguiva un’effettiva azione proiettata all’organizzazione degli sfruttati, finendo per non “muovere un passo nella via della rivoluzione”.[4] Non c’era bisogno di mettere in campo un’azione reale: data l’inevitabilità del socialismo, al momento giusto il proletariato, spinto dalla situazione oggettiva, avrebbe automaticamente preso coscienza della necessità della Rivoluzione riconoscendo nei massimalisti la sua guida. Una degenerazione, quest’ultima, che caratterizzò fortemente anche la polemica interna dei primi anni di vita del PCd’I.
Anche in virtù di queste concezioni errate, al tempo maggioritarie, il “biennio rosso” si risolse in un nulla di fatto. Nonostante le condizioni materiali fossero favorevoli, tanto da portare a uno stato di agitazione senza precedenti la classe operaia italiana, l’assenza di un lavoro volto alla costruzione di una soggettività politica in grado di organizzare i lavoratori, dando una direzione alla loro lotta, risultò decisiva ai fini della sconfitta del proletariato in quei due anni.
In quello stesso periodo si affermò, non a caso, il pensiero di Lenin, che portò alla Rivoluzione d’Ottobre. Le principali teorizzazioni di Lenin sul ruolo e la necessità del Partito, come Avanguardia della classe operaia, avevano origine nell’opposizione alle stesse degenerazioni e criticità individuate da Gramsci. Senza organizzazione attiva e sistematica è impossibile dare vita alla Rivoluzione. Se i bolscevichi avessero considerato il socialismo come una fatale conseguenza del semplice sviluppo di determinate condizioni economiche, in Russia la Rivoluzione non avrebbe mai trionfato. Quegli sviluppi diedero a Gramsci la profonda convinzione che chi interpretava Marx caricandolo di “incrostazioni positivistiche e naturalistiche” si sbagliava. Lenin e bolscevichi avevano riaffermato nella pratica rivoluzionaria la vera portata del pensiero di Marx. Diversamente da quanto fatto da quel partito socialista sul cui riguardo, pochi anni dopo la Rivoluzione d’Ottobre, Gramsci scriveva così: “in verità questo partito socialista che si proclama guida e maestro delle masse non è altro che un povero notaio che registra le operazioni compiute spontaneamente dalle masse”.[5]
Società civile, società politica, guerra di movimento e guerra di posizione
Le riflessioni di Gramsci, rispetto all’azione dei comunisti ai fini della costruzione del socialismo, non erano di carattere semplicemente speculativo, ma partivano dall’esigenza di porsi concretamente la questione della presa del potere politico da parte del proletariato. Per questo motivo, prima di passare alla trattazione del concetto di egemonia, è utile parlare di alcune riflessioni di Gramsci sullo Stato, come strumento attraverso cui una classe esercita il suo dominio sulla società. L’argomento viene affrontato con maggiore attenzione nel Quaderno 6 dei Quaderni del carcere. Per Gramsci lo Stato è “l’apparato governativo-coercitivo” deputato all’uso della forza in difesa del potere della classe dominante. Il comando della classe dominante si sviluppa attraverso due fattori: la dittatura, intesa come dominio all’occorrenza di natura coercitiva e, per l’appunto, l’egemonia, la capacità di esercitare la direzione intellettuale nei confronti dei dominati. La classe dominante riesce a mantenere il proprio potere non solo grazie alla coercizione, ma soprattutto grazie alla capacità di promuovere le proprie idee, i propri valori, i propri punti di vista come se fossero naturalmente quelli dell’intera società, trasmettendoli anche a coloro che opprime. A partire da queste considerazioni Gramsci formula la seguente formula: “Stato=società politica+società civile”. Per “società politica” intende tutte quelle strutture burocratiche-coercitive che garantiscono alla classe dominante che guida lo Stato la possibilità di mantenere il proprio dominio. La dimensione della “società civile” non si riduce, invece, solo all’ambito dell’attività economica, ma comprende il complesso degli elementi delegati alla formazione del consenso, raggruppando quelle che Gramsci definisce “le superstrutture complesse” e la “struttura materiale dell’ideologia”[6]. Per sovvertire lo stato di cose esistenti la classe operaia deve quindi dotarsi di un proprio apparato egemonico per fronteggiare la pressione ideologico-culturale della borghesia e degli strumenti – primo tra tutti l’organizzazione – per portare avanti questa lotta.
Questa lettura più profonda della sovrastruttura permette a Gramsci di cogliere delle differenze sostanziali tra vari livelli di sviluppo della società capitalistica che sono fondamentali per lo sviluppo di un’azione rivoluzionaria, specie a partire dal riferimento sempre centrale rappresentato dalla Rivoluzione d’Ottobre. Gramsci notò come le società in cui il capitalismo era ancora alle sue prime fasi di sviluppo, come nel caso della Russia zarista, il dominio delle classi dominanti si esercitasse con la forte centralità dello Stato inteso come mezzo di pura coercizione. Vi era una società politica, meno articolata e più monolitica e una società civile non molto strutturata. Nelle società a capitalismo più avanzato emergevano invece una società civile più strutturata e una società politica più “pervasiva. “Lo Stato era solo una trincea avanzata dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte”[7]. A partire da questa considerazione Gramsci, rispetto all’azione rivoluzionaria, distingue i concetti di “guerra di movimento” e “guerra di posizione”. In realtà come la Russia, con società capitalistiche scarsamente avanzate, era possibile una guerra di movimento, ovvero la prospettiva di ottenere il potere politico con un’azione repentina, rivolta verso bersagli istituzionali facilmente individuabili, centri nevralgici del potere borghese. Nelle situazioni a capitalismo avanzato, con un dominio di classe che si fa più raffinato, una società politica più pervasiva e una società civile estremamente più articolata, è necessaria invece una guerra di posizione, che si esprima con un’azione anch’essa più pervasiva, diffusa, articolata, in grado di superare tutte le “trincee” delle classi dominanti.[8] Queste considerazioni sono state usate negli anni per falsificare il pensiero di Gramsci. C’è stato chi, infatti, ha cercato di individuare nella differenza tra guerra di movimento e guerra di posizione, un ipotetico passaggio di Gramsci da una prospettiva rivoluzionaria, a una elettoralista e riformista, cercando di ridurre strumentalmente la guerra di posizione alla semplice lotta per il consenso da misurare in termini elettorali. È dalla forzatura di questo passaggio teorico che derivano le letture che vorrebbero individuare nello storico segretario del PCd’I un precursore della “via italiana al socialismo”. Nulla di più falso: la prospettiva di Gramsci resta sempre rivoluzionaria, sono le forme della pratica rivoluzionaria che devono evolversi tenendo il passo delle evoluzioni della società capitalistica. Il riferimento nello sviluppo di queste categorie resta, infatti, sempre Lenin[9]: Gramsci fu un leninista e un rivoluzionario per tutta la vita, con buona pace di chi vorrebbe mistificarne il contributo. La guerra di posizione va letta a partire dalla necessità di dotare i comunisti di una strategia più articolata e complessiva nello sviluppo della battaglia ideologica. Una questione di fondamentale importanza specie nei contesti in cui l’azione della borghesia su questo campo si fa più forte, articolata e pervasiva. Queste riflessioni assumono ancora maggiore importanza laddove i comunisti si ritrovano ad operare in fasi non rivoluzionarie o apertamente controrivoluzionarie, come quella durante cui Gramsci sviluppò, non a caso, queste elaborazioni. Posta la necessità dello sviluppo di un’azione rivoluzionaria che assuma una dimensione pervasiva, in grado di contrastare adeguatamente l’azione delle classi dominanti in una società a capitalismo avanzato, è importante sottolineare come il momento insurrezionale come culmine dell’azione rivoluzionaria resti imprescindibile. La lezione dell’Ottobre per Gramsci restò sempre valida e imprescindibile, come lo è tutt’oggi.
Il concetto di egemonia
Veniamo dunque alla categoria più nota elaborata da Gramsci, quella di “egemonia”. Un concetto frequentemente semplificato, dalla portata estremamente vasta. Spesso si tende a interpretare l’egemonia come la semplice affermazione più o meno marcata di determinati riferimenti culturali o valoriali in seno alla società o a settori di essa. Una definizione riduttiva. L’egemonia si esprime in una progressiva e costante capacità da parte di una classe di dare una direzione a settori della società. In tal senso rappresenta un presupposto inderogabile per la presa del potere politico e per il suo mantenimento, da garantire costruendo adesione a una prospettiva egemonica. In virtù di queste caratteristiche è chiaro che la lotta per l’egemonia non possa essere ridotta a uno scontro per il consenso o al tentativo di costruire influenze culturali genericamente progressiste nella società, ma è una lotta che può assumere portata reale solo su una dimensione di classe e che deve essere necessariamente organizzata. L’ambito in cui si sviluppa questa lotta è quello della società civile, estremamente articolata e ramificata, in cui, nelle relazioni sociali ed economiche, si vanno a strutturare quelli che Gramsci definiva “apparati egemonici”. La classe dominante si dota di propri apparati egemonici, ovvero strutture e istituzioni attraverso cui riprodurre i propri punti di vista, modi di interpretare la realtà e valori, in primo luogo per mezzo dello Stato. Così facendo si costruisce e si organizza un consenso anche tra coloro i cui interessi sono oggettivamente inconciliabili con quelli di chi guida la società. I lavoratori e le classi popolari per respingere quest’azione così totalizzante e pervasiva devono dotarsi scientificamente di propri apparati egemonici, per contrastare in ogni “trincea”, in ogni “fortezza” e “casamatta” della società civile l’egemonia dominante. Una lotta lunga, pervasiva e progressiva, che rappresenta il presupposto per saper cogliere le possibilità di una crisi rivoluzionaria nelle società a capitalismo avanzato.
A partire dall’analisi del concetto di egemonia, negli anni ha avuto una certa diffusione una teorizzazione secondo cui Gramsci, in polemica con gli economicisti, sviluppando le sue riflessioni sull’egemonia sia, nei fatti, arrivato a conclusioni differenti da quelle di Marx, finendo per ribaltare il rapporto tra “struttura” e “sovrastruttura”. Una lettura, anche questa, funzionale a depotenziare la portata rivoluzionaria delle stesse riflessioni. Nulla di più falso. La continuità con il pensiero di Marx è massima. Ciò che fa Gramsci è ristabilire un rapporto dialettico tra struttura e sovrastruttura, a fronte di impostazioni unidirezionali e meccaniche, senza cadere in interpretazioni puramente soggettiviste, un errore che sarebbe stato speculare a quello degli economicisti. In tal senso, è meno noto di quanto dovrebbe il fatto che anche rispetto allo sviluppo delle pratiche egemoniche, il momento economico mantiene una centralità assoluta. Un elemento che emerge a più riprese all’interno dei Quaderni del carcere, dove viene affermato che l’egemonia si radica “nei più profondi rapporti economici”[10] e che “se l’egemonia è etico-politica, non può non essere anche economica, non può non avere il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica”[11]. Delle constatazioni che hanno la loro origine esplicita nella stessa produzione di Marx, che individuò la questione nella prefazione a “Per la critica dell’economia politica” e nel primo Libro del Capitale “Non basta che le condizioni di lavoro si presentino a un estremo come capitale e all’altro come uomini che non hanno da vendere che la propria forza-lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi liberamente. Contestualmente allo sviluppo della produzione capitalistica, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce le esigenze di quel modo di produzione come leggi naturali autoevidenti”[12]. Queste riflessioni oggi mantengono un’attualità assoluta. Il modello produttivo resta tutt’ora il principale fattore di ideologizzazione della società. I valori del mercato diventano i valori attorno a cui si sviluppa l’intera società, riflettendosi anche sul sistema di istruzione. Le nuove generazioni vengono educate al mantra della concorrenza, della competizione, dell’individualismo. A dover finalizzare le proprie velleità, i propri interessi, i propri studi alle esigenze del mercato. A scegliere le soluzioni che siano più redditizie. Una volta entrati nel mondo del lavoro si cerca di sradicare alla radice qualsiasi possibile concezione di un differente modello produttivo. Diventa totalmente normale la sregolata accumulazione di profitto fondata sullo sfruttamento della forza-lavoro dei lavoratori, ridotti a semplici ingranaggi del sistema produttivo. La società in cui viviamo viene di continuo affermata, implicitamente e non, come l’unica possibile, come naturale e data. Un’azione egemonica dirompente che ogni giorno le classi dominanti portano silenziosamente avanti.
In queste condizioni, per portare avanti un’azione rivoluzionaria i lavoratori e le classi popolari devono sviluppare e organizzare una propria pratica egemonica che raggiunga ogni meandro della società civile, contendendo ancor prima della presa del potere politico la direzione ideologica della società alla borghesia. Per questo è necessario che il proletariato diventi classe dirigente ancor prima di diventare classe dominante. Per fare ciò sono necessari dei presupposti. La classe operaia non deve esistere solo sul piano materiale e oggettivo dei rapporti di produzione, ma anche e soprattutto come classe che ha coscienza di sé e del proprio ruolo come soggetto della storia. Deve insomma compiere il passaggio da “classe in sé” a “classe in sé-per-sé”. Un’evoluzione possibile solo in virtù di una lotta ideologica incessante che deve rappresentare una priorità per la classe e per chi la organizza: il partito comunista. Una volta fatto questo passaggio il proletariato emerge nella società come una componente chiara, riconoscibile, in grado di portare avanti un proprio progetto di società “universale”, alternativo a quello fatto di sfruttamento e oppressione della borghesia. In virtù di ciò diventa possibile per la classe operaia coinvolgere in questo progetto anche componenti della società che non sarebbero, sul piano materiale dei rapporti di produzione, immediatamente riconducibili al proletariato, ma che subiscono quotidianamente e progressivamente l’oppressione della società capitalistica. Un concetto che Gramsci esprime quando parla della necessità di costruire un “blocco storico” o di “egemonia del proletariato nel quadro vasto dell’alleanza tra la classe operaia e la massa dei contadini”. A questo punto un’ulteriore specificazione è d’obbligo. Nel corso della storia e anche ai giorni nostri questo concetto è stato consapevolmente travisato anche da personaggi e formazioni che si fregiano dell’appellativo “comunista”. Queste formule sono state fondamentalmente utilizzate per giustificare delle derive interclassiste o di aperto sostegno a settori della borghesia (in particolare a settori della borghesia nazionale in competizione con padroni di altre nazioni). Fare ciò è un torto rispetto al pensiero di Gramsci paragonabile a quello che fa il PD ogni volta che vi fa riferimento. Parlare di “alleanze sociali”, con settori della borghesia, come “passaggi tattici” in un contesto in cui il movimento operaio risulta frammentato, disorganizzato e alla totale mercé dell’offensiva padronale, vuol dire tradire in tutto e per tutto il pensiero di Gramsci, rinnegandone la bussola fondamentale – ovvero l’autonomia della classe operaia, presupposto centrale per ogni riflessione e azione – e favorendo dei processi volti a portare i lavoratori alla coda di rivendicazioni di settori della borghesia. I lavoratori possono costruire un progetto universale di società socialista, avanzando di posizioni e facendo aderire componenti sempre più ampie della società alla causa della Rivoluzione, solo nel momento in cui riescono a dotarsi di un’organizzazione e di un’azione consapevole e strategica. Queste sono le condizioni attraverso cui diventa possibile costruire un “blocco storico” rivoluzionario. In caso contrario la classe operaia non può che subire le pratiche egemoniche della classe dominante o di settori di essa. In tal senso i comunisti oggi devono riconoscere come priorità assoluta quella la necessità di lavorare per una ricomposizione tra i settori più avanzati e combattivi del movimento operaio, oggi frammentato, disorganizzato e talvolta anche lacerato da quelli che Gramsci definiva “residui corporativi”. Senza fare ciò i posizionamenti, i discorsi e le strategie dei comunisti rischiano di ridursi alla dimensione dello sterile opinionismo. Il compito dell’organizzazione e della direzione delle classi popolari, della costruzione di un’ampia, consapevole e pervasiva azione egemonica spetta a delle figure fondamentali nell’elaborazione di Gramsci: gli intellettuali.
Gli intellettuali per Gramsci: cosa significa essere “organici”?
Anche la questione degli “intellettuali” nel pensiero di Gramsci, strutturalmente legata a quella dell’egemonia, è stata tra quelle a subire maggiori distorsioni o semplificazioni. Innanzitutto, è necessario porsi una domanda fondamentale: chi sono gli intellettuali per Gramsci? Non una categoria a sé slegata da una collocazione di classe, nemmeno delle figure caratterizzate da particolari conoscenze specifiche o propensioni particolarmente speculative. “Tutti gli uomini sono intellettuali, si potrebbe dire perciò, ma non tutti gli uomini hanno nella società la funzione di intellettuali”[13]. Per Gramsci gli intellettuali costituiscono la componente delle classi attualmente o potenzialmente dominanti deputata a organizzare, coordinare, dirigere. Non a caso vengono da lui definiti “funzionari dell’egemonia”. Gramsci si concentra sul concetto in maniera particolare nel dodicesimo tra i Quaderni del carcere.
Per capire al meglio lo specifico riferimento che viene fatto con questa categoria, è necessario comprendere il concetto di “organicità”. Accade frequentemente che si fraintenda questo concetto con la semplice adesione da parte di un “intellettuale”, un personaggio di cultura o del mondo dello spettacolo, a cause di progresso. Non è però sul piano della semplice adesione a una prospettiva politica che si misura l’organicità di un intellettuale. Gli intellettuali si qualificano come organici quando, consapevoli del legame con la propria classe di riferimento, comprendono le necessità complessive di quella stessa classe. Una comprensione a cui segue un’attiva opera di organizzazione e direzione per la costruzione di una società che risponda agli interessi di quella classe. Una questione da non intendere solo su un piano meramente politico e organizzativo, ma anche culturale, tecnico, giuridico. Da funzionari dell’egemonia gli intellettuali, passo dopo passo, fanno in modo che la visione complessiva di una classe possa diffondersi in maniera pervasiva in ogni meandro della società, venendo assorbita, promossa e riprodotta dagli stessi membri della classe. A partire da ciò si sviluppa un’azione egemonica che può portare una classe ad essere prima dirigente e successivamente dominante. Delle figure che, quindi, non si limitano solo alla riflessione e alla teorizzazione, ma che si formano a stretto contatto con la loro classe di riferimento e esprimono la loro azione principalmente su un piano pratico e reale. Alla luce di ciò non stupisce come il principale “intellettuale” di riferimento per la classe operaia secondo Gramsci debba essere di natura collettiva: il Partito Comunista. Lo strumento per organizzare e dirigere l’azione della classe operaia, animato dalla classe operaia stessa. Date queste premesse il partito comunista deve sempre porre in una posizione centrale la necessità della discussione e della preparazione ideologica dei propri iscritti. Una parola d’ordine che compare di frequente in diversi scritti di Gramsci degli anni della “bolscevizzazione” del PCd’I, raccolti nell’opera “La costruzione del Partito comunista (1923-1926). Qui si giunge a un altro dei contributi fondamentali lasciati dal più grande comunista italiano al movimento comunista. Per adempiere alla propria funzione di intellettuale collettivo il partito comunista, infatti, deve provvedere alla formazione di nuovi intellettuali organici tra le proprie fila. Solo così diventa possibile contrastare l’imponente azione egemonica della borghesia. Solo così è possibile ricondurre ogni rivendicazione immediata a un progetto più generale di società, raccogliere nuove forze alla causa della Rivoluzione, affermare un punto di vista differente da quello delle classi dominanti in ogni contesto, strappando passo dopo passo ogni “fortezza” alla borghesia nella lunga lotta per l’egemonia. Delle considerazioni che nascevano dalla totale consapevolezza dei potenti mezzi a disposizione del capitalismo, il cui ribaltamento può essere realizzato solo grazie allo sviluppo di strumenti altrettanto potenti, che possono essere costituiti solo grazie a una forte e chiara consapevolezza della direzione da intraprendere.
A 130 anni dalla sua nascita il pensiero di Antonio Gramsci continua a rappresentare un patrimonio preziosissimo per i comunisti di tutto il mondo. L’originalità del suo contributo risiede nell’aver delineato degli strumenti e degli indirizzi che appaiono tutt’oggi fondamentali e necessari per sviluppare un’azione rivoluzionaria in una società a capitalismo avanzato come quella in cui viviamo. Conoscere la portata del suo pensiero e difendere le sue riflessioni da tentativi di edulcorazione e mistificazione vuol dire tenere vivo un patrimonio a cui non si può rinunciare a fronte della situazione che ci appare dinnanzi. Una situazione in cui i lavoratori e le classi popolari subiscono attacchi epocali, in un contesto di drammatico arretramento. Bisogna esserne consapevoli, per cercare di organizzare una risposta efficace che faccia tesoro del pensiero di Antonio Gramsci, che rappresenta ancora oggi una risorsa incredibile per il movimento comunista. La lezione dello storico segretario del PCd’I non è però solo teorica e pratica, ma è anche una lezione di incredibile determinazione, perseveranza, consapevolezza del proprio ruolo storico. Antonio Gramsci, colpito da patologie fin da bambino, ha lottato con tutte le sue forze per la causa degli sfruttati e degli oppressi, anche in condizioni di difficoltà insostenibili, fino all’estremo sacrificio. Nonostante ciò, è riuscito a dare a quella causa il suo enorme contributo, che oggi continua a vivere e ad essere forza materiale per nuove generazioni di comunisti. Ogni giorno nella nostra attività politica possiamo trovarci a che fare con un contesto sicuramente difficile, con delle sfide che possono sembrare titaniche e farci percepire come vano ogni sforzo. Dinnanzi a queste difficoltà nuove motivazioni possono essere sempre suscitate da parole scritte nella cella di un carcere ormai quasi un secolo fa, da un uomo che, come noi, lottava senza arretrare di un passo forte dell’ottimismo della sua volontà: “Anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio.”
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[1] Filippini, M. (2011), “Gramsci globale – guida pratica alle interpretazioni di Gramsci nel mondo”, Bologna, Odoya, pag.7
[2] D’Orsi, A. (2017), “Gramsci – una nuova biografia”, Milano, Feltrinelli, pag.242. La conoscenza della frase, come di quella attribuita a Gramsci “Voi condurrete l’Italia alla rovina e a noi comunisti spetterà di salvarla”, è dovuta alla testimonianza dell’avvocato Giuseppe Sardo.
[3] Friedrich Engels, “Lettera Jon Block”, 1890
[4] “Massimalismo ed estremismo”, l’Unità, anno 2 n.151, 2 luglio 1925
[5] L’Ordine Nuovo, 4 settembre 1920
[6] Intesa come “falsa coscienza”, ovvero come rappresentazione della realtà assimilabile a quella delle classi dominanti e funzionale al mantenimento dei suoi interessi, rappresentanti come interessi comuni a tutti i membri della società. NdR.
[7]Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderno 7, p.866
[8]Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderno 13, pp.1566-67
[9] Ibidem
[10] Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderno 13, pp. 1631-32
[11] Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderno 13, pp.1591
[12] Karl Marx, “Il Capitale – Libro Primo”, Roma, Editori Riuniti, 1974, p.800
[13] Antonio Gramsci, “Quaderni del carcere”, Edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di Valentino Gerratana, Torino, Einaudi, Quaderno 12, pp.1516