Quella che segue è una testimonianza del Congresso di Livorno ad opera di Ruggero Grieco, storico dirigente comunista italiano. Fu pubblicata a pagina 121 del primo volume dell’opera “I comunisti nella storia d’Italia” di Cesare Pillon, distribuita da Teti Editore nel 1973.
—
di Ruggero Grieco
Erano circa le 10,30 del 21 gennaio quando i delegati della frazione comunista al XVII Congresso nazionale del partito socialista italiano, che si teneva a Livorno, abbandonarono il Teatro Goldoni, al canto dell’Internazionale, e si avviarono al Teatro San Marco , per deliberare la costituzione del partito comunista. Qui si tenne il nostro primo Congresso, che durò poche ore.
Al San Marco, le cose non andarono lisce. I gruppi che avevano formato a Imola, nell’autunno 1920, la frazione comunista, non costituivano davvero una forza omogenea. Astensionisti, ordinovisti, comunisti del gruppo Gennari, graziadeiani, avevano una buona dose di reciproca diffidenza. Una corrente di astensionisti pretendeva che dalla direzione del partito comunista fossero esclusi i rappresentanti dell’Ordine Nuovo.
Il maestro D’Amato, di Roma, costantemente eccitato, domandò la parola per muovere strane accuse contro Gramsci; ricordo che nella fretta di salire sul palcoscenico, scivolò sulla scaletta e si sbucciò il naso. Gli astensionisti, comunque, si fecero la parte del leone negli organismi dirigenti. Il partito comunista era costituito. Bisognava ora creare il partito comunista.
L’opera non fu facile, anche per le circostanze in cui si svolse. Parecchi uomini che furono presenti o aderenti al nostro primo Congresso di Livorno, sono andati poi a finire nelle file della controrivoluzione. Il partito comunista si è creato e sviluppato ideologicamente e politicamente in una lotta aspra contro i nemici di classe e contro i portatori delle loro influenze ideologiche all’interno delle sue file. Del resto, è Questa la legge di sviluppo di ogni partito comunista.
C.M. Serrati, capo della frazione massimalista (centrista), che si era voluta chiamare dei “comunisti unitari”, non aveva compreso questa legge di sviluppo di ogni partito proletario rivoluzionario. L’unità del partito proletario è un bene prezioso, qualora sia fondala sulla dottrina rivoluzionaria. Diversamente è un controsenso, è anzi un inganno e porta la classe operaia alla disfatta.
Il XVII Congresso di Livorno del Partito socialista italiano fu lo specchio di questa confusione. Tutte le questioni fondamentali della rivoluzione e della organizzazione del partito rivoluzionario vennero volte al ridicolo dagli uomini socialecmocratismo e del centrismo. La funzione rivoluzionaria dirigente dell’Urss fu irrisa; la lotta di liberazione nazionale dei popoli coloniali e dipendenti venne, considerata al di fuori della lotta rivoluzionaria del proletariato; e un discorso di Mazzoni, appoggiato dai centristi, sulla politica agraria dei comunisti, celebrò la stupidità presuntuosa del vecchio riformismo agrario: “Noi siamo centomila volte più avanti della Russia” disse il poveruomo.
Toccò a una schiera di giovani porre le nuove esigenze del movimento operaio italiano, nel quadro della situazione internazionale creatasi con la prima guerra mondiale e con la vittoria della Rivoluzione d’Ottobre. Avevamo allora la giovinezza e l’ottimismo necessari pr, condurre grandi azioni. Fummo degnamente affiancati da una parte dei rappresentanti della generazione degli anziani,il cui contributo ci fu prezioso e ai quali andrà sempre la nostra gratitudine. Senza il loro concorso la nostra opera sarebbe stata più difficile.
Fummo “accusati” di essere giovani! Avevamo in media trent’anni di età ciascuno: quale accusa! Non avevamo la barba (la nostra generazione era avversa alla barba e anche ai baffi). Come osavamo dar lezione a destra e a manca, e ai vecchioni, ai santoni, ai maghi del socialismo illustre, così, con quelle nostre fresche faccie (sic!) rasate? Una bella improntitudine! E poi, eravamo gioiosi, sarcastici e sfottenti (ah, sì, sapevamo ridere sino al dolor di pancia: e il gusto dello scherno e dello scherzo c’è rimasto e Dio ce lo conservi!).
Eravamo contenti e sicuri. Avevamo con noi la Federazione giovanile socialista, che nella sua grande maggioranza aderì alla nostra lotta e, dopo Livorno, divenne la Federazione giovanile comunista, vivaio di nuove forze dirigenti del partito. Eravamo giovani, pieni di volontà di studio e di azione, e avevamo con noi anche i giovani: chi e che cosa ci potevano sgominare?
Al Congresso di Livorno fummo tempestosi. Forse anche un po’ troppo. Ma la partita che si giocava era troppo grossa e parecchi nostri avversari non erano dei pigmei. Abbattere politicamente certi avversari non era impresa facile. Restammo in minoranza, è vero. Però, vincemmo noi.
Fummo accusati di essere dei cinici, raziocinatori ma senza cuore. Sciocchezze! Certo, i nostri vecchi avevano gli occhi umidi, quando uscimmo dal Goldoni. Li comprendevamo. Quando presi sotto il braccio Anselmo Marabini, non gli rivolsi la parola, perché era commosso. Andammo insieme al San Marco, muti. Qui, entrando nel teatro, egli mi disse: “Eppure, Serrati verrà con noi!”
Giovanni Bacci, massimalista, mi aveva detto poco prima: “Voi tornerete nella vecchia casa del socialismo!”. La vecchia casa del socialismo! Ci è cara quella vecchia casa! In quella vecchia casa i nostri padri, i nostri nonni hanno combattuto le prime difficili lotte per l’emancipazione del lavoro. È la casa dove siamo nati politicamente. Ma è proprio vero che noi abbandonammo a Livorno la vecchia casa del socialismo italiano? No, non è vero. Da Livorno, ci siamo trascinati con noi la vecchia casa: ce la siamo portata via e l’abbiamo ripulita dal riformismo e dall’opportunismo. L’abbiamo salvata e abbiamo salvato l’avvenire del movimento operaio italiano. Non eravamo dei cinici. Nessun vero rivoluzionario potrebbe essere un cinico. Al contrario, portavamo, e portiamo, in noi, il cuore e la passione delle moltitudini dei diseredati e degli oppressi.