Alcune settimane fa il governo presieduto dalla Consigliera di Stato Aung San Suu Kyi e dal presidente Win Myint è stato rovesciato da un colpo di stato militare. La nuova giunta appena insediatasi ha disposto gli arresti dei parlamentari birmani e ha promesso nuove elezioni entro un anno.
Il golpe è stato sostenuto dal vicepresidente Myint Swe, attualmente presidente ad interim, e ha permesso al generale Min Aung Hlaing di ricoprire la carica di consigliere di stato. I membri dell’esecutivo golpista hanno motivato la loro azione con la natura fraudolenta delle elezioni del 2020 in cui la Lega Nazionale per la Democrazia guidata da Aung San Suu Kyi aveva ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi.
L’evento ha suscitato ampie proteste nella società birmana, accompagnate da uno sciopero generale indetto dall’ex partito di governo a cui le forze di polizia hanno opposto un uso indiscriminato della forza con una serie di arresti ed una prima vittima, una giovane donna uccisa da uno dei tanti proiettili di gomma sparati ad altezza uomo. La comunità internazionale si è mostrata divisa: nel Consiglio di Sicurezza ONU Russia e Cina hanno posto il veto a una risoluzione di condanna promossa dal Regno Unito, e gli Stati Uniti hanno deciso di imporre sanzioni alla giunta militare.
Non è la prima volta che il paese è al centro delle cronache internazionali, non solo per la delicata questione della comunità musulmana dei Rohingya, ma anche per un passato travagliato segnato dal peso dell’esercito e da una difficile convivenza pacifica.
Dal dopoguerra ai giorni nostri
La Birmania è un paese ufficialmente indipendente dal 4 gennaio 1948, dopo essere stata teatro di scontri nella guerra mondiale tra gli storici colonizzatori britannici e gli occupanti giapponesi.
Dall’indipendenza il paese è stato sempre interessato da conflitti causati dalla convivenza non facile tra più etnie, a cui si associarono le lotte condotte dai comunisti e dal movimento contadino: la repressione statale si concentrò sia contro le spinte indipendentiste sia contro le lotte sociali. Il ruolo delle forze armate si rivelò da subito determinante. I militari furono ago della bilancia durante il periodo della “via birmana al socialismo” di Ne Win, tra il 1962 e il 1988, caratterizzato dall’interventismo statale in economia, e continuarono ad esserlo anche negli anni Novanta e Duemila. Dopo aver represso la “Rivolta 8888” contro la crisi economica di fine anni ’80, i militari hanno ripreso il potere (e ribattezzato il paese “Myanmar”), ponendo fine alle politiche economiche stataliste e opponendosi alla Lega Nazionale della Democrazia (NLD), partito socialdemocratico guidato da Aung San Suu Kyi, che aveva vinto le elezioni del 1990.
La transizione verso una democrazia liberale è iniziata – dopo anni di pressioni da parte di ONU, USA e UE – nel 2010, con le prime elezioni dopo vent’anni. Nonostante la NLD di San Suu Kyi non avesse partecipato alla tornata perché critico verso la nuova costituzione e il sistema elettorale, pochi giorni dopo le elezioni la leader politica birmana venne rilasciata definitivamente. Alle elezioni del 2015, considerate dagli osservatori occidentali le prime elezioni libere del paese dal 1962, la NLD stravinse contro i nazionalisti dell’Unione della Solidarietà e dello Sviluppo, dando inizio al governo di San Suu Kyi.
Il golpe e lo sviluppo del capitalismo birmano nello scenario globale
Gli ultimi anni sono caratterizzati da aperture economiche e da relazioni commerciali particolarmente ampie con Cina, Singapore, Giappone e Thailandia, entrando nel 2014 a far parte dell’Associazione dei Paesi del Sud-est asiatico (ASEAN).
Il paese ha registrato una crescita rapida e costante del PIL, con uno dei tassi più elevati dei paesi ASEAN, tant’è che la Banca Mondiale ha promosso il paese a economia emergente nel 2014. Tuttavia, la crescita degli indicatori sociali come il livello di istruzione o l’aspettativa di vita non è in linea con quella del PIL. Nel mentre il capitale birmano è riuscito a svilupparsi con successo in settori come il turismo, l’edilizia e i trasporti. A conferma delle disuguaglianze sociali presenti nel paese, in Myanmar il salario minimo è di circa 100 dollari mensili, quasi la metà rispetto a Cambogia e Vietnam.
All’interno degli scenari politici ed economici globali, i monopoli locali cercano di migliorare la propria posizione nella piramide imperialista, con un particolare interesse da parte dei militari. Non è un mistero, infatti, che alcune delle più importanti società del paese, tra cui Myanmar Economic Corporation (MEC) e Myanmar Economic Holdings Limited (MEHL) sono detenute da militari e sono proprietarie di varie società più piccole attive nei vari settori economici. Non solo, nell’area si scontrano gli interessi di USA e Cina. Già nel 2011, l’allora Segretario di Stato Hillary Clinton visitava il paese, richiedendo un’accelerazione nel processo di transizione democratica e la liberazione dei prigionieri politici legati alla Lega Nazionale per la Democrazia, Aung San Suu Kyi in primis. Alla luce del golpe, immediata è stata la condanna da parte del nuovo presidente Joe Biden. Al contrario, la Cina si è opposta in sede ONU alla risoluzione contro il golpe proposta da Londra, augurando una risoluzione pacifica della crisi interna. Ricordiamo anche che Pechino ha sempre sostenuto il governo birmano sulla questione dei Rohingya, quando sotto accusa era lo stesso operato di San Suu Kyi. Non ci si deve stupire: il Myanmar non solo è membro della Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture (AIIB) – ente a trazione cinese opposto al FMI, alla Banca Mondiale e alla Asian Devolepment Bank – ma è anche soggetto a diversi investimenti cinesi, come dimostra l’interesse mostrato a fine gennaio dal Dongzhan Textile Group sul tessile birmano.
Un dato importante che può far luce sulle reali motivazioni dei militari è l’attività di organizzazioni sindacali come la Industrial Workers’ Federation of Myanmar (IWFM) che non si sono accontentate delle deboli concessioni sul diritto di sciopero ma hanno protestato per poterlo estendere anche in quei luoghi di lavoro dove non è presente un’organizzazione, oltre a richiedere anche il diritto di associazione in condizioni analoghe.
Il nuovo esecutivo, utilizzando la scusa della situazione eccezionale, potrebbe eliminare le scarse concessioni fatte ai lavoratori per meglio tutelare i profitti delle loro aziende, oltre a giocare la carta degli scontri etnici per dividere la classe operaia e legittimare provvedimenti di stampo autoritario. Tuttavia, la loro azione ha incontrato maggiori resistenze: in pochi giorni, infatti, gli scioperi e le manifestazioni si sono estese in tutto il territorio nazionale e i lavoratori hanno dimostrato la loro reattività. Ad essi si sono unite anche diverse organizzazioni studentesche. In alcuni casi gli scioperi contro i militari sono riusciti a bloccare le attività del paese, come accaduto in un’importante miniera di rame, detenuta sia dai militari che da una compagnia cinese, dove ben 2000 lavoratori hanno incrociato le braccia fermando il lavoro di estrazione dei minerali, con la richiesta del ritiro dell’attuale esecutivo golpista.
La Federazione Sindacale Mondiale – l’organizzazione internazionale del sindacalismo di classe – ha condannato con un comunicato il colpo di Stato, esprimendo la propria solidarietà alla classe operaia, al movimento contadino e agli strati popolari, rivendicando il diritto del popolo birmano a scegliersi il proprio futuro, senza condizionamenti da parte degli attori interni ed esterni. Va ricordato che tanto i regimi militari quanto i governi democraticamente eletti (inclusi quelli della NLD) hanno attuato azioni di repressione delle lotte operaie e contadine, tutelando padroni locali e stranieri. Il Partito Comunista di Birmania – dal 1939 in prima linea contro il colonialismo britannico e l’occupazione giapponese – è tutt’ora illegale, colpito dalla repressione pluridecennale e costretto ad operare in clandestinità anche negli anni di “transizione democratica”. Per le classi popolari birmane diventerà sempre più evidente che i loro interessi non possono essere espressi da nessun golpe militare, in assenza dell’organizzazione della lotta di massa e della capacità di esprimere una politica autonoma dei lavoratori e della classe operaia.