di Francesca Antonini
Sanpa, la docu-serie in 5 puntate realizzata da Netflix, a poche settimane dalla sua uscita continua a catalizzare le attenzioni del dibattito pubblico. La miniserie ripercorre, attraverso il racconto di alcuni ex-ospiti di San Patrignano e materiale tratto da diversi archivi, la storia della comunità di recupero per tossicodipendenti più grande d’Europa, riportandoci indietro di 40 anni, ad un’Italia differente e tormentata da un grande periodo di cambiamento sociale e politico. Centro gravitazionale attorno a cui ruota l’evolversi e il declino di San Patrignano è l’indiscusso protagonista Vincenzo Muccioli, fondatore della comunità nel 1978 in provincia di Rimini, figura complessa ed istrionica, sicuramente piena di tenebre più che di luci. Diverse sono le sfaccettature attraverso cui viene descritto: una figura mistica scesa in terra per porre rimedio alle sofferenze degli esseri umani, imponendo con carità, benevolenza e comprensione, la soluzione ad una piaga sociale che in quegli anni ha colpito intere generazioni; un pater familias, autoritario più che autorevole, in grado di porsi con fermezza alla guida delle anime perse da riportare sulla retta via, in diritto di potersi prendere licenze che vanno ben oltre il consentito, esercitando pratiche violente e coercitive, purché impiegate per il raggiungimento di un fine giusto e necessario. Per comprendere realmente il fenomeno di San Patrignano è tuttavia necessario contestualizzarlo nel quadro storico in cui viene avviata questa esperienza, un periodo altrettanto complesso della storia d’Italia.
Era la fine degli anni ‘60 del secolo scorso, un periodo caratterizzato dalle proteste dei movimenti studenteschi e dalle lotte operaie e sindacali, un periodo connotato da una grande spinta verso il cambiamento, dalla partecipazione, dalla militanza attiva. Ideali di progresso e ribellione nei confronti di qualsiasi norma imposta dai benpensanti animavano le speranze e gli umori di intere generazioni di giovani. Sicuramente un periodo di grande fervore e di eccessi, ma anche di grandi contestazioni nei confronti dello status quo, pregno di sogni, utopie e conquiste. Sono gli anni della strage di Piazza Fontana, gli anni di piombo e della strategia della tensione, ma anche gli anni in cui il PCI, attraverso un progressivo processo di socialdemocratizzazione, aumenta vertiginosamente di consenso fino a raggiungere la Democrazia Cristiana, assumendo una prospettiva pienamente elettoralista.
La strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, in cui persero la vita 17 persone e 88 ne rimasero ferite, da molti storici viene fatta coincidere con l’inizio della strategia della tensione. La matrice apertamente fascista dell’attentato verrà riconosciuta solo in seguito, così come verrà riconosciuta la colpevolezza di militanti di estrema destra per tutta una serie di eventi minori verificatasi nei mesi immediatamente precedenti, come indirizzo di preparazione della strage. L’italia, in quanto stato di confine con la Jugoslavia, giocava un ruolo strategico all’interno delle dinamiche tra blocchi contrapposti che caratterizzavano la guerra fredda. Strutture parallele, governi nonché i servizi segreti dei vari Stati operavano all’interno del blocco occidentale in funzione anticomunista: portavano avanti una guerra non convenzionale, basata su disinformazione, propaganda e penetrazione culturale. Una vera e propria strategia studiata a tavolino e volta a destabilizzare le lotte studentesche e del movimento operaio. Un disegno eversivo, basato su una serie di atti terroristici, stragi e depistaggi giudiziari finalizzati alla creazione di una situazione di tensione sociale e politica ad opera di nuclei neofascisti coperti dai servizi segreti e da alcuni settori conservatori dell’apparato statale, allo scopo di destabilizzare e favorire l’avvento di un Governo autoritario. Nonostante i vari tentativi di depistaggio delle indagini volti a scaricare la colpa degli attentati su attivisti anarchici o su militanti della sinistra extra-parlamentare protagonisti delle contestazioni, la rabbia sociale, le lotte operaie e dei movimenti studenteschi sembravano non affievolirsi. Là dove non bastarono le bombe a concretizzare la sperata stretta repressiva, arrivò l’eroina ad annichilire centinaia di migliaia di giovani in tutto il paese.
All’inizio degli anni ‘70 improvvisamente scompaiono dal mercato hashish e amfetamine e compare un’unica droga: l’eroina. Inizialmente venne introdotta nel mercato a bassissimo prezzo, diventando ben presto una vera e propria piaga sociale. Tra le prime vittime di questa epidemia silenziosa ci furono moltissimi giovani militanti di sinistra. Nei primi anni ‘70 diventa predominante la propaganda di uno stile di vita estetizzante mirato all’emancipazione: tutto ciò che prima era proibito ora è lecito, tutto ciò che oltrepassa il moralismo dei benpensanti e i limiti del consentito rappresenta una spinta verso il cambiamento. Ma quello che si cela dietro questa lettura forzatamente romantica, onirica e dissolutoria è in realtà un’autodistruzione strategicamente provocata e organizzata: una strategia di penetrazione nei movimenti di opposizione ispirata dai servizi segreti occidentali, mirata a diminuire l’impegno politico nel movimento studentesco. Dal ‘75 ai primi anni ‘80 nessuno parla dell’eroina, si continua ad alimentare il terrore contro le droghe leggere, ma nulla si sa sui reali effetti di questa nuova sostanza. Il numero degli eroinomani in Italia passò da zero nel 1970 agli oltre 300.000 nel 1985 con un giro d’affari di tremila miliardi di lire annui. Ogni famiglia, da nord a sud, aveva un familiare o un conoscente che faceva uso di questa droga. A livello sanitario le istituzioni non offrivano alcun tipo di cura adeguata e prima dell’istituzione del SSN la stragrande maggioranza dei ragazzi che facevano uso di eroina finivano in carcere per reati minori o, peggio, in manicomio.
L’anno in cui venne fondata la comunità di San Patrignano è anche l’anno della legge 13 maggio 1978 n. 180, più nota con il nome ripreso dal promotore della riforma psichiatrica in italia, come “legge Basaglia”. La legge Basaglia, che rimase in vigore solo per un periodo di tempo molto ristretto, è stata poi ripresa in ampia ispirazione per regolamentare, con l’instaurazione del SSN, l’intervento pubblico in ambito psichiatrico. Grazie a questa legge venne avviato il processo di superamento delle strutture manicomiali (che si concretizzerà in via definitiva solo 20 anni più tardi) e l’apertura dei servizi di igiene mentale pubblici, organizzati a rete sul territorio nazionale. Fu una vera e propria rivoluzione nel trattamento dei disturbi psichiatrici se confrontata con la precedente impostazione clinica, poco aperta ai contributi della psichiatria sociale, all’importanza del supporto territoriale e della psicoterapia nei servizi pubblici. Per la prima volta al centro dell’attenzione non veniva posta la malattia, ma “la sofferenza mentale all’interno dell’esistenza complessa del soggetto ed immersa nel contesto sociale”.
Inizialmente infatti i manicomi venivano riconosciuti ed utilizzati come luoghi di contenimento sociale, in cui pratiche esplicitamente violente quali isolamento, ricorso sistematico alla contenzione, all’elettroshock, l’abuso psicofarmacologico erano parte integrante del trattamento. All’interno di questo contesto le istituzioni tardarono colpevolmente per anni nel mettere a sistema un piano di prevenzione e trattamento per quella che stava assumendo i connotati di una vera e propria emergenza sociale. Nel frattempo “il drogato” nell’opinione pubblica veniva stigmatizzato: più che una vittima era considerato un colpevole deviante, più che un malato da curare era ritenuto una persona da salvare da se stessa.
Nacquero in quegli anni moltissime comunità “di recupero” che, seppur dette “terapeutiche”, raramente si avvalsero di personale clinico. I loro fondatori, proprio come Vincenzo Muccioli nel caso di San Patrignano, diventarono molto popolari perché proponevano vie di salvezza, impersonavano gli eroi di una vera e propria guerra del bene contro il male, cavalcando il vuoto lasciato dalla mancanza di risposte istituzionali. In un contesto storico e politico apparentemente caotico, ma estremamente preciso, lucido e per questo di certo non meno drammatico se analizzato con la giusta lente, Vincenzo Muccioli e la sua San Patrignano hanno rappresentato una tra le poche risposte concrete per molte famiglie e, spesso, un’alternativa al carcere per il sistema giudiziario.
Guardando la serie Sanpa il nucleo dell’intervento della comunità sembra essere quello dell’accoglienza disinteressata e la proposta di un ambiente “familiare” per ragazzi che hanno perso ed allontanato ogni affetto stabile, ostracizzati e dimenticati dalla società. E infatti San Patrignano risulta architettata, nell’ordinamento interno, sulla base dei ruoli sociali della famiglia tradizionale, di cui Vincenzo Muccioli, neanche a dirlo, incarna in modo forzatamente costruito il prototipo del perfetto capofamiglia: sicuro e rassicurante, empatico, caritatevole, ma anche fermo e crudele quando “necessario”, disposto a fare tutto – anche l’impensabile – pur di garantire il bene dei suoi tanti “figli”, come solo l’amore genitoriale ti spinge a fare. Un modello di famiglia gerarchica, con mansioni e trattamenti ben separati e distinti in base al genere dei suoi componenti: a Sanpa ognuno sembra avere un ruolo predefinito, tanto necessario al funzionamento degli ingranaggi quanto imposto dall’alto. Questo tipo di impostazione, e la matrice ideologica di stampo conservatore che vi si cela dietro, rappresentarono una formidabile arma di consenso in determinati settori della società, nonché un forte strumento propagandistico, prima della comunità e poi di Muccioli stesso, giunto ad avere una notevole influenza non solo nel dibattito pubblico, ma anche in quello politico.
Tra le tante interviste di archivio riportate nella docu-serie che vedono come protagonisti personaggi di spiccato rilievo dell’epoca difendere strenuamente la figura di Vincenzo Muccioli e il suo operato, emerge in modo assai eloquente quella di Indro Montanelli:“Io conosco la situazione di Sanpa e il fatto che processassero e che potesse finire in galera un simile uomo che merita la medaglia d’oro mi ha veramente indignato. Ci sono dei momenti in cui bisogna segregare un drogato e dargli anche un manrovescio e legarlo con le catene. Io approvo in pieno i metodi di Muccioli: l’educazione è crudeltà. Ma quando ero ragazzo avevo Mussolini io. Io ho portato la camicia nera con entusiasmo fino all’età di anni 25”
La risposta allo stile progressista che ha caratterizzato gli anni ‘60-’70 è individuato dalle forze reazionarie nell’ordine, nella disciplina, in un atto di forza volto alla normalizzazione. San Patrignano, dotato di norme proprie, di un proprio sistema di giustizia (tacito, non formale), insomma, di una complessa organizzazione interna, sembra essere una sorta di esperimento sociale, la visione distopica della creazione di una stato nello Stato, autonomo, autosufficiente, indipendente e di contenimento. L’aspetto interessante è che a San Patrignano la funzione coercitiva non era esercitata da un apparato professionale composto da soggetti esterni alla comunità, ma dagli stessi reclusi a cui venivano affidati ruoli di diverso ordine, grado e natura sulla base della “fedeltà” da loro dimostrata verso Muccioli e verso il sistema della comunità. Prendi dei ragazzi tossicodipendenti lasciati ai margini della società, senza più legami stabili né punti di riferimento, reietti agli occhi di tutti. Rinchiudili con sbarre materiali e immateriali in una prigione che chiami “famiglia” e fagli credere che per loro non esistono vie d’uscita alternative. Decostruisci totalmente la loro personalità, le loro credenze, i loro valori passati, l’idea stessa di aver avuto una vita prima della tossicodipendenza e prima della comunità: annientali come persone e imponi loro nuove regole, un nuovo mondo. Rieducali, in modo tale che possano convincere sé stessi e gli altri che la violenza è uno strumento doloroso ma necessario per cui rendere grazie, che in uno schiaffo, nelle botte, nelle catene e nella costrizione si nasconde un gesto d’amore e una via di salvezza. Investili di un nuovo ruolo nella società che per loro hai costruito, falli sentire realizzati nei compiti che gli hai assegnato, nell’appartenenza a un gruppo, nella scalata sociale per le tue grazie. Gli stessi che erano stati delle vittime sono diventati carnefici, i prigionieri sono diventati guardie.
Il trattamento terapeutico offerto da San Patrignano, fino al 1995 almeno, era l’astinenza forzata, la reclusione e la sostituzione della realtà con un universo chiuso e artificiosamente costruito. All’interno della comunità venivano rigettate non solo le terapie sostitutive o l’utilizzo di medicinali durante il processo di disintossicazione, ma anche il supporto medico e psicoterapeutico e una reale reintegrazione dei tossicodipendenti fuori dalla comunità, come se un mondo là fuori non dovesse esistere più per loro. Un trattamento che non tiene minimamente conto della soggettività e centralità dell’individuo equivale ad imporre l’alimentazione a gasolio per tutte le autovetture con differenti motori in circolazione, con il rischio – in alcuni casi – di non farle camminare mai più.
Ma San Patrignano non era solo questo. Una comunità che, nata dal nulla, nel giro di pochi anni è divenuta la più grande d’Europa, mettendo in atto un giro d’affari di svariati miliardi e avviando una molteplicità di attività imprenditoriali come l’equitazione, la produzione di vini, i laboratori artigianali e la ristorazione. L’occupazione veniva imposta agli ospiti come parte integrante della terapia, affidandogli una funzione “riabilitante”. La realtà è che sfruttando il lavoro gratuito e coatto di migliaia di tossicodipendenti Vincenzo Muccioli ha costruito parte della sua fortuna economica. Non possono di certo passare in sordina gli investimenti milionari pervenuti da sempre alla comunità da parte della famiglia Moratti, stretta da un legame di intima amicizia con il fondatore della comunità. Non passa in sordina nemmeno il lato esoterico di Vincenzo Muccioli, la sua passione per la para-psicologia e “L’Ordine di Galileo”, l’onorificenza assegnata nel 1995 dalla loggia massonica del Grande Oriente d’Italia alla sua memoria, pochi giorni dopo la sua morte.
Per una vera e propria sistematizzazione e centralizzazione dell’intervento del SSN nel trattamento e nella prevenzione delle tossicodipendenze si dovrà aspettare il 1990 con l’istituzione dei SerT, oggi Servizi per le Dipendenze patologiche (SerD).
Stando ai dati del 2017 riportati nella Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, Si stimano oltre 200.000 utilizzatori ad alto rischio di oppiacei. Il 34% degli studenti italiani (circa 880.000) ha provato almeno una sostanza psicoattiva illegale nel corso della propria vita. La cannabis è la sostanza più diffusa (utilizzata dal 34% degli studenti), seguita da spice (12%) e cocaina (3,4%). Si stima che l’1,7% della popolazione 15-64enne (che corrisponde a circa 700.000 persone) abbia fatto uso di eroina o altri oppiacei almeno una volta nel corso della vita (15- 34enni = 2,1%; 35-64enni = 1,6%). All’aumentare della fascia di età si osserva una diminuzione della prevalenza di consumo, che passa dall’1,1% nei 15-24enni allo 0,8% nella fascia tra i 25 e i 34 anni e allo 0,5% nella decade 35-44 anni.
Il problema della tossicodipendenza e dell’utilizzo di oppiacei rimane sensibile tra i giovani anche al giorno d’oggi. Ma non possiamo non notare l’impostazione arretrata con cui il dibattito sul tema continua a svolgersi. La docuserie Sanpa-Luci e tenebre di San Patrignano è stata duramente attaccata da tutto il panorama della destra in Italia. Dalla Meloni a Gasparri a Salvini fino alla Moratti è partito un vero e proprio intervento mediatico volto a riqualificare e a difendere strenuamente la memoria di Vincenzo Muccioli e il modello della sua San Patrignano.
Di passi in avanti nel trattamento e nella prevenzione delle tossicodipendenze ne sono stati fatti molti da allora, molti altri ne rimangono da fare nella lotta alla droga che non può passare solo attraverso l’intervento istituzionale, ma anche attraverso la lotta per una società più giusta, contro le disuguaglianze e l’emarginazione sociale. La necessità di investire maggiormente in campagne di sensibilizzazione e informazione che partano sin dagli apparati dell’istruzione pubblica rimane una priorità non scindibile dalla necessità di maggiori investimenti nella prevenzione generale, nell’assistenza territoriale e in un reale reinserimento sociale dei tossicodipendenti. Prevenzione e non repressione quindi, partendo da un’analisi sociale del fenomeno e non da un approccio individualista, basato sulla criminalizzazione dei comportamenti e delle responsabilità del singolo. La lotta all’abuso di sostanze psicoattive come fuga dalla realtà e alle dipendenze sono e rimangono obiettivi da perseguire. La regressione non rientra tra le alternative plausibili.