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Quanto pesa la disparità di genere per le donne lavoratrici

di Francesca Antonini

Attualmente in Italia le donne rappresentano il 42,1% degli occupati complessivi del paese e il tasso di attività femminile è del 56,2% (contro il 75,1% degli uomini). I dati Istat relativi all’ultimo periodo del 2020 segnano un’ulteriore tendenza in calo: il 98% di chi ha perso lavoro è rappresentato da donne, su una perdita totale di 101.000 unità lavorative. In tempi di crisi, licenziare una donna è più facile che licenziare un uomo: le donne infatti sono maggiormente impiegate con contratti a termine, part-time o irregolari rispetto agli uomini per ostacoli di molteplice natura che vengono posti di fronte ad una stabilizzazione. In Europa siamo tra i paesi con il più alto tasso di inoccupazione femminile.

A questo si somma, molto spesso, il peso della cultura maschilista e delle forme di violenza di genere che avvengono anche sui luoghi di lavoro. Secondo un’indagine Istat pubblicata nel 2018 e riferita a dati del 2015/2016, sono 1.404.000 le donne che nel corso della loro vita lavorativa hanno subito molestie fisiche o ricatti sessuali sul lavoro. Un fenomeno estremamente diffuso che include forme di contatto fisico non desiderate o tentativi di utilizzare il corpo della donna come merce di scambio per ottenere un lavoro, per mantenerlo o per ottenere progressioni nella loro carriera.

Nel nostro paese il divario retributivo tra uomini e donne a parità di mansioni a tutti i livelli professionali è del 5%: un dato estremamente inferiore rispetto alla media europea  (14,8%), ma che non deve rassicurarci, in quanto determinato da diversi fattori che connotano l’impianto del mercato del lavoro in Italia, come ad esempio l’elevato tasso di inoccupazione femminile. Il divario retributivo è maggiore quando le donne sono impiegate nel privato rispetto che nel pubblico e sembra aumentare in modo proporzionale alla qualifica professionale: tanto più è elevato il titolo di studio, tanto maggiore è la differenza retributiva tra donne e uomini.

https://winningwomeninstitute.org/wp-content/uploads/2018/09/Gender_Gap_Report_2018.pdf

Il numero più elevato di contratti a termine o part-time con cui le donne sono impiegate rispetto agli uomini non rappresenta invece un fattore di incidenza sul gap salariale, il quale viene calcolato su base oraria lorda, quanto sicuramente un elemento determinante sullo stipendio o sulla pensione. In Italia quasi una donna occupata su tre (il 32,4%), per un totale di oltre tre milioni di donne, svolge un lavoro part time, quota che per gli uomini è solo dell’8,5%.

Le motivazioni per cui le donne sono maggiormente impiegate rispetto agli uomini con contratti part-time è da ricercare in diversi fattori che vanno dalla cura della casa e della famiglia, ancora demandate in larga parte alle figure femminili, fino alla gestione di anziani o di componenti con disabilità, ancora oggi prerogative della vita “privata” delle famiglie, sulle quali ricade la gestione quasi totale senza un adeguato sistema pubblico di assistenza. Troppo spesso la scelta della maternità, o anche solo la sua possibilità futura, diventa oggetto di ricatto per le donne, e spesso fa la differenza tra l’assunzione e un rifiuto, tra un contratto part time o full time, a tempo determinato o indeterminato.

A tutto questo si somma il peso della cultura maschilista e del sessismo che la società capitalistica non solo non riesce ad eliminare, ma al contrario in una certa misura concorre a riprodurre. Aspetti materiali riguardanti la realtà economica e l’ambito lavorativo ed elementi culturali si compenetrano vicendevolmente in un rapporto dialettico per andare a definire un quadro complessivo in cui disuguaglianze, violenze e oppressione in forme molteplici sembrano rappresentare il filo conduttore nel mantenimento delle disparità di genere.

Nelle società capitaliste, nonostante i proclami progressisti, troppo spesso il corpo femminile viene mercificato riducendolo ad oggetto sessuale e troppo spesso la donna viene vista come la personificazione di una blasfema sineddoche in cui una parte è sufficiente ad indicare la sua integrità psico-fisica. La cosiddetta oggettivazione è un processo attraverso il quale viene messa in atto una divisione della persona in parti, in base alla propria funzionalità nel perseguimento di scopi ben precisi. È stato dimostrato attraverso vari esperimenti psico-sociali che donne che vengono presentate in modo oggettivato, ovvero quando il focus dell’attenzione viene concentrato sull’aspetto fisico, non solo sono percepite meno umane e meno sensibili al dolore, ma vengono anche de-personalizzate, attribuendo loro ridotte capacità mentali e morali.

Lo strumento per eccellenza dell’oggettivazione sessuale è lo “sguardo oggettivante” che porta donne e ragazze ad interiorizzare la prospettiva dell’osservatore e a trattare se stesse come oggetti da valutare sulla base dell’aspetto fisico. Ruolo da illustre protagonista nella cultura dell’oggettivazione sessuale è riservato ai mass-media e all’utilizzo strumentale che di questi viene fatto, i quali ci impongono un modello femminile limitato e definito da pochi tratti stereotipati in cui le bambine sono sessualizzate e le donne mature vengono innaturalmente cristallizzate all’interno di una dimensione immune al fluire del tempo.

Ancora oggi in immagini pubblicitarie, giornali e riviste predomina l’antico paradigma di associazione tra uomo e cultura, donna e natura (uomo raffigurato con maggior rilevanza facciale-qualità intellettuali- face-ism e donna con maggior rilevanza del corpo-qualità fisiche ed emotive) contribuendo in tal modo al mantenimento dell’ineguaglianza tra i generi e alla dilagante diffusione di comportamenti e atteggiamenti sessisti, come la tolleranza verso stereotipi di genere o verso la cultura che giustifica lo stupro e colpevolizza le vittime, che afferma che sono le donne a “provocare” lo stupro con la loro condotta, e così via. Esiste un legame tra esposizione ai media, preoccupazione per il proprio aspetto e sviluppo di disordini alimentari in donne e adolescenti.

Dal quadro delineato appare chiaro il fatto che oggi la disparità di genere rimane un elemento profondamente radicato nel tessuto sociale, culturale ed economico del nostro paese. Troppo spesso la questione di genere viene utilizzata dalle forze politiche borghesi ponendola su un piano che tiene conto solo ed esclusivamente dei fattori di carattere culturale, tralasciando completamente gli aspetti economici\strutturali che la definiscono. La questione viene ridotta in modo strumentale ad una funzione di appannaggio di interessi e prerogative che non prevedono il minimo avanzamento nella direzione della parità dei diritti, né tantomeno un riconoscimento dell’effettivo contributo che figure femminili al governo potrebbero apportare, riducendo la questione “quote rosa” a un mero far numero.

Di esemplare attualità è il polverone alzato di recente dal Partito Democratico in riferimento alla magra rappresentanza femminile nell’esecutivo nominato da Draghi, come se una maggiore presenza femminile possa rappresentare l’elemento discriminante in grado di mettere in discussione la natura di quello che si prospetta essere un governo lacrime e sangue. Oggi più che mai è importante organizzarsi e lottare contro una società che produce violenza fisica e sociale sulle donne, per la conquista del diritto al lavoro, ad una retribuzione e a una pensione dignitose, alla salute e alla maternità.

Una visione forzatamente interclassista della questione di genere non ha l’effetto di ampliare, ma di indebolire la lotta per la parità di genere, dandone una versione solo parziale, condannandola a prerogativa e interesse esclusivamente femminile, eludendo dalle condizioni materiali che concorrono fortemente al mantenimento di discriminazioni, violenze e oppressione per le donne e di fatto snaturandola.

La lotta per l’emancipazione femminile e per la parità di genere è parte integrante della lotta di classe: la donna oggi subisce un’oppressione che si pone su un duplice piano di sfruttamento, quello di classe e quello di genere. L’una legata alla sua condizione di proletaria, costretta a subire le ingiustizie di un sistema fondato sul profitto di pochi a scapito di molti, e l’altra legata a fattori sovrastrutturali che permangono nella società in forma di pregiudizi, stereotipi e disuguaglianze.

È compito di un’avanguardia comunista lottare per scardinare dalle radici le condizioni materiali, sociali e culturali che mantengono vive le contraddizioni di un sistema fondato sullo sfruttamento e la sopraffazione. L’emancipazione del proletariato non può che passare necessariamente dall’emancipazione della donna proletaria, dalla sua emancipazione culturale, intellettuale, sessuale, politica e sociale. Le donne proletarie devono organizzarsi ed essere parte attiva e partecipe nella lotta di classe perché è solo attraverso la lotta contro lo sfruttamento e l’oppressione per la creazione di una società più giusta che potranno realmente essere superate le differenze di genere.

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