di Giovanni Ragusa
Qualche settimana fa abbiamo assistito a un nuovo atto di protesta portato avanti dalla categoria dei ristoratori e dei baristi contro le chiusure stabilite dal governo Conte. Il divieto di asporto dopo le 18, entrato in vigore il 15 gennaio, ha scatenato la protesta caratterizzata dallo slogan “Io Apro” dei ristoratori che, appunto, hanno deciso di tenere aperte le proprie attività. La protesta, partita dalla Sardegna, si è estesa principalmente a Toscana, Marche, Emilia-Romagna e Lombardia, ma non sono mancati appoggi anche in altre parti d’Italia come testimoniano le diverse multe rilasciate dalle forze dell’ordine. Complessivamente però, il movimento non ha riscontrato un grande successo.
Già nei mesi precedenti una serie di manifestazioni lanciate proprio da queste categorie, che si sono presentate come le più colpite dalle varie misure di lockdown differenziato, avevano riempito le cronache. Le affermazioni del tipo “noi diamo da mangiare a moltissime famiglie” sono state predominanti sui media e continuano ad esercitare una certa influenza anche sui lavoratori, spesso costruendo tra i dipendenti di quelle stesse attività la percezione che la difesa dei loro interessi passi per la difesa dei profitti degli imprenditori che li sfruttano quotidianamente.
Abbiamo così assistito a movimenti di piazza come quello scoppiato a Napoli e poi rapidamente diffusi in molte città italiane, con folle nelle strade a protestare contro le misure di chiusura. Le proteste non sono state indirizzate, però, contro i motivi pregressi di quel DPCM: una totale assenza di interventi per potenziare la sanità pubblica, per arrivare preparati al rientro nelle scuole e nelle università, che uniti al “liberi tutti” estivo voluto per far tornare a consumare e produrre, hanno portato ad un nuovo scoppio dei casi di Covid. Le parole gridate in molte di quelle piazze vedevano un obiettivo unico, ovvero evitare di far abbassare ancora la serranda a baristi, ristoratori e commercianti. Così facendo, tutto il succo della discussione si è ridotto ad un semplice grido contro l’ingiusta chiusura di queste attività. La campagna Io Apro si è mossa sulla falsariga di quelle giornate.
Lungi dal voler mettere in dubbio le difficoltà che alcuni esercenti hanno vissuto in quest’ultimo anno – e consci delle grandi differenze che esistono nel settore, che comprende micro-imprese a conduzione familiare così come aziende che impiegano decine o centinaia di lavoratori e con milioni, se non decine di milioni, di euro di fatturato – è doveroso scoprire alcuni scheletri nell’armadio. Qual è il ritorno alla normalità che questi signori propongono? Un ritorno allo sfruttamento dei lavoratori subordinati, pagati a nero ed a serata con cifre irrisorie, imparagonabili agli incassi dei rispettivi padroni, che quotidianamente giustificano questo tipo di condotta con le necessità imposte dalla concorrenza contro le grandi imprese. Senza contare che, oggi, “ritorno alla normalità” significa anche esporre i lavoratori ad un più alto rischio di contrarre il virus, con i contagi che ogni giorno aumentano.
Il settore della ristorazione è da molti decenni teatro di lavoro sottopagato, nero, a chiamata, senza alcuna tutela. Gli introiti di queste categorie passano soprattutto da una contrazione di spesa sui salari, spesso facilitata dai vari progetti di alternanza scuola-lavoro che vengono stipulati con le scuole professionali ed alberghiere.
Insomma, le categorie sopracitate non si contraddistinguono sicuramente per un trattamento dignitoso del lavoro. Già questo rende alquanto macchiettistico l’appello in nome delle famiglie a cui esse darebbero da mangiare: un linguaggio che palesa un’impostazione paternalistica, apparentemente magnanima, per nascondere questi scenari di sfruttamento. Voler protestare nel nome delle “bocche sfamate”, con un riscoperto spirito missionario, è insomma una favoletta che non può e non deve ingannare, ma va sfatata per ciò che è, ovvero uno strumento con cui si tende ad identificare gli interessi di questi proprietari con quelli dei loro dipendenti, illudendo questi ultimi che una vittoria dei primi sia vantaggiosa anche per loro. Non c’è nulla di nuovo in questa dinamica, in realtà. D’altronde queste categorie, nei momenti di crisi, tendono sempre a cercare l’appoggio dei propri dipendenti dando l’impressione che essi possano trarre vantaggio dalle loro richieste. Ma per arrivare dove? Ci saranno forse contratti a tempo indeterminato, garanzie sindacali, assicurazioni, contributi pagati? O torneremo ad essere messi sotto torchio e ricattati di fronte alla scelta tra salute e lavoro?
Una campagna come quella di Io Apro è nata proprio giocando su questo ragionamento. In molti hanno appoggiato sui media questa “battaglia”, riconoscendo in queste categorie le uniche realmente pronte a mobilitarsi contro le ingiuste misure di chiusura, i rappresentanti della cosiddetta “Italia che lavora”. Una narrazione che ha rimosso totalmente le necessità, realmente esistenti, di contenimento dei contagi fino all’ampia diffusione del vaccino, e che ha dimostrato come questi settori concepiscano spesso la tutela dei propri interessi immediati in totale contrapposizione con gli interessi della collettività, perché c’è differenza tra chiedere (giustamente) ristori a fronte delle chiusure e proclamare di voler aprire indipendentemente dalla gravità della situazione sul piano sanitario.
Il riproporsi di queste dinamiche nelle proteste, tuttavia, dovrebbe farci riflettere su un aspetto fondamentale dell’Italia di oggi. Abbiamo una classe lavoratrice ancora profondamente frammentata e disorganizzata, che di fronte a questa nuova e terribile crisi rischia spesso di finire a concepire i suoi interessi come uguali a quelli dei propri padroni e padroncini. Questi ultimi, invece, sembrano presentare un più alto grado di compattezza nel portare avanti le loro richieste. Di fronte all’assenza di chiari punti di riferimento per la classe operaia, queste rivendicazioni trovano terreno fertile tra i lavoratori, che sono spesso attratti da queste posizioni, profondamente arretrate ed anzi opposte alle reali necessità sociali. Ma nessun movimento che vede alla propria testa la piccola borghesia, per quanto possa presentarsi come rivoluzionario e combattivo nella sua retorica immediata, può realmente portare ad alcun cambiamento sociale, proprio perché questa classe ha come principale obiettivo la difesa della propria condizione di piccoli proprietari in quanto tali, se non già il miglioramento di questa condizione. Non c’è posto per i lavoratori nella loro “normalità” che sia diverso dallo sfruttamento. È per questo, e non per mera retorica, che l’organizzazione della classe lavoratrice in quanto tale, la capacità di affermare nella società un punto di vista autonomo e indipendente dagli interessi dei settori della borghesia, resta un obiettivo primario e non più rimandabile. Pena la disfatta e la sconfitta.