di Francesca Antonini
I dati ISTAT relativi all’occupazione del mese di dicembre 2020 descrivono uno scenario estremamente allarmante. L’occupazione rispetto al mese precedente scende di 101.000 unità, di cui 99.000 sono donne e appena 2000 uomini. A queste stime devono essere idealmente aggiunte le migliaia di posti di lavoro a nero e con contratti irregolari persi, che possono essere facilmente individuati dall’aumento del numero di inattivi (+42.000 unità) tra le donne nelle fasce d’età 15-24 e 35-49, mentre diminuisce tra gli uomini.
Il dato è agghiacciante: il 98% di chi ha perso il lavoro è composto da donne. Ma non c’è forse da stupirsi. Il nostro è un paese in cui le discriminazioni di genere permangono fortemente radicate nella società. Basti pensare che nella maggior parte dei casi una donna nel corso della propria vita si trova costretta a dover scegliere tra il lavoro e la possibilità di avere un figlio o una famiglia. Il 37% delle donne tra i 25 e i 49 anni con almeno un figlio risulta inattiva, percentuale che sale all’aumentare del numero di figli, fino al 52,5%. Le tutele lavorative in caso di maternità sono scarse, nella maggior parte delle situazioni totalmente insufficienti e l’idea stessa che una donna abbia una relazione stabile o che possa avere l’aspirazione di diventare madre, rappresenta un forte deterrente per la stabilizzazione dal punto di vista contrattuale e molto spesso anche per l’assunzione.
La cura genitoriale rimane saldamente ancorata ad una responsabilità quasi esclusivamente femminile, per retaggio culturale e per gli ostacoli imposti in ambito lavorativo. Le chiusure alternate dei servizi scolastici sul territorio nazionale, che perdurano ormai da un anno, stanno mostrando i loro effetti, soprattutto sulle classi sociali più svantaggiate. Ad agosto 2020, da una ricerca effettuata su 7.000 nuclei familiari in Italia, era emerso che il 30% delle donne madri era pronta a lasciare il proprio impiego per seguire i figli in Dad e il 65% riteneva che questa modalità di didattica non fosse coniugabile con il proprio lavoro. Da un’indagine più recente condotta da Save the Children Piemonte, emerge che a dicembre 2020 l’11% delle donne nella regione è stata costretta a lasciare il lavoro per seguire i figli in Didattica a Distanza. Le differenze di genere sono sempre più forti e la crisi che stiamo attraversando mostra sin da subito la tendenza ad acuirle ancora di più.
Il calo dell’occupazione colpisce duramente ancora una volta le categorie più deboli a livello lavorativo, tra cui donne e giovani, spesso impiegati con contratti a termine, precari e dunque esenti dalla copertura temporanea del blocco dei licenziamenti, che è destinato a terminare a breve per giunta. Il gap occupazionale, infatti, non è solo di genere, ma anche generazionale, con un tasso di disoccupazione giovanile che a dicembre sale al 29,7%.
Dall’inizio della pandemia è emerso in maniera evidente come la gestione dell’emergenza sanitaria e della crisi economica sia mirata a salvaguardare gli interessi delle classi dominanti. Secondo un rapporto Oxfam 400 milioni di persone nel mondo hanno perso il lavoro durante questo periodo, mentre 32 delle maggiori multinazionali hanno incrementato il loro profitto di 109 miliardi in più rispetto al 2019, anteponendo il profitto alla salute e alla sicurezza dei lavoratori e ampliando sensibilmente le disuguaglianze sociali.
In Italia il blocco dei licenziamenti ha finora esercitato la funzione strategica di palliativo, per diminuire la conflittualità nei posti di lavoro e continuare ad erogare finanziamenti miliardari alle imprese. Con la scelta dell’ex governatore della BCE Mario Draghi a capo del nuovo governo è difficile credere che il blocco verrà prorogato oltre la scadenza del 31 marzo. Nella nuova stagione di massacro sociale che si sta avviando ci sarà da aspettarsi dei dati ben più agghiaccianti rispetto a quelli relativi al 2020.
Per salvaguardare i profitti del capitale la crisi economica viene e verrà fatta ricadere sulle spalle delle classi popolari, in termini di tagli alla spesa pubblica, un ulteriore aumento dei licenziamenti, aumento della precarietà e un peggioramento complessivo delle condizioni lavorative, soprattutto per le categorie da sempre meno tutelate.
I dati ISTAT ci ricordano che le donne sono vittime di una discriminazione che si pone su un duplice piano di sfruttamento: quella relativa alla classe sociale e quella relativa all’appartenenza di genere. Se inseriti in questo contesto i dati allarmanti rispetto all’occupazione femminile non possono che avvalorare una sola tesi: in questo sistema la lotta per la parità di genere non può essere impostata solo sul piano culturale. La lotta per la parità di genere e per l’emancipazione femminile non può essere scissa dalla lotta di classe, al contrario ne è parte integrante.