Il “Giorno del ricordo”, 10 febbraio, è stato istituito dal Governo Berlusconi II, il 30 marzo 2004, al fine di «conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale».
Vogliamo indagare in cosa consiste questa “più complessa vicenda”.
Cosa dimentichiamo nel “Giorno del ricordo”?
La “vicenda” non comincia nell’aprile 1945, ma con la fine della prima guerra mondiale, poi fu completata dal regime fascista, che culminò nel 1941 con l’invasione nazifascista della Jugoslavia.
Gli atroci crimini (stragi, deportazioni, internamenti) commessi dalle autorità italiane durante la guerra sono stati rimossi, alimentando la falsa credenza negli “italiani brava gente” e delegittimando e diffamando la resistenza nei Balcani e il movimento partigiano.
Alla resistenza in Jugoslavia presero parte numerosi italiani, l’opposizione armata al nazifascismo fu un esempio di internazionalismo.
L’”espulsione” degli italiani
La messa in discussione del trattato stipulato tra la Jugoslavia e l’Italia a Osimo, che nel 1975 aveva stabilito definitivamente il confine, ha stimolato pericolose fiammate nazionalistiche che possono mettere in discussione la sicurezza di quei paesi e portarli sull’orlo di crisi di cui possono beneficiare solo chi ha interesse a distogliere l’attenzione dai gravi problemi interni. Tutti i nazionalismi del resto sono stati e sono forieri di conflitti e guerre.
Paragonando quanto è avvenuto al confine orientale italiano con quanto avvenuto nel secondo dopoguerra, è utile riportare le cifre degli esuli che si spostarono dalla Jugoslavia in Italia a quelle ben più rilevanti che interessarono la Germania. Entrambi i paesi erano stati colpevoli di aver scatenato una guerra di aggressione ai propri vicini. Però, se i tedeschi cacciati dalla Cecoslovacchia (con i provvedimenti emessi dal presidente Edvard Beneš ben prima del governo a guida comunista del 1948) sono stati milioni (da cinque a venti milioni, con un numero delle vittime attorno ai due milioni e mezzo), nel caso degli esuli istriani varia da duecentomila a 350mila persone. Inoltre non ci fu mai alcun provvedimento di espulsione che colpì la minoranza italiana in Jugoslavia, a cui invece fu consentito di optare per la cittadinanza jugoslava o quella italiana e il trasferimento nella madrepatria, secondo le clausole del trattato di pace del 1947.
Destra e “sinistra”
Ma questa impostura storica non è monopolio solo della destra, neofascista o meno, italiana. Il 10 febbraio 2007 il presidente della repubblica Giorgio Napolitano commemorò le foibe come «un disegno annessionistico slavo, che prevalse innanzitutto nel Trattato di pace del 1947».
Oggi ogni tentativo di resistere a questa deriva, come le iniziative locali dell’ANPI di Parma, vengono disconosciute dal livello nazionale dell’Associazione («Sia la frase sulla pagina Facebook dell’Anpi di Rovigo che l’iniziativa di Parma non sono condivisibili», Carla Nespolo, presidente nazionale Anpi), così come dalla ex-Presidente (PD), della Regione FVG, Serracchiani («il giustificazionismo o peggio il negazionismo delle Foibe non sono accettabili»).
Il Giorno della memoria e “negazionismi”
Altra impostura riguarda l’accostamento con l’olocausto, accostando il “Giorno della memoria” (27 gennaio, in ricordo del giorno in cui l’Armata Rossa liberò il campo di Auschwitz) e “Il Giorno del ricordo”. Quindi chi vuole difendere la verità storica della resistenza al nazifascismo viene accusato di “negazionismo” ed equiparato a ben altri e tristemente noti atti di falsificazione storica che mettono in discussione le finalità e l’entità dei campi di sterminio nazisti, sfruttando il ben collaudato abominevole parallelo nazismo-comunismo.
Una premessa storica
La popolazione dei territori di cui parliamo era sempre stata molto composita, con zone a maggioranza slovena (a est e a nord di Gorizia, il Carso triestino, il nord dell’Istria), italiana (il centro di Trieste, gran parte della costa istriana, il Friuli orientale e la Bisiacaria, cioè la zona del monfalconese), croata (l’interno dell’Istria) e numerosi gruppi minoritari (romeni, serbi, ebrei, greci, cechi, armeni) e il gruppo più consistente, quello tedescofono, presente soprattutto nelle città medie e grandi. Il plurilinguismo era una situazione estremamente diffusa, sia per la frequenza dei matrimoni misti, sia per la necessità di parlare più lingue in un territorio multietnico. Politicamente solo una minoranza degli italiani era favorevole all’irredentismo e all’annessione del territorio all’Italia.
Il censimento del 1910 registrò una popolazione totale di 928.046 persone, di cui 354.908 italiani, 466.730 sloveni e croati, 39.798 di altra lingua e 66.611 cittadini stranieri. In alcune zone le autorità imperiali procedettero a una revisione dei dati: per esempio a Trieste gli italiani passarono da 170mila a 148.398, mentre gli sloveni da 38mila a 56.917.
La convivenza tra le comunità era in genere buona. Al momento dell’inizio delle ostilità il Litorale aveva perso la grande maggioranza dei cittadini italiani in esso residenti, quasi 35mila persone. Durante la guerra poi si ebbe un grave spopolamento. Trieste, che nel 1914 contava 243mila abitanti, si ridusse a sole 150mila unità.
Alla sconfitta dell’Austria-Ungheria le nuove autorità italiane resero più difficile la permanenza dei non italiani e ostacolarono il ritorno degli sfollati di nazionalità diversa. Circa 800 insegnanti e sacerdoti slavi furono internati, altri furono espulsi. I funzionari dell’apparato asburgico partirono negli ultimi giorni di guerra. Migliaia di persone lasciarono la Venezia Giulia, portando in alcune zone a un vero e proprio spopolamento.
Le autorità italiane insediarono nei nuovi territori migliaia di immigrati dal regno, militari e civili. I primi furono i già residenti prima della guerra, seguiti da un numero sempre più consistente di neoimmigrati italiani. Nel 1921 il numero complessivo dei nuovi immigrati civili nella sola Trieste era di circa 40mila persone, di cui 25.500 già residenti prima della guerra.
Negli anni del fascismo l’immigrazione ebbe nuovo impulso a causa della politica fascista di italianizzazione dei nuovi territori, ormai definita ufficialmente “bonifica etnica”. Tra il 1918 e il 1931 furono 128.897 gli italiani immigrati nella Venezia Giulia, dei quali 63.932 concentrati nella provincia di Trieste e 49.009 nella città, dove risiedevano dunque i due quinti dell’intera comunità italiana immigrata.
La “bonifica etnica” del fascismo non si attuò solo con l’immigrazione di italiani, ma soprattutto con la snazionalizzazione, l’assimilazione e la spinta all’emigrazione. Sloveni e croati della Venezia Giulia nel corso del ventennio fascista videro l’annientamento di tutte le iniziative economiche e culturali delle due minoranze. Nel giro di pochi anni le banche e gli istituti assicurativi di proprietà slovena e croata furono chiusi o assorbiti da istituti nazionali, i circoli e le istituzioni culturali soppressi, la stampa e l’editoria sospese, l’uso dello sloveno e croato vietato nei tribunali e negli uffici pubblici. Ai contadini sloveni e croati che avevano ottenuto prestiti pubblici per l’aiuto postbellico furono aumentati talmente i tassi di interesse da costringerli a svendere le proprietà allo stato, che poi provvedeva a riassegnarle, a prezzo stracciato, a coloni italiani neoimmigrati. La “riforma Gentile” portò alla chiusura di tutte le scuole con lingua d’insegnamento non italiana, mentre i simboli delle due comunità furono distrutti.
L’episodio più significativo fu l’incendio del Narodni dom, la casa del popolo che rappresentava il cuore culturale e simbolico delle comunità slovena, croata e ceca di Trieste, dato alle fiamme il 13 luglio 1920 in una delle prime “imprese” degli squadristi giuliani.
Le violenze colpirono istituzioni e singoli individui: scuole, circoli, giornali, negozi e studi professionali furono devastati dagli squadristi; intellettuali, attivisti o anche persone comuni colpevoli solo di esprimersi nella loro madrelingua furono brutalmente malmenati o addirittura assassinati dai militi fascisti. Lo sloveno e il croato furono cancellati addirittura dalla toponomastica. Inoltre fu avviata una campagna per il cambiamento dei cognomi e nomi “allogeni” e la loro “restituzione” in italiano. Un esempio per tutti, il cognome sloveno Starec (vecchio) divenne Starace.
Nel 1921 il censimento segnalò nella regione 884.251 abitanti, di cui 503.134 italiani, 257.868 sloveni e 92.806 croati.
Contro la politica di bonifica etnica e le violenze fasciste nacquero movimenti clandestini di resistenza nazionale. I più importanti furono il Tigr – acronimo di Trieste, Istria, Gorizia e Fiume (Rijeka) – e Borba (Lotta) che attuarono azioni e attentati contro simboli e istituzioni legate alla politica di bonifica etnica fascista. Per piegare questi gruppi e per intimidire la popolazione fu impiegato il Tribunale Speciale per la Difesa Dello Stato, una magistratura fascista istituita dopo l’attentato del 1926 a Mussolini, che non prevedeva né ricorsi né appelli. Il tribunale speciale fu largamente impiegato dallo stato contro gli sloveni e i croati: i processi a loro carico furono 131, gli anni di carcere irrogati a residenti nella Venezia Giulia 4.893 (il 17 per cento delle condanne complessive emesse dal tribunale in tutta Italia), le condanne a morte 33 su 42 totali, le condanne eseguite 23 su 31.
Persecuzioni, crimini fascisti e resistenze nei Balcani e nella Venezia Giulia, 1920-1945
Al razzismo antislavo tipico di queste terre si è accennato pochissimo, lo si è molto edulcorato, quando invece per loro è stata una cosa durissima. Questo razzismo si spiega in primis con una ragione sociale. Collegata con il nome degli slavi è anche l’etimologia della parola italiana “schiavo” in latino medievale, il vocabolo sclavus derivava proprio da “slavo”, che si mutò in sinonimo di “popolo asservito”. Fino alla metà dell’ottocento, infatti, gli slavi occupavano i posti più bassi e più umili nella gerarchia sociale.
La Jugoslavia rappresenta il principale obiettivo strategico non solo dell’Italia fascista ma del nazionalismo italiano in generale. Con l’attacco del 1941 e l’annessione di ampie fette di territorio jugoslavo (della Dalmazia in particolare), il regime ottiene un significativo successo politico e propagandistico.
Le forze d’occupazione italiane reagiscono subito con estrema durezza ai primi fenomeni di resistenza nei Balcani. Già nel luglio 1941 nelle città della Dalmazia cominciano a operare i tribunali speciali, che condannano a morte diversi attivisti comunisti. In Slovenia la svolta avviene nell’inverno del 1942, quando i comandi militari ricevono l’autorizzazione a operare senza più l’intromissione delle autorità civili, che dovrebbero amministrare un territorio ufficialmente annesso all’Italia. Nei mesi successivi, poi, una serie di rastrellamenti sempre più massicci seminano morte e distruzione in Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina.
Mario Roatta, ex capo del servizio informazioni militare (Sim) e delle forze fasciste in Spagna, è uno dei più apprezzati generali italiani e viene scelto per governare i territori jugoslavi annessi e occupati. Egli imposta la strategia italiana su un sistema di ampie alleanze militari con le realtà locali disposte a collaborare in una logica anticomunista, e una durissima repressione, codificata nella famosa circolare 3C (emessa nella primavera e poi nell’estate del 1942) che identifica esplicitamente i civili come possibili favoreggiatori dei partigiani e dunque obiettivo privilegiato delle operazioni repressive. La circolare 3C era un articolato repertorio rivolto alle forze di occupazione, contenente disposizioni per l’internamento dei civili e la lotta antipartigiana non molto diverse da quelle utilizzate dai nazisti nello stesso periodo.
Mario Robotti, già comandante militare in Slovenia, succede a Roatta al comando dell’armata nel febbraio del 1943. La sua nomina (che avviene però in una fase di recessione dell’impegno italiano in questi territori) è dovuta allo zelo con cui ha condotto la repressione in Slovenia nei mesi precedenti. Robotti è infatti noto agli studiosi per la severità con cui condusse le operazioni di rastrellamento, ma soprattutto per un atteggiamento particolarmente cinico verso le vittime delle repressioni italiane, esemplificato dalla famosa annotazione: “Si ammazza troppo poco!”.
Non sarà mai possibile stabilire una cifra precisa sulle vittime di questa politica. Gli sloveni fucilati dagli italiani sono tra i 1.500 e i duemila; cinquemila montenegrini sono vittime dell’ondata repressiva dell’estate 1941. Le vittime dell’internamento italiano sono invece circa centomila, e tra questi si contano cinquemila morti per fame, malattie, inedia, senza contare i profughi, le vittime “indirette” del sistema di occupazione italiano, ovvero uccise fisicamente per mano di ustascia, cetnici e altre forze collaborazioniste che operano grazie al supporto italiano.
I campi di Arbe e Melada furono indubbiamente tra i più grandi per capienza, e i peggiori per condizioni di vita. Peraltro, le pratiche d’internamento “a tappeto” realizzate dall’Italia fascista in quei due campi rientrano nella fattispecie dei crimini di guerra. Ad Arbe morirono 1.477 persone su un numero totale di reclusi che nell’anno di funzionamento oscillò dai duemila agli ottomila. È una cifra raccapricciante. Gli internati di Melada, talvolta, morivano anche per fucilazione: giustiziati in quanti ostaggi, in occasione di particolari azioni partigiane.
All’indomani della seconda guerra mondiale, la storia dei campi allestiti, tra il 1940 e il 1945, dal Regno d’Italia e dalla Repubblica di Salò, fu pressoché rimossa dalla memoria collettiva, supportate dalla mancanza di una “Norimberga italiana”, un buco nero che, oltre alle vicende dei siti “campi provinciali” per ebrei istituiti dalla RSI, a partire dal dicembre 1943, avvolse anche la rete di campi fascisti per slavi che interessò sia la penisola sia i territori jugoslavi occupati; e azzerò perfino la memoria dei campi coloniali, nonostante che il suo stesso ideatore, il generale Rodolfo Graziani, ne avesse ammessa e rivendicata la creazione fin dagli anni trenta.
La resistenza partigiana e il movimento operaio
Sono circa 300mila gli italiani che sperimentano la straordinaria capacità organizzativa e militare della resistenza jugoslava. Molti di loro porteranno a casa questa esperienza e, per chi farà la scelta partigiana dopo l’armistizio, la Jugoslavia rappresenterà sempre un modello da imitare, un incredibile esempio di efficacia militare, coerenza politica e appoggio popolare.
Col tempo saranno costituite due divisioni partigiane interamente italiane – Italia e Garibaldi – che combattono agli ordini dell’esercito di liberazione jugoslavo fino alla fine della guerra; mentre molti volontari italiani restano inquadrati come singoli o piccoli gruppi nelle unità jugoslave.
Per quanto riguarda le caratteristiche della resistenza, il punto di partenza è sicuramente il lavoro operaio nelle fabbriche, in particolare nei cantieri navali, sia di Trieste sia di Monfalcone. Qui la manodopera è mista, composta da italiani e sloveni, in un cantiere lavorano migliaia di operai ed è facile avere rapporti con persone di diverse nazionalità. Tra l’altro è molto significativo che gli operai italiani, che avevano mansioni più elevate, riescono a costruire con i colleghi sloveni un rapporto che dura per tutti gli anni trenta. Le cellule erano miste, si riunivano in anfratti del cantiere, nelle navi in costruzione e discutevano della situazione politica nei momenti di pausa. L’operaio qualificato spiegava agli altri non solo il lavoro ma anche la politica.
Già all’indomani della prima guerra mondiale ci furono scontri di piazza e scioperi molto decisi nel cantiere, che il padronato tentò di sedare. Queste lotte erano nate soprattutto per il problema della casa, che era drammatico. Monfalcone era distrutta, gli operai erano costretti a vivere in alloggiamenti di fortuna precari, per di più in un territorio affetto da malaria, cui erano esposte soprattutto le donne. Lottavano per un aumento salariale, un orario di lavoro adeguato e contro gli incidenti sul lavoro, che erano all’ordine del giorno. Gli operai quindi entrarono in azione subito, spinti da un lato dalla volontà di riscattare con più diritti i sacrifici patiti dai soldati e dai loro familiari durante la guerra, dall’altro dalle condizioni economiche e sociali in cui vivevano, dure e precarie. E non solo gli operai. Dopo la guerra il clima insurrezionale è diffuso, nel periodo che nella storiografia italiana viene chiamato “biennio rosso”. Fin da subito ci sono occupazioni dei comuni nel 1920, nel 1921 un gruppo di fascisti assalta il cantiere di Monfalcone con lanci di bombe contro i lavoratori, uno dei quali viene ucciso. Dalla fine del 1919 a tutto il 1920 vengono colpite sedi dei circoli di cultura e delle camere del lavoro, subito entrano in gioco le squadre fasciste esterne e interne al cantiere, gli “operai a doppia paga” che si guadagnavano un surplus con il pestaggio dei loro colleghi di lavoro. Lo scontro è acuto, così come precocissimo è il manifestarsi del fascismo. La violenza si scatena immediatamente, dalla fine della guerra e sotto i regimi liberali, grazie all’intervento di squadre sovvenzionate dagli armatori Cosulich in risposta a scioperi e manifestazioni. Il clima è incandescente – come ho detto – e proprio per questo a Monfalcone le squadre entrano in azione praticamente da subito.
L’opera di repressione, sia nei confronti degli operai sia nei confronti degli sloveni, avviene già sotto il governo liberale. L’azione delle squadre fasciste è precoce, precede di molto la marcia su Roma, che è la data di inizio del fascismo al livello nazionale.
Questi gruppi di operai però nel corso del tempo si assottigliano, con i licenziamenti in fabbrica da un lato e la repressione dall’altro le cellule si riducono a pochi operai. Si tratta tuttavia di una fetta importante della popolazione, di un mondo sloveno che è da subito antifascista perché anche la persecuzione comincia subito.
Nel secondo dopoguerra si assiste a un “controesodo” dei cantierini monfalconesi che dal 1946 decidono di trasferirsi in Jugoslavia, testimonianza di una classe operaia multietnica. Bisogna ricordare che nel periodo 1945-1947 operava il Partito comunista della regione Giulia (Pcrg) e permanevano i “poteri popolari”, forme di democrazia diretta instaurate dopo il conflitto e prima dell’amministrazione americana. Aleggiava l’idea che si potesse ancora “dare una spallata” e creare un mondo nuovo, ma ci fu anche una sequela spaventosa di attentati fascisti e una mancanza di posti di lavoro dovuta ai novemila licenziamenti minacciati e ai duemila messi in atto dal cantiere. A Monfalcone e a Trieste nel luglio del 1946 si svolse un enorme sciopero chiamato “dei dodici giorni” che cominciò con il blocco del Giro d’Italia a Pieris e proseguì con il blocco totale di tutte le fabbriche e le campagne, ma poi fu represso e fallì. In conclusione, c’è stata la spinta dei licenziamenti, della repressione, e l’idea che lì si potesse stare meglio, alimentata anche dal partito.
Le foibe.
Per quanto riguarda i morti in Istria dopo l’8 settembre 1943, il numero è stato frequentemente gonfiato, al massimo si può parlare di 400-500 vittime. Le vittime nella zona di Trieste sarebbero state, secondo Claudia Cernigoi, 498 morti. Secondo Troha, nella zona di Gorizia morirono 901 persone, in Istria e a Fiume 670. Sono circa 2.200 morti, ai quali dovremmo aggiungerne alcuni altri, sebbene non ci siano a disposizione dati precisi. Per esempio, il 12 maggio 1945 intorno a Ilirska Bistrica i partigiani jugoslavi catturarono diverse migliaia di soldati tedeschi, e secondo alcune fonti almeno una parte di loro fu uccisa sommariamente. In totale dunque circa tremila, tremilacinquecento persone, circa due terzi delle quali di nazionalità italiana, per lo più soldati inquadrati in formazioni che, a diversi livelli, collaboravano con gli occupanti tedeschi.
Nel 1959, dopo alcuni anni di ricerca, i risultati mostrarono che nel territorio di Trieste, Gorizia e Udine i morti per diverse cause – “infoibati”, fucilati o deceduti per malattia – furono 645; i deportati che poi rientrarono dai campi jugoslavi 1.239; quelli che non ritornarono 1.982. Dunque, secondo questa indagine il numero totale delle vittime per mano jugoslava nel periodo dopo la liberazione non dovrebbe superare i 2.627, numero non dissimile dalle stime sopra menzionate.
Dopo l’8 settembre 1943 l’Italia crollò, l’amministrazione statale scomparve, l’esercito italiano e le forze dell’ordine si dissolsero. Di conseguenza, in Istria si verificò una sorta d’insurrezione popolare, che si manifestò con assalti a municipi, tentativi di distruggere i registri erariali e così via. Negli stessi giorni, però, si formarono in Istria le prime formazioni partigiane, composte da croati, ma anche da italiani che manifestavano il loro odio nei confronti della borghesia locale. I maggiorenti fascisti erano già fuggiti, quelli rimasti erano pesci piccoli legati al regime: piccoli borghesi, commercianti, professionisti, maestri di scuola. Molti di questi vennero arrestati e concentrati in varie località, nella maggior parte dei casi in base alle decisioni degli organi centrali del movimento partigiano istriano, ma non mancarono episodi di vendetta personale.
In seguito, come emerso dalle ricerche dello storico croato Darko Dukovski, un tribunale di guerra svolse indagini sugli arrestati e una settantina di persone fu condannata a morte. Nelle zone dove i fascisti avevano attuato repressioni più feroci contro la popolazione la reazione popolare fu ancora più radicale. Quando all’inizio dell’ottobre 1943 i tedeschi cominciarono a occupare l’Istria per assicurarsi il controllo sulla neocostituita Zona di operazione Litorale Adriatico (Ozak), le forze partigiane non furono in grado di far fronte alla Wehrmacht. Per questa ragione decisero di sbarazzarsi dei prigionieri. Molti di questi furono frettolosamente fucilati. In altri casi si procedette invece al loro rilascio, in alcuni frangenti liberando, senza rendersene conto, anche criminali fascisti.
Relativamente al numero delle vittime, nelle stime degli storici non ci sono grandi divergenze: dovrebbero aggirarsi tra 400 e 500, sebbene il numero delle persone realmente “infoibate” – cioè gettate nelle voragini carsiche – sia inferiore, tra le 250 e le 300. Le altre morirono in modi diversi e alcune semplicemente scomparvero.
Va sottolineato che i tedeschi, quando occuparono l’Istria nell’ottobre del 1943, fecero decisamente molte più vittime e deportarono moltissimi istriani a Dachau e in altri campi di concentramento. A guidare la repressione sul Litorale Adriatico fu mandato Odilo Globočnik, uno degli alti ufficiali nazisti più vicini a Himmler. Oltre a effettuare repressioni e rappresaglie, lo staff di Globočnik sfruttò la questione foibe in funzione antibolscevica, come era stato già fatto nel caso dell’eccidio di Katyń in Polonia. I corpi decomposti delle vittime istriane furono recuperati, le loro foto affisse nelle vie cittadine. Furono pubblicati opuscoli sull’argomento. Le autorità fasciste, quelle di Salò, si agganciarono immediatamente a quel filone, e l’azione propagandistica acquisì un’enorme risonanza, collegandosi poi – a guerra finita – alla questione delle foibe triestine e goriziane.
Negli ultimi giorni di guerra quasi tutti i nazisti fuggirono, cercando di raggiungere l’Austria o la Germania. In loco rimasero i collaborazionisti. Quando la quarta armata dell’esercito jugoslavo liberò e occupò Trieste e Gorizia, si scatenò una caccia all’uomo diretta contro quelle persone.
In particolare i documenti statunitensi e britannici su Basovizza (gli Alleati presero il controllo di Trieste dopo il 12 giugno 1945) riferiscono nella voragine furono trovati i resti di 150 persone, tutti soldati tedeschi e un civile, oltre a carogne di cavalli. Tra la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945, infatti, Basovizza fu teatro di intensi combattimenti tra tedeschi e partigiani. A scontri finiti era necessario liberarsi il più presto possibile dei nemici caduti e delle carogne degli animali, gettando tutto nella fossa più vicina. Non si trattava di una foiba naturale, tipica del Carso, ma del pozzo d’ingresso di una miniera di carbone, mai entrata in funzione. Da tempo era utilizzata dagli abitanti della zona come discarica, e in due o tre casi era stata teatro di suicidi. Sembra che anche fascisti e nazisti vi abbiano gettato i corpi dei loro avversari per sbarazzarsene. Statunitensi e britannici svolsero una ricerca molto approfondita, cercando di individuare le vittime basandosi sulle uniformi. In particolare cercarono i bottoni, perché da essi si poteva capire a quale formazione appartenessero le vittime. Nonostante l’impegno profuso nella ricerca – speravano di poter sfruttare la vicenda a fini politici contro la Jugoslavia comunista – non riuscirono a trovare praticamente nulla oltre a quanto già citato. Negli anni successivi furono fatti altri sopralluoghi da speleologi triestini e anche dall’esercito italiano. Il risultato è stato nullo. Negli anni cinquanta il pozzo di Basovizza fu usato per un certo periodo come discarica dal comune di Trieste. Gli alleati, prima di abbandonare Trieste nel 1954, vi gettarono a loro volta molta ferraglia. Nei primi anni sessanta il pozzo di Basovizza diventò una specie di simbolo di tutte le “foibe” della nostra zona, un luogo di pellegrinaggio, tanto che nel 1992 è stato proclamato monumento nazionale.
L’esodo
Rispetto al numero “ufficiale” di 350mila, basta sommare le cifre fornite per le varie ondate: da Zara e da Pola, ipotizzando che se ne siano andati tutti gli abitanti censiti nell’anteguerra, rispettivamente 21.372 e 32mila; da Fiume 38mila, e si tratta della stima più alta; dalla zona B del Territorio libero di Trieste 40mila (anche in questo caso è la stima più alta); dai territori annessi alla Slovenia dopo il trattato di pace, cioè dalla parte orientale e settentrionale dell’ex provincia di Gorizia, 21.322. Il risultato è 152.694 persone.
Anche i numeri del censimento effettuato dall’Opera per l’assistenza ai profughi giuliani e dalmati agli inizi degli anni cinquanta sono tutt’altro che affidabili. L’’Opera profughi è arrivata a “censire” 201.440 profughi ai quali ha però aggiunto 50mila persone “presumibilmente” sfuggite al censimento, arrivando così a 250mila profughi.
L’esodo è presentato come conseguenza di un tentativo di genocidio degli italiani in quanto tali, le foibe appunto, argomento utilizzato dalla classe dirigente italiana dell’Istria già all’indomani l’8 settembre 1943 per cercare di ottenere un intervento angloamericano in Istria. Era chiaro che il movimento partigiano non le avrebbe mai consentito di conservare – o riprendere – il potere. Al contrario, come dimostrava quanto stava accadendo in Italia, l’arrivo degli angloamericani avrebbe garantito all’élite italiana dell’Istria il mantenimento del suo ruolo sociale e politico. Perciò i maggiorenti istriani cominciarono a inviare al governo del Regno del Sud, a Brindisi, una serie di relazioni, petizioni e appelli in cui si descrivevano gli intenti sterminatori degli “jugoslavi” e si preannunciava la partenza in massa della popolazione italiana. Fu anche sulla base di quelle comunicazioni che nel 1944 il governo Bonomi cercò di fare pressione sugli alleati – che le respinsero – perché sbarcassero in Istria, e di organizzare in segreto – la cosa fu tenuta nascosta ai partiti di sinistra nel governo, ma fu scoperta da Togliatti – l’alleanza tra X Mas e formazioni Osoppo contro l’esercito popolare di liberazione jugoslavo al momento del crollo tedesco. L’esodo preannunciato fu di fatto organizzato dopo la fine della guerra, quando già a margine della conferenza di pace il ceto dirigente istriano cominciò a pianificare l’emigrazione della popolazione in caso di assegnazione dei territori contesi alla Jugoslavia, e a progettare il suo insediamento nel goriziano e a Trieste. Anche la Democrazia cristiana triestina si impegnò a insediare a Trieste il maggior numero possibile di profughi dall’Istria, per rafforzare il campo dei sostenitori del ritorno della città all’Italia, in quel momento inconsistente a livello numerico.
Ci fu sicuramente uno stravolgimento dell’ordine sociale, con episodi anche di discriminazione degli italiani da parte di alcune autorità locali (le autorità federali jugoslave erano decisamente contrarie a tali pratiche e intervennero in varie occasioni), ma fu anche un fenomeno inserito in un contesto economico e sociale in cui l’emigrazione è stata sempre presente, con significativi aumenti dopo l’annessione della regione all’Italia e dopo le distruzioni belliche.
Sarebbe inoltre necessario indagare l’attività delle organizzazioni filoitaliane e il peso che ebbero nello spingere gli istriani a partire: il Comitato di liberazione nazionale dell’Istria distribuiva denaro alle famiglie dei sostenitori e simpatizzanti dell’Italia e sovvenzionava attività di propaganda.
I profughi furono sventagliati per tutta Italia in situazioni di alloggio e sanitarie pessime, in ex campi di concentramento, caserme, edifici abbandonati, campi profughi, spesso insieme ai profughi dalle ex colonie africane – che erano molto più numerosi – e agli sfollati causati delle distruzioni belliche. Nonostante la retorica sui loro meriti patriottici, molti rimasero in quelle condizioni per decenni. L’ultimo campo profughi fu chiuso alla metà degli anni settanta. Ad allungare i tempi per la sistemazione definitiva di istriani e dalmati contribuì anche la scelta, collaudata proprio con l’esodo da Pola, di insediarli il più compattamente possibile, in particolare nelle zone del confine orientale, soprattutto a Trieste e nel goriziano, e in zone politicamente inaffidabili per i governi democristiani, come Emilia-Romagna e Toscana, allo scopo di “bonificare” nazionalmente o politicamente quelle zone. L’insediamento compatto in borghi destinati esclusivamente ai profughi istriani corrispondeva anche all’interesse delle organizzazioni degli esuli. Queste, evitando che i profughi – cioè la loro base – si “diluissero” nella società, potevano mantenere il proprio peso e il ruolo politico. Tuttavia già negli anni cinquanta gli stessi dirigenti delle organizzazioni dei profughi cominciarono a porsi la domanda se fosse stato giusto scegliere la strada dell’emigrazione definitiva. Alcuni, come Guido Miglia, dirigente del Cln di Pola, giunsero a sostenere che l’esodo era stato usato strumentalmente dalle forze politiche italiane più reazionarie in funzione anticomunista e per mantenere tesi i rapporti con la Jugoslavia.
Bibliografia
Rolf Wörsdörfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955 (il Mulino, 2009). Dalla costruzione dell’identità nazionale, al nazionalismo come forma di rappresentanza politica, al fascismo, all’occupazione nazista, alla lotta partigiana e alla nascita della Jugoslavia socialista: la storia politica e sociale del confine orientale vista da uno storico tedesco che conduce un’analisi comparativa tra la storiografia italiana, tedesca e slovena.
Piero Purini, Metamorfosi etniche: i cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria (1914-1975) (Kappa Vu, 2014). I bruschi sovvertimenti demografici sul confine orientale cominciano con la grande guerra. Questo saggio segue attraverso fonti italiane, tedesche, inglesi, slovene e croate tutti gli spostamenti di popolazione nell’area dal 1914 fino alla firma del trattato di Osimo nel 1975, pacificazione finale di un’area soggetta a svariati traumi correlati ai diversi scenari politici internazionali.
Marta Verginella, Il confine degli altri: la questione giuliana e la memoria slovena (Donzelli, 2008). Il libro di Verginella, professoressa ordinaria di storia del diciannovesimo secolo all’università di Lubiana, racconta la storia del litorale sloveno in maniera empatica e originale, conducendo il pubblico italiano alla scoperta delle ragioni dell’altro.
Milica Kacin Wohinz, Alle origini del fascismo di confine: gli sloveni della Venezia Giulia sotto l’occupazione italiana 1918-1921 (Fondazione Sklad Dorce Sardoc, 2010). La storia della comunità slovena della Venezia Giulia dall’annessione del territorio all’Italia fino all’invasione della Jugoslavia: dalle promesse tradite da parte delle nuove autorità italiane, alle violenze fasciste, alla snazionalizzazione forzata, all’emigrazione, alla nascita del movimento antifascista sloveno.
Davide Rodogno, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943) (Bollati Boringhieri, 2003). Le politiche di occupazione italiane in Europa durante la seconda guerra mondiale sono inquadrate come parte integrante del progetto imperiale fascista. Con un occhio particolare alle vicende della Grecia e dei Balcani, Rodogno rende esplicito il progetto di sfruttamento economico alla base dell’espansionismo italiano nell’Europa orientale, e descrive in modo preciso la logica tipicamente coloniale con cui furono gestiti i rapporti con le popolazioni dei territori occupati.
Eric Gobetti, Alleati del nemico. L’occupazione italiana in Yugoslavia (1941-1943) (Laterza, 2013). L’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse, l’esplodere della violenza su base “etnica” a opera di ustascia e cetnici (sostenuti rispettivamente da tedeschi e italiani nel quadro di una concorrenza tra alleati), il sorgere e lo sviluppo della resistenza guidata dai comunisti, le rappresaglie e le politiche repressive messe in atto dal regio esercito italiano. Attraverso citazioni e documenti non si tralascia di ricostruire le motivazioni e il vissuto delle parti in lotta.
Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L’internamento civile nell’Italia fascista (1940-1943) (Einaudi, 2004). Il saggio descrive le diverse forme di reclusione dei civili a opera dell’Italia fascista nella seconda guerra mondiale e tratta la storia e il funzionamento di ogni singolo campo di prigionia, sia quelli posti sul territorio italiano sia quelli nei paesi occupati, tra cui spicca per dimensioni e mortalità quello dell’isola di Arbe/Rab, destinato ai familiari dei resistenti jugoslavi.
Alessandra Kersevan, Lager italiani: pulizia etnica e campi di concentramento fascisti per civili jugoslavi 1941-1943 (Nutrimenti, 2008). Una ricostruzione minuziosa e documentata del sistema concentrazionario italiano allestito prima e durante l’invasione nazifascista della Jugoslavia. L’opera descrive struttura e funzionamento dei lager ubicati a Gonars, Arbe, Visco, Cairo Montenotte, Renicci, Colfiorito, luoghi dove morirono di fame, stenti ed esecuzioni sommarie migliaia di civili sloveni, croati, serbi, montenegrini. Istituzioni oggi dimenticate, delle quali anche il paesaggio – come la coscienza nazionale italiana – reca pochi segni.
Galliano Fogar, Dalle aggressioni fasciste alla occupazione nazista, in Dallo squadrismo fascista alle stragi della risiera (con il resoconto del processo). Trieste-Istria-Friuli 1919-1945 (Aned-Trieste, 1974). Nella “Venezia Giulia” la resistenza e la conseguente repressione antipartigiana cominciarono già nell’autunno del 1941, dopo l’invasione della Jugoslavia. Lo stato fascista mise in moto una macchina repressiva che, senza soluzione di continuità, dopo l’8 settembre 1943 fu inglobata nell’amministrazione militare nazista dell’Ozak. Fogar analizza i vari aspetti del collaborazionismo giuliano: amministrativo, militare, confindustriale.
Karl Stuhlpfarrer, Le zone d’operazione Prealpi e Litorale Adriatico, 1943-1945 (Libreria Adamo, 1979). La ricostruzione dettagliata della storia della Zona d’operazioni Litorale Adriatico basata sull’analisi della documentazione esistente in lingua tedesca.
Bogdan C. Novak, Trieste 1941-1954: la lotta politica, etnica e ideologica (Mursia, 1973). Un libro non recentissimo (la prima edizione per la University of Chicago è del 1970), scritto da uno storico sloveno poi trasferitosi negli Stati Uniti. È stato uno dei primi studi ad analizzare comparativamente la storia di Trieste basandosi su fonti italiane, statunitensi e jugoslave, riuscendo in questo modo a inserire la questione della Venezia Giulia in un contesto realmente internazionale.
Nevenka Troha, Chi avrà Trieste? Sloveni e italiani tra due stati (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia, 2009). La storia della questione di Trieste vista dall’altra parte, cioè da quella jugoslava. Questo volume ha permesso agli storici italiani di avere una visione degli avvenimenti non italocentrica, ma con un focus privilegiato sulla situazione e le aspettative degli abitanti del territorio di lingua slovena e sulle azioni e i provvedimenti delle autorità jugoslave.
Glenda Sluga. The problem of Trieste and the italo-yugoslav border, difference, identity, and sovereignty in twentieth-century Europe (SUNY Press, 2001). Analizzata da una prospettiva postcoloniale la questione della sovranità sulla città di Trieste nel secondo dopoguerra rivela l’inadeguatezza degli strumenti della “geopolitica” e la strumentalità delle retoriche nazionali di fronte a una realtà multiculturale e plurilinguistica.
Anna Di Gianantonio et alii, L’immaginario imprigionato. Dinamiche sociali, nuovi scenari politici e costruzione della memoria nel secondo dopoguerra monfalconese (Consorzio Culturale del Monfalconese; Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 2005). La vicenda dell’esodo dei cantierini monfalconesi in Jugoslavia e del turbolento dopoguerra in uno dei centri industriali più importanti dell’alto Adriatico, raccontata attraverso le testimonianze dei testimoni diretti e dei protagonisti.
Jože Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia (Einaudi, 2009). Una ricerca che affronta il tema delle foibe inserendolo nella narrazione della storia dei rapporti tra le diverse popolazioni dell’alto Adriatico e nel contesto del secondo conflitto mondiale e dell’immediato dopoguerra. Il testo svolge l’analisi sia dei documenti d’archivio sia delle narrazioni che hanno sovraccaricato i corpi rinvenuti nelle cavità carsiche di significati politici e identitari.
Costantino Di Sante, Nei campi di Tito. Soldati, deportati e prigionieri di guerra italiani in Jugoslavia (1941-1952) (Ombre corte, 2007). Chi furono davvero gli infoibati? Nella maggior parte dei casi si trattò di deportati e talvolta di prigionieri di guerra. Quest’opera indaga in parte sul loro destino nei campi di prigionia jugoslavi nel drammatico dopoguerra di un paese devastato, ma soprattutto consente di esplorare la più vasta tematica dello scambio di prigionieri tra Italia e Jugoslavia nell’ambito dell’escalation politico-diplomatica avvenuta tra questi due paesi e di come essa abbia influenzato anche il discorso sulle foibe.
Claudia Cernigoi, Operazione foibe tra storia e mito (Kappa Vu, 2005). Elenchi di infoibati/deportati della Venezia Giulia cominciarono a essere diffusi già durante la guerra, ritornando in auge negli anni ottanta-novanta con numeri di vittime ancor maggiori. Con una verifica accurata negli archivi, Claudia Cernigoi ha scoperto molti dati inesatti (persone ancora vive, duplicazioni, morti per altre cause, eccetera), in molti casi la collaborazione attiva con i nazisti degli scomparsi da Trieste, e ha indagato sul passato spesso torbido dei personaggi che pubblicarono queste liste. È significativo che alcuni ambienti abbiano reagito con l’accusa di negazionismo: un’accusa solitamente riferita alla negazione della shoah e per estensione a realtà scientifiche incontrovertibili, che in questo caso è stata strumentalmente rovesciata di significato e da allora è utilizzata frequentemente per chiunque manifesti un approccio critico al tema delle foibe.
Cristiana Colummi, Liliana Ferrari, Gianna Nassisi, Germano Trani, Storia di un esodo. Istria 1945-1956 (Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980). A tutt’oggi il punto di partenza per ogni ricerca sull’esodo istriano del secondo dopoguerra. Un’indagine sulla situazione precedente alla partenza, sulle paure reali o indotte negli istriani, sulla dinamica dell’esodo, sulle sue ragioni, sulla propaganda sia jugoslava sia italiana. In questo studio sono trattate per la prima volta con sistematicità la varie fasi dell’esodo, i problemi di quantificazione dei profughi, le loro condizioni e il loro destino una volta giunti in Italia. Recentemente l’Irsml ha digitalizzato il volume, che è oggi liberamente consultabile su Google Books.
Sandi Volk, Esuli a Trieste: bonifica nazionale e rafforzamento dell’italianità sul confine orientale (Kappa Vu, 2004). Un libro che si focalizza soprattutto sulla condizione degli esuli dopo la partenza e sull’uso che fu fatto di essi da parte dei partiti di area governativa e da parte delle associazioni dei profughi per modificare gli equilibri etnico-nazionali e politici dei territori dove vennero insediati.
Gloria Nemec, Un paese perfetto. Storia e memoria di una comunità in esilio: Grisignana d’Istria 1930-1960 (LEG, 2015). Alla metà degli anni novanta Nemec ha condotto un’importante opera di ricerca nell’ambito della storia orale relativamente alla comunità di un piccolo paese istriano, Grisignana d’Istria. La ricercatrice ha raccolto le testimonianze di coloro che se ne andarono nel dopoguerra ma anche di alcuni rimasti. Il puntuale confronto tra le memorie degli intervistati e una ricostruzione della storia sociale e politica dell’Istria fa emergere le complesse realtà celate dietro la scelta dell’esodo così come di quella di rimanere nel proprio paese d’origine, nonché i processi di costruzione dell’identità legati a tali scelte.
Pamela Ballinger, La memoria dell’esilio. Esodo e identità al confine dei Balcani (Il Veltro Editrice, 2010). Gli istriani, esuli e rimasti, sono stati per l’antropologa statunitense Pamela Ballinger il case study perfetto per indagare l’intreccio tra identità, memoria e frontiera. Nel saggio passa al setaccio ogni narrazione dell’esodo, sia essa pubblica o privata, storiografica o letteraria, nazionale o internazionale. Il risultato è una cartina di tornasole delle rappresentazioni date nel tempo del confine orientale, dall’irredentismo fino alla “vigilia” del Giorno del ricordo (il testo originale in inglese è stato pubblicato nel 2003).
Federico Tenca Montini, Fenomenologia di un martirologio mediatico (Kappa Vu, 2014). La ricostruzione di come il tema “foibe” è stato ed è trattato nel dibattito pubblico e sui mezzi d’informazione italiani, analizzando le semplificazioni e le distorsioni dei fatti storici in una chiave comparativa europea e rintracciando le radici e lo sviluppo delle narrazioni contemporanee.
Riferimenti
Il testo qui presentato è tratto liberamente da La storia intorno alle foibe, gruppo di lavoro sul revisionismo storiografico, Nicoletta Bourbaki, 10 febbraio 2017.