di Daniele Bergamini
Nella mattinata del 22 febbraio l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo (DRC), Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista congolese dell’ONU Mustapha Milambo sono stati uccisi da un gruppo di miliziani in un agguato nella regione del Nord Kivu, al confine con Uganda e Rwanda.
La notizia ha suscitato reazioni di cordoglio e condanna pressoché unanimi, dalle autorità congolesi, italiane e dalla comunità internazionale. Diversi giornali si sono concentrati a rimarcare i diversi problemi dell’area, con le autorità della DRC che non hanno un solido controllo su diversi territori del paese. Ma serviva davvero che morisse un ambasciatore occidentale per ricordarci che ci sono situazioni problematiche in varie aree dell’Africa?
Non è un caso che non si parli del contesto generale della DRC. Il paese fa parte di quelle aree geografiche ricche di risorse che fanno gola ai monopoli energetici di tutto il mondo, in particolare il cobalto, impiegato nelle batterie dei cellulari e di altri dispositivi come le macchine elettriche. Sono proprio queste multinazionali, con il benestare della classe dirigente locale, ad accaparrarsi la ricchezza derivante da queste risorse. Infatti, la Repubblica Democratica del Congo presenta un elevato tasso di povertà, unito a condizioni di lavoro disumane e largo uso di manodopera minorile anche nelle miniere dei metalli di cui è ricco il paese.
Ad aggravare la situazione c’è l’instabilità politica generata dalla presenza di numerosi gruppi armati di varia estrazione, tra questi le Forze Democratiche per la Liberazione del Ruanda (FDLR) – i ribelli di etnia Hutu – accusate dal governo di Kinshasa dell’omicidio dell’ambasciatore e già incriminate negli anni Novanta per il genocidio del Ruanda. Le FDLR hanno negato la loro responsabilità incolpando il governo. È iniziato subito il gioco dello scaricabarile tra le parti in causa. A prescindere dalle reali responsabilità sul singolo atto – ancora da appurare, così come le motivazioni del gesto – il governo e le svariate milizie sono responsabili di violenze e sfruttamento ai danni della popolazione finalizzati ad accaparrarsi le risorse locali.
La politica interna della DRC
L’attuale contesto è figlio dell’incompleta transizione politica avvenuta dopo la fuga del dittatore Mobutu, avvenuta nel 1997 a seguito della vittoria conseguita da milizie ruandesi, ugandesi e dall’esercito ribelle cappeggiato da Laurent-Désiré Kabila, l’Alliance of Democratic Forces for the Liberation of Congo-Zaire (ADFL) nella Prima Guerra del Congo.
La pace durò poco. Nel 1998, infatti, esplose la Seconda Guerra del Congo in seguito alla ribellione delle milizie Banyamulenge a Goma, capoluogo della regione del Nord Kivu. Il governo di Kinshasa impiegò enormi risorse per cacciare questi gruppi armati dal proprio territorio poiché essendo composti da ugandesi e ruandesi erano visti come ostacolo al controllo della nazione.
Ufficialmente la guerra terminò nel 2004, con un bilancio drammatico: le vittime sono stimate fra 2,7 e 5,4 milioni di morti secondo vari studi, determinate non tanto dai combattimenti, quanto dalle conseguenze di essi, ossia fame, povertà, malattie e migrazioni forzate. Per quanto sia nei fatti sconosciuto in Occidente, si tratta di uno fra i più grandi conflitti dell’età contemporanea nel post Seconda guerra mondiale, non solo per il numero di vittime ma anche per il vasto coinvolgimento internazionale (tanto che è ribattezzata da alcuni studiosi “guerra mondiale africana” o “grande guerra africana”)..
Nel 2001, durante il conflitto, venne ucciso in circostanze tuttora poco chiare il presidente congolese Laurent Kabila, sostituito dal figlio Joseph, destinato a governare il paese fino al 2019, anno in cui vinse le elezioni l’attuale presidente Félix Tshisekedi. I diciott’anni di governo di Joseph Kabila sono caratterizzati da una stabilità precaria. Ancora oggi vi sono diversi conflitti regionali, eredità diretta della Seconda Guerra Civile, e nel 2011 ha preso vita anche un tentativo di golpe, poi fallito.
Al di là dei conflitti regionali, la situazione politica è appunto instabile. I più grandi partiti del paese, di estrazione socialdemocratica, sono l’Unione per la Democrazia e il Progresso Sociale (UDPS) al governo e il Partito del Popolo per la Ricostruzione e la Democrazia (PPRD), fondato da Joseph Kabila nel 2002. Nonostante il multipartitismo e l’adesione a una formale democrazia borghese, il sistema elettorale è sempre stato poco trasparente – basti pensare che le ultime consultazioni, originariamente promesse per il 2016, si sono tenute solamente nel 2018.
La classe lavoratrice è del tutto priva di una propria rappresentanza e l’azione sindacale è notevolmente indebolita sia da logiche concertative che dai conflitti etnici e religiosi abilmente sfruttati dai padroni a tutela dei loro profitti.
Le multinazionali e la contesa imperialista.
Le risorse del paese attraggono le multinazionali di vari paesi e questo, assieme all’azione del governo e delle milizie ribelli, è una delle cause dell’instabilità e della povertà che affliggono la popolazione congolese.
Diamanti, oro, rame, cobalto, coltan e petrolio sono la fonte di profitto per eccellenza, ma le entrate generate vanno a beneficio solo della borghesia, mentre il proletariato vive con circa due dollari al giorno senza alcuna garanzia.
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni, tra cui le batterie dei moderni cellulari e delle automobili elettriche, hanno conferito molta importanza al coltan e al cobalto, di cui il Congo è il maggiore produttore mondiale, tant’è che nel 2018 ha rappresentato oltre il 60% della produzione mondiale. La green economy – tanto decantata nei paesi sviluppati – si fonda sul profitto di aziende che applicano regimi di semi-schiavitù e che devastano l’ambiente locale tramite disboscamenti ed estrattivismo selvaggio.
In DRC i minerali vengono estratti sia in modo artigianale che industriale, con il primato assoluto della Glencore, colosso anglo-svizzero leader mondiale del settore estrattivo. Sono presenti grandi multinazionali di diversi paesi: le statunitensi Tesla ed Apple, la giapponese Panasonic, le tedesche Volkswagen e Daimler, la svedese Northvolt, la canadese First Cobalt, le cinesi Gem e Huawei, l’australiana Pilbara Minerals, la russa Rosatom. Allo sfruttamento delle risorse minerarie è connesso il fenomeno del land-grabbing, l’acquisto di terreni molto vasti da parte di multinazionali straniere per utilizzarli sia come bacini di estrazione sia come monocolture estensive. Non mancano, poi, denunce di violazioni molto gravi dei diritti umani più basilari. Apple, Google, Microsoft e Tesla sono state citate in causa da una corte statunitense. Queste aziende erano a conoscenza dell’impiego di bambini e dei numerosi incidenti gravi, anche letali, accaduti nel processo di estrazione di minerali che acquistano da imprese congolesi, cinesi ed europee.
L’azione di sfruttamento e rapina non è limitata alle pessime condizioni lavorative. Le multinazionali e i governi della regione hanno acquistato risorse a prezzo stracciato nel corso della guerra nei primi anni Duemila, pratica che continua negli attuali conflitti regionali. Tanto le autorità locali quanto le multinazionali si appoggiano spesso a queste milizie, per accaparrarsi risorse e per tenere sotto controllo i lavoratori e la popolazione. Massacri, stupri e altri crimini sui civili sono pratiche all’ordine del giorno per affermare il proprio dominio su alcune porzioni di territorio e le relative risorse.
La borghesia congolese non è del tutto passiva. Il paese registra una crescita del PIL tra il 4 e il 5% annuo. La crescita della domanda di minerali diventa un’occasione importante per le compagnie locali per consolidare il proprio ruolo di aziende esportatrici. Da due anni a questa parte la Gécamines, la compagnia mineraria nazionale, tenta di contendere ai grandi colossi stranieri il processo estrattivo, facendo pressioni sul proprio governo affinché vengano rinegoziate le concessioni. Lo Stato congolese cerca, quindi, di tutelare questo capitale, consolidando la sua posizione nella piramide imperialista, in maniera simile a quanto fatto dalle petromonarchie del Golfo con i combustibili fossili.
Gli interessi italiani nella DRC
Guardando alla filiera del cobalto, anche FCA – ora parte del colosso Stellantis, sorto dalla fusione della stessa con Peugeot – ha i suoi interessi. Le nuove frontiere della green economy hanno costretto l’azienda a non perdere il passo con le concorrenti che già hanno avviato a una progressiva transizione per avere nelle auto elettriche il prodotto di punta. Sebbene dal 2020 FCA abbia aderito a progetti di tracciamento del cobalto, come Fair Cobalt Alliance e Responsible Sourcing Blockchain, l’azienda si è sempre rifiutata di fornire la lista dei propri fornitori che operano nella DRC. Non è inverosimile, quindi, che la materia prima utilizzata dalla storica casa automobilistica torinese provenga dalla Glencore, il colosso minerario protagonista nella violazione di diritti umani nel processo estrattivo.
Bisogna, però, precisare che la penetrazione economica italiana in Congo è minoritaria rispetto a quella di altri paesi e si è sviluppata in settori diversi dal minerario. Luigi Scordamaglia, Amministratore Delegato di Inalca, ricordando Attanasio ha elogiato il supporto dell’ambasciatore alle aziende italiane. Inalca è parte del gruppo Cremonini, una delle più grandi aziende alimentari italiane, e possiede in Congo stabilimenti deputati alla distribuzione nonché allevamenti intensivi di bovini. Risulta, quindi, chiaro il ruolo della diplomazia italiana nella regione, finalizzata a promuovere e tutelare l’attività delle proprie multinazionali.
Altre grandi aziende, come l’ENI, hanno iniziato a considerare accordi con Kinshasa e joint venture con altre aziende in progetti infrastrutturali. Non solo, l’Italia vende armi al governo congolese. Africa e Medio Oriente costituiscono, infatti, circa il 50 % delle vendite di materiale bellico e il paese africano è un buon mercato per via della domanda finalizzata al contrasto delle bande ribelli. Come nel caso più noto della guerra in Yemen, l’Italia fa della guerra una fonte di profitto, cercando in questo modo di favorire la penetrazione economica dei propri monopoli.
Al di là della vicenda di Attanasio, il lato umanitario è del tutto secondario nell’azione della diplomazia italiana, la quale rimane principalmente un appoggio per le imprese italiane interessate a investire nei diversi scenari mondiali.