“Al mattino mi sveglio ancora convinta di essere a casa, poi non appena lo sguardo mette a fuoco qualche dettaglio, realizzo di trovarmi qui e devo dire che la sensazione mi fa svegliare repentinamente. Le giornate sono scandite da una serie di eventi che si ripetono sempre uguali a se stessi: vitto (colazione), aria/doccia, vitto (pranzo), aria/doccia, vitto (cena). Mi sveglio però molto prima dell’arrivo del vitto, fuori è ancora buio, ma in sezione iniziano a pulire le lavoranti, si sente odore di caffè, le agenti parlano ad alta voce”
Cosa pensiamo in Italia se sentiamo parlare di lotte, carcere, repressione? La maggioranza degli italiani vedrà condensarsi nella mente un’immagine abbastanza definita, legata al passato, ai grandi eventi che hanno caratterizzato la storia mondiale. “Carcere”, “repressione”, questi termini evocano una realtà che esiste ma che non riguarda il nostro quotidiano. Riflettendo su queste due parole la mente corre ai conflitti degli anni ‘60 e ‘70, gli arresti, le leggi speciali, frammenti di storia appartenenti ad un’epoca ormai lontana. Secondo il sentire comune quel periodo ha visto col passare degli anni un calo del conflitto e contestualmente un calo della repressione da parte dello stato. Oggi siamo portati a pensare di poter esprimere il nostro pensiero liberamente senza il timore di subire delle ripercussioni ed anche partecipare a qualsivoglia manifestazione.
Ma le cose stanno davvero così?
A ben vedere, la situazione è differente. Diverse persone, oggi, sono in galera per ragioni politiche, moltissime altre sono sotto processo e rischiano di finirci.
Le parole in apertura d’articolo sono di Dana Lauriola, condannata a 2 anni di carcere per un’azione pacifica contro la Tav Torino-Lione. Gli sono stati contestati “interruzione aggravata di servizio di pubblica necessità” e “violenza privata”, reati la cui pena minima è 15 giorni. Il fatto che Dana viva in quella valle e che – dall’epoca dei fatti ad oggi – non abbia rinnegato le sue idee sono state considerate delle aggravanti. La vicenda ha creato scalpore tanto da portare perfino associazioni come Amnesty International e Greenpeace a condannare la sua carcerazione, insieme al sindaco di Bussoleno e moltissimi altri. Questa è la protesta che è costata a Dana 2 anni di reclusione, rea di aver parlato a un megafono.
Ma Dana non è l’unica a trovarsi in prigione oggi per una protesta, Marina Cugnaschi e Francesco Puglisi stanno scontando rispettivamente 12 anni e 3 mesi e 14 anni per aver partecipato agli scontri del G8 di Genova nel 2001.
Condannati in via definitiva per “devastazione e saccheggio”, un reato istituito durante la dittatura fascista e mai cancellato nell’Italia repubblicana. Questo reato è stato applicato raramente nel dopoguerra e nei decenni successivi, viene però riscoperto ed utilizzato in maniera sempre più frequente a partire dalla fine degli anni ‘90 in contesti di piazza e di stadio. Un capo di imputazione oggetto di lungo dibattito in quanto presenta sul piano giuridico diverse incongruenze. C’è l’elemento della discrezionalità nell’interpretazione, non essendo ben definito quale azione corrisponda a devastare e saccheggiare e quali sono i confini con altri reati comparabili (furto, violenza aggravata, danneggiamento…). Inoltre si può essere condannati per devastazione e saccheggio anche se non si è direttamente coinvolti in azioni violente, per “compartecipazione psichica”. Infine non si può non notare come le pene inflitte per questo reato – dagli 8 ai 15 anni – siano superiori a quelle comminate per reati ben più gravi. Basti pensare al reato di associazione mafiosa o quello di atti ostili che espongono lo Stato al rischio di una guerra:
-L’Articolo 416 bis del codice penale stabilisce che “Chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da sette a dodici anni… Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da nove a quattordici anni…”
-L’Articolo 244: “Atti ostili verso uno Stato estero, che espongono lo Stato italiano al pericolo di guerra. Chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da cinque a dodici anni.”
La sentenza sui fatti di quel G8 ha colpito – tra gli altri – Vincenzo Vecchi, condannato a 11 anni e 6 mesi. Dopo la condanna Vincenzo è fuggito in Francia dove ha vissuto da ricercato lavorando come imbianchino. “Vincent” – come lo chiamavano gli abitanti del luogo – è stato raggiunto pochi mesi fa dalle autorità e portato nuovamente in cella. La Francia però, ha respinto il mandato d’arresto europeo emesso dall’Italia in quanto il reato di “devastazione e saccheggio” non ha un corrispettivo nel codice penale francese.
Se poi ampliamo il discorso – oltre chi è in carcere attualmente – a chi si trova sotto processo per lotte politiche, le persone coinvolte diventano innumerevoli.
Il 10 Marzo 2020 un operaio di 41 anni muore schiacciato in un macchinario in uno stabilimento della Opas di Carpi (Modena), i colleghi organizzano una protesta davanti il loro posto di lavoro, la polizia giunta sul luogo ferma e denuncia 8 persone per violazione del decreto emergenziale, violenza privata e manifestazione non autorizzata. Sono solo le ultime denunce arrivate nel modenese, provincia al centro di un esperimento repressivo che sta coinvolgendo centinaia di persone impegnate in scioperi, manifestazioni e picchetti. Ne sono un esempio i lavoratori della Italpizza, colosso che esporta pizza surgelata in tutto il mondo. Grazie ad una lunga lotta sono riusciti ad ottenere un accordo che prevede l’internalizzazione di 600 lavoratori a partire dal 2022, aumenti salariali e l’applicazione del contratto alimentare per chi produce le pizze in catena di montaggio. Per quelle proteste però, 120 persone sono finite sotto processo. I reati imputati sono violenza privata (per i picchetti) resistenza a pubblico ufficiale (sempre per il blocco dei cancelli) oltraggio a pubblico ufficiale e manifestazione non autorizzata. Secondo il Si Cobas – sindacato protagonista delle lotte – è il semplice esercizio del diritto di sciopero. A queste denunce si sommano quelle per altre vertenze: 108 per la Alcar 1, 60 Gls, 11 Emilceramica, 21 Bellentani, 40 GM Carrozzeria e Cataforesi, 45 Opera Group, 7 Gigi Salumificio, 9 Emiliana Serbatoi e molte altre per un totale di oltre 450 persone sotto processo.
Stesso copione in Sardegna dove ad inizio 2019 numerose proteste videro come protagonisti i pastori locali. Migliaia di persone in strada, emblematiche le immagini dei produttori che versano ettolitri di latte a terra. Cosa stava accadendo? Una crisi del settore aveva portato i grandi industriali lattiero-caseari a scaricare il danno economico sui produttori primari. Il latte che i pastori producevano veniva pagato sempre di meno fino a scendere al di sotto di 0,60 euro al litro, un prezzo insostenibile rispetto al costo di produzione. Quelle proteste furono seguite da un’ondata di denunce, quasi tutte per “blocco stradale” (reato introdotto dal recente Decreto Sicurezza di Matteo Salvini e mai cancellato dai successivi governi). Oltre 1.000 pastori sono sotto processo. Amaro il commento del portavoce dei “Pastori sardi senza bandiere”: “Siamo profondamente delusi: se lo Stato avesse profuso lo stesso impegno che sta mettendo nelle denunce per cercare di arrivare ad un prezzo del latte equo, oggi parleremo di due euro al litro” ed aggiunge “Qui si sta processando il diritto a difendere il proprio lavoro, la politica deve iniziare ad occuparsi di questi cittadini onesti: siamo scesi in piazza per reclamare i nostri diritti. Ora, invece, ci stanno togliendo la libertà di esprimere i nostri pensieri. Cosa sta facendo la politica in questo momento? Nessuno parla di queste denunce, né in Regione né nel Governo nazionale. Non si è dato peso alla protesta e alle persone e ancora oggi non si riesce a capire il problema”.
Si sono dovuti misurare con il Decreto sicurezza anche i lavoratori della tintoria Superlativa di Prato. “Non abbiamo giorni di ferie o malattia, non percepivamo lo stipendio da 7 mesi” raccontava Samb Papa, lavoratore dello stabilimento dal 2016. Una situazione insostenibile che ha spinto i lavoratori a scioperare e scendere in strada. Per quelle proteste 21 operai sono stati multati con sanzioni fino a 4mila euro per blocco stradale, per un totale di 41mila euro.
Questi – purtroppo – sono solo alcuni esempi di repressione nell’Italia odierna. Mentre dei manifestanti si trovano ancora in carcere per gli scontri del G8 di Genova, Pietro Troiani e Salvatore Gava, condannati per l’irruzione nella scuola Diaz sono stati promossi a vicequestori. Il primo aveva introdotto all’interno della Diaz due bombe molotov, il secondo ne aveva attestato il falso ritrovamento, così da creare il pretesto per il violento intervento e fornire una ricostruzione per i mezzi d’informazione. Era già avvenuto con Gilberto Caldarozzi, altro condannato per lo stesso episodio, promosso addirittura a vice direttore della direzione investigativa antimafia. Si potrebbe partire da qui per sviluppare una breve riflessione sul concetto di giustizia.
Osservando la storia recente ci si rende conto di come la legge non sia una regolamentazione ferma e immutabile nel tempo, al contrario la soglia del reato varia al variare del contesto sociale. In questi mesi in Francia centinaia di migliaia di persone hanno manifestato per delle migliori condizioni di vita. Si sono viste piazze piene di studenti, di lavoratori in sciopero contro la riforma liberista “Loi travail”, i gilet gialli, i vigili del fuoco… Proteste a cui lo stato francese ha risposto con la massima durezza, con i fermi, gli arresti e la violenza della polizia. Nelle proteste sono morte 12 persone: secondo il presidente Macron nessuno di loro è stato vittima delle forze dell’ordine, ma i manifestanti raccontano una storia diversa a partire dal caso Zineb Redouane, donna di 80 anni morta dopo esser stata colpita da un lacrimogeno. Altre persone sono rimaste ferite in modo grave riportando la perdita di dita o occhi. È capitato che queste brutalità venissero immortalate da manifestanti e giornalisti: le immagini di un manifestante disabile rovesciato a terra per essere trattenuto o più di recente quelle del pestaggio di un manifestante disarmato hanno scosso l’opinione pubblica. Da questo terreno di lotte e repressione nasce la “legge sulla sicurezza globale” (approvata in prima lettura dall’Assemblea Nazionale) che prevede “una pena di un anno di reclusione e una multa di 45mila euro per la diffusione di immagini del volto e “di altri parti identificative” di poliziotti e gendarmi durante il loro servizio”, contestata anche in sede ONU.
Qualcosa di simile sta accadendo in Grecia dove dinanzi alle numerose proteste di studenti e lavoratori – e per fronteggiare il clima d’instabilità che la pandemia ha generato – il governo di Kyriakos Mītsotakīs ha approvato un disegno di legge che istituisce presidi di polizia all’interno delle università. Un provvedimento che si somma ad altre azioni repressive quali l’introduzione di un nuovo corpo di polizia (Odos), l’assunzione di nuovi poliziotti e militari, l’introduzione del “piano di gestione delle manifestazioni”. Di fronte a queste misure, la società greca vive tutt’ora un clima di tensione sociale. Cortei e presidi di protesta sono stati organizzati dal Partito Comunista di Grecia (KKE) e dalla gioventù comunista (KNE) all’interno di una mobilitazione nazionale contro la repressione.
Laddove cresce il dissenso, cresce la repressione che vuole farlo tacere. Accade perché lo Stato non è una struttura neutra, indipendente ed al di sopra delle diverse componenti sociali, al contrario i poteri economici, i conflitti tra classi, attraversano lo stato e ne orientano l’azione. Gli spazi democratici di cui può godere attualmente il cittadino italiano potrebbero restringersi al crescere di un movimento che mette in discussione lo status quo. È già accaduto, e potrebbe ripetersi.